Il tempo è un dio breve

C’è una donna che ripercorre la sua vita per arrivare al mistero del presente. C’è un amore che finisce e un altro che nasce, da difendere contro l’ombra del male che lo precede, l’ombra di tutti i mali, la morte. E se questo male investe un bambino allora una voragine si allarga sotto di noi. È possibile la lotta, come contro l’angelo, che è Dio. È forse possibile uscir feriti ma salvi e con un nome nuovo scritto nella propria storia e così forse un’altra vita ci aspetta. È questo il sogno di ogni amore. Che non finisca. O è solo una promessa. Ma una promessa è molto più potente di un sogno. In un paesaggio di neve e di incanti la protagonista, in compagnia del figlio, incontra un uomo; il male per un momento è confinato alla sua dissolvenza, costretto dalla forza tutta umana dell’amore che diventa divino nella potenza di un’ostinazione necessaria. Ci è stato dato e non può più morire. E quelli che ci hanno amato, tutti intorno a noi come alberi, colonne di un cielo silenzioso, con chiome piegate dalla bellezza della neve, a raccontarci l’eterna storia dell’amore: insieme è nulla la paura. Insieme è nulla la paura.
 

Se una mamma discute con Dio  
da Il Corriere della sera, 15 novembre 2012

di Cesare Segre

Due anni fa Mariapia Veladiano ha dato una scossa ai valori correnti nella produzione, pur rispettabile, dei romanzi italiani. Esordiente anche se non giovane, sconosciuta a tutti, ha visto La vita accanto vincitore del Premio Calvino, giungere fino al secondo posto allo Strega, guadagnando poi il Premio Cortina. Ora, con Il tempo è un dio breve

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(Einaudi Stile libero), meglio ancora esplicita, oltre che le sue straordinarie capacità di scrittura, il sottofondo, inconsueto e anticonformista, del suo pensiero. Un sottofondo religioso, nella forma di meditazione su Dio e sul male, grande tema che investe tutti i viventi, rivela le contraddizioni tra l’onnipotenza di Dio e il libero arbitrio, ci fa reclinare la testa di fronte al dolore a cui nessuno può sottrarsi.

La Veladiano sceglie con abilità un caso che, nell’economia universale, può apparire futile. La protagonista, teologa e collaboratrice di giornali religiosi come la stessa autrice, viene traumatizzata da un grave attacco di dermatite che tormenta per qualche tempo il suo unico figlio bambino, Tommaso. Vorrebbe qualche spiegazione dall’alto, sui motivi per cui si debba accettare che i bambini, e il suo in particolare, siano vittime di offese o dolori o morte; invece, Tommaso subirà anche, anni dopo, un attacco, seppure non grave, di epilessia. A questo punto, il terrore della madre si fa quasi patologico, e avrà un esito tragico e imprevedibile.
Se le vicende esterne sono limitate, grandissima è la varietà di considerazioni della donna, che spesso si rivolge direttamente a Dio, quasi disputando con lui. Non sappiamo quanto il lettore italiano, specie se appartenente alla maggioranza ateo-devota, parteciperà a queste riflessioni, appassionate e ossessive. Noi le preferiamo a qualunque manifestazione di una religiosità superstiziosa e convenzionale. La protagonista attraversa secoli di riflessioni sui grandi problemi, e se pure non si scopre troppo sulle sue fonti (ovviamente la Bibbia e in particolare i libri sapienziali, poi qualche mistico come San Giovanni della Croce), possiamo pensare che tra queste ci stiano opere altissime come le Provinciales di Pascal (1656-57), con il loro dibattito teologico, talora satirico, sulle controversie fra gesuiti e giansenisti. Il libro della Veladiano potrebbe essere ascritto alla teodicea, parola e concetto del filosofo tedesco Leibniz (1710), che i dizionari spiegano così: «Teologia naturale riguardante la giustificazione della divinità in relazione alla presenza del male nel mondo». Di questo infatti si dibatte in tutto il romanzo, anche con affermazioni audaci: «Bisognava avere compassione di Dio per il male del mondo. Compassione per la sua divina impotenza»; oppure: «Anche se dopo la morte di Gesù il male avesse abbandonato la Terra, sarebbe rimasto lo scandalo del male che lo aveva preceduto. È l’aporia di una salvezza che vuole abitare la Storia». La Veladiano sfiora forse l’eresia, come le dice scherzosamente il direttore del suo giornale («Attenti, c’è l’eretico fra noi!»); in verità abbiamo il segno di una coscienza che non si ritrae dalle sue constatazioni, laicamente raggiunte.

Questo è un romanzo d’amore, non solo per l’attaccamento madre-figlio. C’è anche l’amore dei sensi. Prima quello, poco espresso e mal realizzato, per il marito. Qui la narrazione ci porta in un ambiente di personaggi troppo belli e troppo ricchi, come il padre e la zia della brutta Rebecca di La vita accanto. Figlia di contadini, Ildegarda (così si chiama la protagonista, in omaggio a una monaca medievale autrice, tra l’altro, di un erbario) partecipa, ma con spirito critico, ai privilegi della famiglia in cui è entrata, e analizza l’incapacità di amare della suocera, trasmessa purtroppo al figlio, suo marito. Il quale, sempre più assente, finisce per abbandonare moglie e figlio, così come aveva già fatto suo padre, e darà segno di vita, da un Paese straniero, soltanto con una richiesta di divorzio. Lasciata sola con la sua maternità esasperata, la donna troverà un pastore luterano, Dieter, che moglie e figlio li ha perduti davvero, e vive una crisi ancora peggiore di quella di Ildegarda. Il dibattito religioso così si fa vero dialogo e crea una concordia delle fedi; in più si manifesta quasi istintivamente come una passione carnale, che è anche imposizione di realtà. I due penseranno persino al matrimonio.

La fantasia della Veladiano è legata ai luoghi, veri o inventati: la città (Milano); la villa del marito, a Villacadra; infine, e soprattutto, Campodalba, in Alto Adige, con puntate spesso solo immaginate verso Heidelberg, città di Dieter. Campodalba, dove hanno curato la seconda malattia di Tommaso e dove Ildegarda ha conosciuto Dieter, è una specie di «Montagna magica», con prospettive mentali analoghe a quelle del romanzo di Thomas Mann, e il clima sottile, la neve ghiacciata, sembrano rendere i pensieri più limpidi. Bellissimi tutti i paesaggi alpini. Qui Ildegarda è soddisfatta nei sensi e nell’intelletto, e la seguiamo fino a un matrimonio di cui ci viene fornita la colorita descrizione. Purtroppo si tratta solo di un sogno. Perché Ildegarda, mai liberata dalla sua ossessione, ha elaborato una specie di patto con Dio (come al solito, silente), in cui offre la propria vita per assicurarsi la vita e la felicità di Tommaso. Non ha trovato un fra Cristoforo che la liberasse da un voto non valido, dato che avrebbe sacrificato Dieter e il suo amore, come nei Promessi sposi Lucia, mantenendo il voto di castità, avrebbe violato la promessa fatta a Renzo. Proprio allora, e sembra un adempimento, le diagnosticano una malattia inesorabile, e i suoi pensieri deragliano senza riparo verso l’indistinzione.

Ci sarebbe da riflettere sul titolo del libro, che invece di far riferimento, come ci si aspetterebbe, al problema del male, allude invece alla brevità dei nostri sentimenti e delle nostre esperienze: una brevità che è strazio continuo, certezza d’angoscia. E merita ancora di essere sottolineato che, mentre si continua a dibattere sulla morte o sulla vita del romanzo, la Veladiano ci ha offerto, contro ogni canone e ogni aspettativa, un grande romanzo che è anche un romanzo religioso.

Cesare Segre
15 novembre 2012 | 11:36 Il corriere della sera

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Fonte: Il corriere della sera

Dolore e Felicità da La Civiltà Cattolica, 16 febbraio 2013

di Ferdinando Castelli sj 

La presenza di Mariapia Veladiano sulla scena letteraria, avvenuta nel 2010, costituisce un evento. In lei incontriamo una narratrice «fuori moda», che percorre strade poco praticate dalla letteratura corrente e ci mette dinanzi a temi forti e inquietanti quali la realtà del male, il significato del dolore, il silenzio di Dio, la forza e la debolezza della fede, l’atteggiamento di coraggio o di resa dinanzi alle difficoltà della vita.

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E ciò in uno stile chiaro, asciutto, ricco di risonanze. Col romanzo di esordio La vita accanto (2011) ha vinto il Premio Calvino, attirando l’attenzione della critica e il plauso di molti lettori. E un’opera amara e coraggiosa che denucia l’ipocrisia sociale e l’incapacità di evadere da pregiudizi e canoni angusti. Narra di Rebecca, una ragazza rifiutata dalla famiglia perché brutta. Sarà salvata e restituita alla vita dall’affetto di alcune persone che le permetteranno anche di scoprire il suo talento musicale.

Con il recente romanzo Il tempo è un dio breve, la Veladiano conferma le aspettative della critica e dei lettori e si afferma narratrice raffinata, dalle profonde indagini interiori, dagli sfondi ricchi di suggestioni e di pensiero, dalla capacità di armonizzare narrazione e introspezione. Va subito riconosciuto in lei il coraggio di misurarsi, e con esito positivo, con i temi della letteratura «nobile».

La storia di due naufraghi

«Una sera ti giri perché senti tuo figlio piangere e senza che nulla lo abbia annunciato scopri il dolore del mondo» (p. 3). Così è capitato a Ildegarda, quando Tommaso, il suo bambino di tre mesi, ha cominciato a piangere per un fastidioso prurito che annuncia la dermatite. Allora «scopri che sei sola, tu e il male, tu contro il male, per tuo figlio, perché lo hai voluto tu il bambino, e lui nulla sa del male, non ha fatto il calcolo: la vita vale il male che c’è? Lo hai fatto tu il calcolo, per lui» (ivi). Il calcolo diventerà dramma, anzi incubo, quando il male si accanirà, diventerà attacco epilettico e metterà in bilico la vita del piccolo Tommaso. Sfuggirà alla morte, lasciando la madre come una naufraga in balia della bufera. E allora, «la vita vale il male che c’è?».

Ildegarda è una giovane donna che lavora come giornalista, a Milano. Proviene dalla pianura lombarda, è figlia di contadini, amanti del lavoro e dediti alla famiglia. Ha sposato Pierre, giornalista anche lui, appartenente a una famiglia agiata e di una certa nobiltà, affetto da una devastante malattia: il pessimismo. Nato, ma non desiderato né amato, e allevato «da una serie imbarazzante di baby-sitter». Senza madre, perché depressa e ricoverata in ospedale, senza padre, morto qualche mese dopo la sua nascita, Pierre è cresciuto con l’impressione di essere un intruso e di aver condannato, con la sua nascita, sua madre alla depressione: «Per un bambino la depressione della mamma è un baratro che inghiotte la vita» (p. 18). Così sarà per lui: la vita degli affetti, la serenità interiore, l’entusiamo del futuro, tutto svanirà lasciando uno strascico di vuoto e di amarezza.

Pierre aveva sposato Ildegarda non tanto per amore quanto per la prospettiva «di potersi dimenticare, perdersi un poco in un piacere dato e accolto» (p. 19). Non amava la vita e non voleva figli; «la nascita di Tommaso lo sprofondò nella voragine» (p. 8). Dopo tre anni di «incantamento perverso» da parte di Ildegarda, Pierre scompare per sempre. «A cosa servono i papà?» (p. 47), chiede il bambino alla madre, stordita dal dolore e dalla responsabilità per l’avvenire del figlio. Quando Pierre chiede il divorzio, Ildegarda, per sfuggire alla depressione e alla disperazione, si rifugia a Campodalba, nell’Alto Adige, col suo bambino. E Natale, neve e gioia per tutti. Dopo la messa, Tommaso indica alla madre un uomo, alto e robusto, che piange. Anche lui, come Ildegarda, è un naufrago della vita.

Si chiama Dieter, è un pastore luterano di Heidelberg, anche lui a Campodalba per sfuggire alla disperazione. Ha perso un figlio di otto anni, di nome Martin; poco dopo sua moglie è scomparsa di casa. «Il dolore ha corroso i suoi sentimenti e se n’è andata. Perché io le ricordavo Martin e lei non lo tollerava. E anche perché predicavo Dio che lei ormai detestava con tutto il suo corpo di madre ferita» (p. 88). Crede di aver perduto la fede. Il comune naufragio instaura tra Ildegarda e Dieter una comprensione che si traduce in amicizia e si conclude in amore, fomentato anche dal fatto che Tommaso trova nel pastore un vero padre. In realtà, quando il bambino ha un violento attacco epilettico, è lui, Dieter, a sostenere la madre e ad aiutare il malato a riprendersi. La vita rinasce, in tutti e tre.

L’amore rigenera la vita

L’amore, quando è autentico, rinverdisce gli animi e dona il sapore della vita. È quanto sperimentano Ildegarda e Dieter, durante una notte di luna. «Il silenzio era così assoluto che anche un sussurro sarebbe sembrato un grido […]. Venivamo entrambi da mondi pieni di parole che non ci avevano salvato dal dolore e dalla paura e in quell’amore muto soffocato sotto il piumone strappato dal letto cercavamo una conferma alla promessa, nata col mondo, che l’amore non finisce, che la morte non è l’ultima parola» (p. 99).

La salvezza dei due naufraghi, operata dall’incontro con l’amore, trova conferma durante la loro visita al duomo di Colonia. Ascoltano le «bellissime parole del salmo 46 che Bach aveva messo in musica in un’armonia severa che scuoteva lo spirito: Il nostro Dio è una fortezza invincibile / una buona difesa, efficace / egli ci libera da ogni pena. / Tutto ciò che è nato da Dio / ha un destino vittorioso» (p. 115). La musica di Bach risveglia la fede sopita. Dieter dichiara a Ildegarda che il loro amore è una seconda nascita; che la felicità che li avvolge viene da Dio; che avere paura di essa «è il più subdolo dei peccati perché dietro un’apparenza di umiltà riveliamo una riserva radicale nei confronti di Dio, mostriamo che non sappiamo credere che ci ama sempre per primo, che la felicità è nelle sue mani e che ce la regala senza applicare contabilità sui meriti e le colpe» (p. 117).

Ma Dieter non aveva perduto la fede? Non piangeva per questa perdita? In realtà, non aveva perduto la fede. «Ciò che aveva attorcigliato il suo spirito non era mancanza di fede. Era dolore, perdita, e insieme desiderio di felicità. Tradito e ora di nuovo ricevuto. Credeva profondamente e desiderava poter tornare a sé, alla fede che un tempo aveva conosciuto e noi tutti sentivamo vero questo suo dire di sì alla vita. E sentivamo che era felice di ritrovare in sé il pastore, il cavaliere senza macchia e senza paura che dà speranza al mondo. Il dubbio più tremendo e vero lo aveva sfiorato e segnato per sempre, ma questo ora gli lasciava una nuova capacità di sentire» (p. 103).

L’amore abita l’eternità

Il romanzo ha un finale nello stesso tempo triste e rassicurante. Triste, perché il rifiorire della vita di Ildegarda è bruscamente interrotto dalla scoperta di un cancro «in una zona molto interna del cervello. Era lì da mesi. Ora andava veloce» (p. 165). Rassicurante per l’orizzonte che le dischiude la fede, che lei ha conservato pur tra dubbi, ribellione, intermittenze. Dieter, che le resta accanto con un amore sempre più forte, le ricorda che l’amore, all’ombra della croce, non conosce il tempo, abita l’eternità; che la loro vita «troverà un compimento in Dio»; che tutto questo nostro dolore Dio lo trasforma in salvezza, in modo a noi sconosciuto (cfr p. 190). Quando lei, a proposito della confusione che le turba la mente, cita sant’Ignazio di Loyola, secondo cui «la confusione è nemica di Dio», Dieter ricorda Lutero e Calvino: «I grandi credenti si somigliano in fondo. Perché quella è la fede e quello è Dio […]. Noi luterani siamo nati guardando il male di un tempo terribile e dopo aver rifiutato la consolazione della grazia messa in vendita a poco prezzo da Roma saremmo morti nella disperazione se non avessimo guardato diritto a Dio» (ivi).

Le ultime pagine del romanzo – le più riuscite, le più intense – narrano il lento spegnersi di Ildegarda in un intreccio di sofferenza, di serenità interiore e di colloquio con Dio. Anche lo stile acquista il fascino dei chiaroscuri. Fondati nella certezza che l’amore sconfina nell’eternità, i due amanti decidono di sposarsi. Così avviene, nella chiesa parrocchiale di Dobbiaco, secondo il rito cattolico e la formula della mixta religio. Al rito assiste anche la comunità luterana di Heidelberg, di cui Dieter è il pastore. Ildegarda parla di un «momento di assoluta felicità», e chiarisce: «E cosa conta che duri poco perché questo corpo deve arrendersi ogni giorno al suo ospite [il cancro]: la felicità è un pezzo di eterno che si regala a noi. Anche la più lunga non ci basterebbe. E la promessa di un tempo in cui ci verrà restituito tutto per sempre» (p. 208). La fede scavalca il tempo e ci situa nell’eternità.

Perché il dolore?

Il tema che attraversa il romanzo e gli dà significato e compattezza è il perché del male. Perché la morte? Perché il dolore che devasta la vita? In particolare, perché il dolore innocente? Gli interrogativi, che hanno coinvolto le menti di ogni tempo, hanno assunto toni violenti soprattutto nella seconda metà del Novecento. Limitandoci al settore letterario, dinanzi all’irrompere del male, gli autori si sono schierati su tre linee. Per alcuni lo scandalo del male comporta la negazione di Dio; per altri Dio c’è, ma estraneo alle vicende umane, e il male è un mistero; per i credenti il male, sì, è un mistero, ma su di esso c’è la luce della risurrezione di Cristo, che dà una svolta alla storia. Il romanzo della Valediano si colloca su questa terza linea.

La protagonista del romanzo, Ildegarda – l’alter ego dell’Autrice, almeno sotto alcuni aspetti -, decide di «studiare teologia, con la pretesa spavalda di interrogare Dio sulle sue terribili responsabilità» (p. 53) per mali che colpiscono buoni e cattivi. Il risultato è negativo: alla nostra arroganza intellettuale Dio non risponde. Soltanto quando ci si accosta a lui con umiltà e con le lacrime, si ha una risposta rasserenante o la si attende con fiducia. Ildegarda approda alla pace interiore quando accompagna lo studio della teologia con la lettura di san Giovanni della Croce. La pietà e la mistica illuminano la teologia.

Perché il dolore nel mondo? In un primo tempo Ildegarda resta prigioniera di un malinteso: «Dio non toglie il dolore perché non può, non può, non può» (p. 124); Dio è «impotente» dinanzi al male. Occorre rassegnarsi e accettare questo mistero senza comprendere «piuttosto che restare prigionieri della disperazione» (p. 136). A spezzare le catene di questa prigione è Dieter in un vibrante colloquio con Ildegarda. Prima espone e respinge le varie ipotesi sul perché Dio permette il male; respinge anche l’idea che Dio non possa fare nulla contro il male. Poi riferisce la verità liberatrice: «Ma [Dio] ha fatto risorgere Gesù, più potente di così! e tutta la Bibbia parla dell’onnipotenza di Dio» (p. 199). Poco prima aveva affermato: «Sappiamo che c’è una vita che ci aspetta anche dietro ogni sofferenza che non capiamo. Che la vita non finisce» (p. 198).

Durante l’attacco epilettico di Tommaso, Ildegarda dinanzi a quella «voragine» di dolore, rivanga la sua teologia: «La morte in croce vuol dire semplicemente che Dio non può nulla contro il male. La vita è un telo sottile steso sopra un abisso e la sofferenza ci appartiene come appartiene a Dio. Analogia crucis: siamo come lui perché soffriamo come lui. Dove era lo splendore del nostro essere come Dio? La bocca spalancata di Tommaso ingoiava nel nero suo lo splendore di carta di tutta la teologia» (p. 124). Questa teologia dimentica l’evento che ha cambiato la storia: la risurrezione di Gesù. Dieter rimette Ildegarda sul binario di una teologia autenticamente cristiana: la croce ha la spiegazione nella risurrezione.

Altri interrogativi inquietanti

Altri inquietanti interrogativi, prevalentemente teologici, ci propone il romanzo della Veladiano. Esaminiamoli.

Se Dio è onnipotente, perché non elimina il male? La risposta di Dieter – l’evento della risurrezione – è giusta. Formuliamola meglio. Dio, perché onnipotente, può vincere il male. Ma per vincerlo ha scelto una via inimmaginabile per la nostra mente: lo ha preso su di sé e lo ha trasformato dall’interno in bene. Con la sua morte ha redento il mondo. In questa luce occorre comprendere il suo silenzio che scandalizza gli uomini. Perché Dio tace dinanzi agli interrogativi degli oppressi e degli innocenti? Neanche al perché di Cristo in croce c’è una risposta immediata. Dio tace per rispettare la nostra libertà; ma viene il momento in cui egli rompe il silenzio, e in modo trionfale. La risurrezione di Cristo – e in lui di tutti i sofferenti – è la maniera con cui Dio rompe il suo silenzio.

Nel capitolo 22 si riferisce di Ildegarda che osserva un Cristo scolpito in legno di cembro. La memoria le mette dinanzi certe «crocifissioni trucide e compiaciute, zampillanti di sangue e dolore» (p. 106). «La sofferenza di Dio – lei nota – ha scandalizzato più di quella dell’uomo e c’è chi ha considerato intollerabile un Dio tanto umano da condividere con noi il dolore e si è impegnato a preservarne la divinità a tutti i costi» (ivi). Soffre Dio? L’interrogativo serpeggia nel romanzo in forme sfumate e incerte, e si orienta in senso positivo. In realtà, Dio soffre, ma non per sé, quasi che gli manchi qualcosa: soffre per l’uomo che si degrada e si perde inseguendo idoli e miraggi fasulli. Dio soffre perché ama, e l’amore fiorisce nel dolore. La sofferenza di Dio è un dato biblico.

Gesù «muore disperato?». Così afferma il direttore del giornale dove lavora Ildegarda: «Poi il Direttore […] disse piano: – Ma c’è qualcosa ancora sul dolore. Dio mio Dio mio, perché mi hai abbandonato? Gesù non sa se la sua morte ha un senso. Non lo sa e muore disperato come noi. E questo a salvarci. Che ha davanti a sé Dio e per questo può ancora interrogarlo. Davvero. Dalla sponda della disperazione. Non scappa, non maledice. Se il buio non ha risparmiato Gesù… allora anche noi non possiamo evitarlo. Però con lui Dio c’è, anche se Gesù non lo vede. Dio c’è anche con noi» (p. 137). Gesù sulla croce sperimenta fino allo spasimo la conseguenza del rifiuto di Dio, che porta alla disperazione, ma «parlare di un grido di disperazione non trova ragione nel testo» 9. Neanche si può affermare che Gesù «non sa se la sua morte ha un senso». Ha accettato liberamente la morte per redimere l’uomo. In merito al grido di abbandono, J. Ratzinger ha scritto: «Gesù recita il grande Salmo dell’Israele sofferente e assume così in sé tutto il tormento non solo di Israele, ma di tutti gli uomini che soffrono in questo mondo per il nascondimento di Dio. Egli porta davanti al cuore di Dio stesso il grido d’angoscia del mondo tormentato dall’assenza di Dio. Si identifica con l’Israele sofferente, con l’umanità che soffre a causa del “buio di Dio”, assume in sé il suo grido, il suo tormento, tutto il suo bisogno di aiuto e con ciò, al contempo, li trasforma» Io. Con la battuta «Dio c’è anche con noi» il romanzo afferma che il nostro dolore è redento perché assunto da Cristo.

Un romanzo di vita

Eliminiamo un equivoco: Il tempo è un dio breve non è un’opera apologetica, è un romanzo nel quale si narrano le vicende – spirituali, affettive, di vita comune – di una giovane donna, riguardanti soprattutto la fede cattolica e le difficoltà che essa comporta. La protagonista ha studiato teologia e sa bene che la fede non è ovvia, non è facile e consolatoria, non elimina il mistero, non sempre si armonizza col nostro modo di pensare; sa che la fede comporta un continuo interrogarsi sui suoi contenuti, a volte incomprensibili per la mentalità corrente. Affrontandoli, il romanzo necessariamente sconfina su questioni di vita reale nella quale ci muoviamo. Il cristianesimo non è fuga dal mondo, è inserimento in esso, condividendone difficoltà e impegni. Si può tranquillamente affermare che soltanto negli sfondi della fede trovano soluzione appagante i problemi radicali. E quanto suggerisce il romanzo della Veladiano.

In realtà, Il tempo è un dio breve è un romanzo di vita vissuta, di cedimenti e di conquiste, di problemi gravi e ricorrenti. Oltre a quelli analizzati, ne indichiamo altri. Innanzitutto, l’importanza di comprendere e di vivere in pienezza la paternità e la maternità. Esse non sono un mestiere, ma una missione sacra e sociale. In merito, nel romanzo, negativamente esemplari risultano Pierre e sua madre. Lui è la negazione della vita, la resa alla paura, il rifiuto della paternità. Un relitto di uomo. Sua madre è incapace di affetto, assente, ligia ai suoi doveri ma «non sapeva l’arte di perdere l’anima per il sorriso di un uomo o per i ditini allineati del piede di un bambino» (p. 64).

Questa triste esperienza ribadisce la legge dell’amore, fondamento della vita. E un motivo ricorrente del romanzo. «L’amore rende la vita irrinunciabile» (p. 158), vince la paura (p. 213), fomenta la fede. «Guai a sentirsi davvero soli» (p. 93), perché non sai dove andare né a chi appoggiarti quando vacilli. Nell’ottica cristiana, poi, l’amore si dilata in dimensione sconfinata, poiché – come ci ricorda la fede – «siamo tutti responsabili di tutto» (p. 205). E Ildegarda precisa: l’annuncio cristiano «è fondato su questa convertibilità dell’amore di Gesù. La morte per amore di Gesù ha una forza di salvezza universale nello spazio e nel tempo proprio perché l’amore di Gesù prende su di sé il male e lo annulla per tutti. Questo bene ci salva. Il nostro amore è chiaramente meno limpido e libero, ma anche l’offerta di sé che può sembrare presuntuosa è un bene offerto che diventa disponibile per tutti, come il suo. E questo che sta dietro la dottrina delle indulgenze» (p. 141 s).

«Non desiderare nulla»

Il tempo è un dio breve si legge con vivo interesse, non soltanto per la validità letteraria, ma anche perché ci sottrae alla banalità degli stereotipi di certa narrativa, ci conduce in alto e ci offre il gusto del discorrere sulle domande radicali e sui problemi che ci assillano. Un po’ come avviene sulla Montagna incantata di Thomas Mann, nel silenzio delle altezze, ammantate di neve e cariche di simboli. Il romanzo si conclude con queste parole di Ildegarda, prossima alla fine: «Quello che bisogna fare è non desiderare nulla, amare tutto. Tutta la vita. E sperare. Io spero che questa non sia l’ultima parola. Spero nell’ultima parola di Dio» (p. 225). Aveva letto Salita del Monte Carmelo di san Giovanni della Croce.
Ferdinando Castelli sj 16 febbraio 2013 | La civiltà Cattolica

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Fonte: La civiltà cattolica

Una storia importante  
da L’Adige (pagina della cultura cimbra), 12 novembre 2012

di Andrea Nicolussi Golo

IL TEMPO È UN DIO BREVE

Padre Nostro nei cieli che io sia nuvo-la e come lei leggera. E liberami dal male, da tutti i mali. A quelli della mia generazione è stato ancora insegnato a pregare, oggi non so più se si usa. La nostra, era piccola preghiera pagana atta a corrompere la Divinità affinché ci conceda la sua benevolenza, era comunque invocazione sincera.

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Ecco, il nuovo libro di Mariapia Veladiano è una lunga preghiera, molto diversa però da quelle che mi hanno insegnato bambino, è contigua all’eresia sino ad arrivare a fare un patto… con Dio, a vendere l’anima a Dio. L’osservatore Romano, quotidiano della Santa Sede, accogliendo con entusiasmo il libro, (provocando qualche invidia) si lascia però scappare: “La trama è facile. Abbandonata dal marito con un figlio piccolo, Ildegarda è avviluppata nello sconforto. Per Natale, volendo trovare un rifugio lontano con il piccolo Tommaso, arriva sulle splendide montagne dell’Alto Adige, dove fa un incontro che cambierà la sua vita”. Ho un po’ di timore a contraddire una voce che arriva da cosi alto pulpito; ma no, la trama non è affatto facile, perché la trama, altro non è che la vita vera di milioni di donne e a specchio di uomini; e la vita, signori in porpora ed oro, non è facile mai. Il Tempo è un Dio Breve, è questo il titolo del romanzo, è un viaggio dentro il dolore, atteso, prima ancora che provato, perché nella nostra esistenza il dolore alla fine ci co- glie comunque e allora occorre attraversarlo, inutile sarà ogni scarto di lato. Eppure paradossalmente questo è un libro sulla speranza, della speranza. La speranza di un’unione oltre tutte le differenze. Dodici anni di cantiere, varie riscritture, con le parole che spesso mancavano per completarlo, quelle parole che la professoressa Veladiano sa far decantare con cura da vignaiolo antico, dodici anni, per regalarci un libro che sa la purezza leggera della neve, per dirci che: “Insieme è nulla la paura. …Insieme è nulla la paura”.

 

Se il male ha principio  
da Il Regno/Attualità n. 20/2012

di Marco A. Bazzocchi

C’è una scena di un bellissimo racconto lungo di Calvino, La giornata di uno scrutatore, che sembra essere – per antitesi profonda – all’origine del racconto con cui Mariapia Veladiano ci offre una perfetta (cioè completa) parabola intorno all’amore. Lo scrutatore di Calvino, uomo di fede marxista, si trova a dover trascorrere il periodo elettorale in un seggio montato all’interno dell’ospedale del Cottolengo, e qui, in un luogo dove il male s’incarna nel corpo, la sua dottrina ortodossa sembra soccombere sotto i colpi di un mondo dove non vigono le regole del mondo esterno.

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Dentro il Cottolengo l’umano arriva a un limite oltre il quale non è più umano. La donna senza gambe, gli uomini senza braccia, i bambini deformi e deficienti stanno a testimoniare che
c’è un’altra possibilità di vita oltre quella che siamo soliti considerare normale
solo perché la nostra prospettiva è limitata a ciò che vediamo nel quotidiano.
Amerigo, lo scrutatore, osserva con attenzione un nano che cerca di
comunicare con un importante uomo politico democristiano, e si sente, improvvisamente, nella prospettiva del nano, poi osserva un padre che ogni giorno nutre con pazienza il figlio scemo: e capisce che l’umano arriva esattamente dove arriva l’amore. Ecco, da qui parte il discorso di Veladiano: per lei lo spazio del racconto è circoscritto nel luogo (o nei luoghi) in cui l’amore diventa eccesso, deve diventareeccesso e riesce così ad allargare senza tregua la giurisdizione dell’umano. Il suo racconto è permeato con la fede, esprime un pensiero intorno alla trascendenza, ma non dimentica mai che fede e trascendenza hanno un senso se calati dentro l’esperienza quotidiana dell’umano (che per lei è un’esperienza che non può essere contenuta da nessun limite, qualora si presenti come esperienza d’amore diretto verso il mondo). Ildegarda, moglie e madre Ildegarda, il personaggio creato da Veladiano, è una donna che conosce profondamente la teologia ma che grazie alla teologia ha instaurato un rapporto con il mondo che non è riconducibile a nessun pensiero astratto. Dalla madre ha imparato i segreti delle erbe, ama il mondo vegetale, e nel mondo vegetale (esattamente come la mistica da cui prende nome, Ildegarda di Bingen) sa leggere le tracce di messaggi nascosti che percorrono la realtà e la rendono capace di ascoltare un linguaggio dei sensi. La storia di Ildegarda è, molto semplicemente, la storia di un matrimonio che fallisce e di una madre che combatte per salvare il figlio dal contagio del
male. Il male è nel mondo, è intorno a ogni creatura del mondo. Nel caso del figlio di Ildegarda, il male trova un varco passando attraverso la figura paterna, Pierre, che a sua volta ha assorbito il male dal corpo della propria madre. Pierre, uomo bello, colto, affascinante, è pieno del male ricevuto da una madre che gli ha trasmesso odio per il
mondo. Pierre non è stato educato alla presenza del bene nel mondo, cioè all’amore.
La ricca villa dove Ildegarda e Pierre trascorrono la prima fase del loro matrimonio è dominata dallo sguardo della suocera: è lei che ha mozzato, con rabbia, proprio la notte in cui ha saputo di essere incinta del figlio, le zampe dei mobili impero (uno sfregio contro il marito, che si chiama Leone?), è lei che ha fatto distruggere il bosco che circondava e proteggeva la villa. Nella figura di una mater dolorosa che deve proteggere il figlio (non a caso si chiama Tommaso, come l’apostolo incredulo, ma anche come il santo domenicano) dalla presenza del male, Veladiano non può non aver pensato alla
fragile figura di Ida Ramundo che protegge il piccolo Useppe dalle bombe della guerra e dalla devastazione della violenza nazista. La Storia di Elsa Morante, dove scorre in non piccola parte il pensiero di Simone Weil, è il modello a cui guarda con attenzione Veladiano, riproponendo la parabola complessa di una madre che si sacrifica per il figlio.
I padri qui non ci sono, oppure sono chiusi in un’inspiegabile assenza di coinvolgimento come Pierre (che non è colpevole per quello che fa, ma per quello che non riesce a fare). E quando spunta un padre sostitutivo, Dieter, sarà un padre destinato ad agire «al di là» di Ildegarda e a diventare padre-madre per Tommaso. Ma solo dopo che Ildegarda ha compiuto l’atto senza svolta di donare se stessa per la salvezza di Tommaso. E il sacrificio ha un valore proprio perché compiuto da chi conosce perfettamente il linguaggio del mondo, da chi sa quanto conoscere passa attraverso la cura del corpo. Non il linguaggio della cultura (che può essere complesso ma sterile) ma il linguaggio che parla dalle cose e che la cultura può aiutare a decifrare. Lo sguardo interiore I dialoghi di Ildegarda con il direttore editoriale per cui lei lavora sono esempi altissimi di    un discorso che riguarda le figure della tradizione evangelica e biblica: Isacco, Giuditta ecc. compaiono nei loro discorsi come presenze mitologiche che sanno dare luce
alle azioni degli uomini. E parlando con il direttore, Ildegarda rivela l’aspetto più inquietante che giustifica la sua scelta: «Maria ha perso un figlio adulto e consapevole», il Cristo ha accettato il compito che lo portava allamorte. Ma «con i bambini è un’altra
cosa»: i bambini non scelgono. In loro il male appare con la sua faccia più terribile e insidiosa, non ha nessuna giustificazione. Come si fa a guardare dentro questo buio che sembra mettere in crisi ogni prospettiva umana e ogni giustificazione? Il direttore difende la teologia come pensiero che esprime una distanza da Dio e quindi mette l’uomo al
riparo dal peccato d’onnipotenza che nasce dalla presunzione di essere come  Dio. Ildegarda trova una soluzione diversa, una soluzione che va al di là di Lutero e di san Tommaso: «Quel che il suo amarci ha potuto fare per noi, anche noi forse lo possiamo fare». Questo è il nodo. Si tratta d’intraprendere ora un nuovo destino, e Ildegarda riceve dal suo sguardo interiore i messaggi che la mettono in rapporto con questo destino. Sono i sogni, che costellano l’avventura di Ildegarda esattamente come costellano l’avventura di Ida nella Storia. Ma Ida è una donna modesta, umile; in lei solo i sensi sostituiscono la vita intellettuale. In lei c’è una capacità animalesca (per Morante superiore a quella umana) di entrare in rapporto col mondo. Ildegarda possiede una vita intellettuale complessa, quella che la sua creatrice le ha prestato (o che ha messo alla
prova attraverso di lei). E la vita intellettuale s’incarna nell’immagine che domina con prepotenza la seconda parte del racconto, la grande montagna di Croda di Luna, grazie alla quale il pensiero di Ildegarda riesce a trovare un accordo col male e a tenere il male lontano dal corpo di Tommaso. I sogni di Ildegarda sono sempre in rapporto con questa montagna, le indicano la strada con cui leggere la propria posizione nel mondo (o nel
nuovo mondo che le si apre di fronte, un mondo che non coincide esattamente
col nostro). Le visioni della montagna indicano un cammino di ascensione grazie al quale gettare sul mondo uno sguardo libero da legami malati. Sentire il mondo,
amare tutto Ildegarda scopre la bellezza delle cose anche nel momento in cui accetta
lei di assorbire il male che potrebbe devastare Tommaso. Se Tommaso manifesta
i segnali dell’epilessia (esattamente come Useppe), la madre dona se stessa
a Dio in cambio della salvezza del figlio. A Ida questo non era stato concesso. Per
la Morante non c’era possibilità di scampo dentro la macchina infernale della Storia.
Veladiano, invece, lascia aperto uno spiraglio per il suo personaggio, anche
se questa apertura sbocca direttamente sulla faccia irrazionale del pensiero. C’è
il sospetto del delirio nelle parole con cui Ildegarda confessa a Dieter il suo sacrificio?
Il cervello di Ildegarda è già minato dal male al momento dell’offerta a Dio? E tutto questo racconto nasce dallo sguardo di chi vede ormai in un’«altra» realtà? Veladiano si muove su un crinale sottilissimo, ma è questo crinale che le consente di non cadere in un ordine prestabilito dettato da una posizione ideologica rigida. Quando Ildegarda spiega a Dieter le ragioni del suo darsi in cambio della salvezza di Tommaso, afferma quello che il personaggio di Calvino (chiuso in un rigido sistema di razionalità) non
avrebbe potuto affermare, e cioè che non si deve aver paura di mettere a disposizione
degli altri tutto l’amore di cui si è pieni. Quello che lei propone a Dio non è un banale scambio, ma «qualcosa che già c’è e va solo accolto». Non so se riesco a capire perfettamente le parole di Ildegarda. Credo però che le si possa leggere anche come il bisogno d’accettare la realtà nel suo essere in sé piena di valori, senza paure o limiti: questo è l’unico antidoto per evitare che il male abbia principio e si diffonda. Quando Ildegarda sogna d’addormentarsi dentro la cavità con cui culmina la grande montagna, in lei il pensiero della morte diventa capacità di accettare un nuovo ordine delle cose.
Solo così, «sin otra luz o guìa sino la que en el corazòn ardìa», come scrive Juan de la Cruz («senza altra luce o guida se non quella che nel cuore ardeva»). Il pensiero di Ildegarda è saturo di dottrina. Non a caso il medico che la cura, e che compare nelle sue ultime visioni, si chiama Angelico, e doctor Angelicus è l’appellativo di san Tommaso d’Aquino. Ma la dottrina resta sempre in lei capacità di sentire il mondo. «Non desiderare
nulla, amare tutto»: questo è l’approdo a cui arriva la mente di Ildegarda quando la malattia ormai l’ha circonfusa di un male diventato conoscenza, anzi conoscenza sempre in aumento. Oltre, sembra dire Veladiano, non si può andare.


Marco A. Bazzocchi
1 M. VELADIANO, Il tempo è un dio breve,
Einaudi, Torino 2012, pp. 232, € 17,00.
9788806212742.

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Fonte: Il Regno

 

Nel pianto del bimbo il dolore del mondo  
da La stampa, Tuttolibri del 10 novembre 2012.

Di Lorenzo Mondo

Mariapia Veladiano ha sviluppato il suo romanzo (Il tempo è un dio breve ) affrontando arditamente un tema che ha assillato nei millenni filosofie e religioni. E’ il problema del male, tanto più incomprensibile e inaccettabile quando colpisce gli innocenti, in primo luogo i bambini: «Una sera ti giri perché senti tuo figlio piangere e senza che nulla lo abbia annunciato scopri il dolore del mondo». E’ il Leitmotiv del romanzo, che trova varia esemplificazione nella sorte di piccole creature indifese e che innesca un doloroso conflitto nell’animo della protagonista. Ildegarda deve confrontarsi con il pur amatissimo marito Pierre. Questi, in seguito a un’infanzia travagliata, ha maturato un cupo pessimismo che lo induce a ritenere imperdonabile l’assunzione della paternità, la responsabilità di mettere al mondo un figlio. E’ così infelice che non sa abbandonarsi «anche solo per poco, un’ora, un minuto, all’andare confuso e gagliardo della vita». 

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A questo spirito negativo (estremizzato con qualche inverosimiglianza in funzione simbolica) si contrappone la dedizione della moglie per il piccolo Tommaso, un amore capace di dissipare ogni sofistico o lacerante presagio. Ma ecco che una subdola malattia minaccia di strapparle il figlioletto. E allora Ildegarda ingaggia un’altra contesa, non più con il suo uomo, irrecuperabile e fuggiasco, ma con un Dio invisibile che sembra non darsi pena per le sue creature. Ha studiato teologia, ha confidenza con la mistica e sa bene come metterlo spavaldamente alle strette. Fino a contestargli, per larghi giri, la pervasività di un male che ha inquinato la Storia ben prima della sua salvifica venuta sulla terra. Travolta dalla disperazione, arriva a stringere un patto con Dio, a offrirgli la propria vita, scambiandola con quella di Tommaso. Mi astengo, doverosamente, dall’indicare le conseguenze del patto e il minuto percorso della trama. Segnalo soltanto il fascino delle lunghe vacanze compiute da Ildegarda tra le nevi dell’Alto Adige, dove una natura incorrotta sembra propiziare le frequentazioni dell’Assoluto. Là conosce Dieter, un pastore luterano che, dopo avere perso un figlio, ha rischiato di perdere la fede. Nasce tra loro, nel parallelismo sbilenco di una disgrazia avvenuta o temuta, un forte legame affettivo. Ma l’affinità intellettuale e spirituale si irrobustisce e quasi si illimpidisce nel fisico abbandono. Senza imbarazzi o rimorsi, perché Ildegarda, nella sua fedeltà alla vita, è persuasa che, se esiste resurrezione, ha bisogno anche del corpo per renderci felici. 

Si sarà inteso che il romanzo di Mariapia Veladiano procede sul filo di roventi interrogazioni, animate da una fede ostinata ma non corriva. Si manifesta qui il talento definitorio ed aforistico della scrittrice al quale, si direbbe, fanno da supporto le concrete realtà fattuali, la trama propriamente intesa. Il doloroso silenzio di Dio? «Se ami una persona non la lasci perché qualche volta o molte volte non la capisci o ti fa soffrire». La disperazione di Gesù sul Calvario? E’ una protesta, come la nostra davanti alla morte, rivolta tuttavia a un Dio che esiste anche nel buio. Che senso ha una felicità così breve, compromessa dal dolore e dalla consunzione? «Anche più lunga non ci basterebbe. E’ la promessa di un tempo in cui ci verrà restituito tutto per sempre». Il romanzo, in questa prospettiva, non si conclude, si prolunga nell’infinito; per Ildegarda che, chiamata all’ultima prova, trova gli accenti della mistica tedesca di cui porta il nome: «Quello che bisogna fare è non desiderare nulla, amare tutto. Tutta la vita. E sperare. Io spero che questa non sia l’ultima parola. Spero nell’ultima parola di Dio». E’ una soluzione provvisoria che sigilla un percorso capace di turbare e coinvolgere, per il suo affondo esistenziale, reso con una passionata eppur limpida scrittura, anche l’animo di un non credente. Un libro che fa comunque spicco tra tanto spreco di parole mentite e futili. 

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Fonte: La stampa

 

Il triplo ricatto di Veladiano
da l’Unità, 20 novembre 2012

di Angelo Guglielmi

«Il tempo è un Dio breve» di Maria pia Veladiano è un romanzo ricattatorio. Ricatta tre innocenti: il lettore, lo stile, la religione. Il primo è il ricatto contro il lettore, al quale è reso difficile intanto leggere e soprattutto esprimere una valutazione libera stante l’altezza intoccabile del tema svolto. Quel tema è il male del mondo di cui gli uomini soffrono e che, nel caso del romanzo, minaccia un piccolo bambino, figlio di un padre dedito a un pessimismo irredimibile che tragicamente esplode proprio in occasione della nascita del figlio. Non solo non lo ha mai voluto ma ora che c’è la sua nera tetraggine lo esclude.

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Dall’altra parte c’è una madre che vuole assolutamente proteggere il figlio non tanto dal padre quanto dall’idea di male che il padre sofferente (e senza colpa) rappresenta: certo senza colpa ma allora di chi è la colpa? Perché Dio che è onnipotente tollera che il male imperversi nel mondo e minacci suo figlio e gli altri bambini innocenti? E di qui in poi il romanzo si intorcina in un dibattito teologico che ripete miseramente la disperazione del Libro di Giobbe dubbioso se Dio ha il dovere di scegliere o la scelta non è compresa nell’onnipotenza. Una angoscia del genere lacera la madre che è lì in continua preoccupazione che il figlio si ammali e perda il sorriso finché il nodo esplode quando il bambino ha un attacco di epilessia dal quale sembra non voler risorgere. Ma inattesamente guarisce e la madre tormentosamente si chiede: ma Dio lo ha salvato perché ha accettato l’offerta (insistentemente ripetuta nelle mie preghiere) di prendere la mia vita al posto di quella di mio figlio? Ma se così fosse Dio avrebbe accolto nei suoi pensieri l’idea della morte (seppure donata in sacrificio) contraddicendo la sua eternità. Dubbi, pentimenti, confessioni, riconoscimenti si trascinano per pagine e pagine finché anche grazie all’intervento di un pastore luterano (con il quale la madre abbandonata dal marito ritrova la possibilità della felicità) si stabilisce la definitiva verità: Dio non può contrattare con la morte perché Dio è Vita con la quale per intero coincide e altro non conosce; la morte appartiene agli uomini. Ma un tema di tale e così sfuggente altezza riesce a tenere vicino il lettore e ottenerne la complicità solo se a trattarlo è Giobbe o San Giovanni della Croce (che peraltro è il libro di comodino della protagonista madre): in tutte le altre ipotesi, quale sia la sincerità dell’impegno, produce distacco e al limite noia. Il secondo ricatto il romanzo lo esercita nel confronti della scrittura dove esibisce un perbenismo sintattico- grammaticale da prima della classe rivestendolo di un poeticismo insistito e petulante. Le parole volano, sono aeree, garantendoti che stai nuotando nel mare della spiritualità mentre sei di fronte a un esercizio di bella scrittura in preparazione degli esami di maturità. Il terzo, più che un ricatto, ti istiga a rovesciare un tuo radicato convincimento: hai sempre rispettato (e continui a rispettare) la religione luterana per la sua severità di giudizio a fronte dello sbraco tollerante del cattolicesimo; poi senti il pastore luterano (di fatto l’altro protagonista del romanzo) dire: «Troppo male nel mondo. Troppo. Noi luterani siamo nati guardando il male di un tempo terribile e dopo aver rifiutato la consolazione della grazia messa in vendita a poco prezzo da Roma saremmo morti nella disperazione se non avessimo guardato diritto a Dio». Le leggi (queste parole) e vieni sorpreso da una strana simpatia per i modi tra pasticciati e perdonanti del cattolicesimo romano e ti trovi a apprezzare (senza rinunciare a un sorriso ironico) quella sua vocazione a far tornare sempre i conti: in questa (certo condannabile) tendenza sentiamo la scelta di aderire alla materialità dell’esperienza: e in questa materialità (e concretezza delle cose) sta per noi non so se il senso ma certo la base della Vita. Ma il lettore non esiti a leggere il romanzo: vi troverà una trama avvincente che ha al centro la storia di una famiglia di aristocratica ricchezza in cui generosità e viltà, dispetti e attenzioni, sciagure e lietezze si alternano non rinunciando a sorprese e colpi di scena. Il romanzesco è servito.

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Fonte: L’Unità

Ildegarda e l’amore. Dio ha tante madri  
da L’Adige, 1 novembre 2012

di Paolo Ghezzi

Ma in che cosa consiste la somiglianza di una donna o di un uomo a quella presenza misteriosa che qualcuno chiama Dio? Quand’è che gli uomini e le donne possono condividere, in un certo senso, il battito cardiaco di Dio? Solo in due modi, essenzialmente: quando amano qualcuno (una donna, un uomo, Dio stesso, la vita e il mondo) e quando creano una presenza originata dal dentro di sé ma diversa, libera, altra. Cioè quando fanno un figlio.

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Il secondo libro di Mariapia Veladiano, dopo il bellissimo e amatissimo «Una vita accanto» (su Rebecca, la ragazza brutta e «invisibile» rifiutata dalla madre e riscattata dalla musica), torna ad esplorare con delicatezza ma senza convenzionali pudori l’incredibile, rivoluzionario, inspiegabile, conflittuale e appassionato dialogo che gli esseri umani (alcuni esseri umani, la minoranza che già quaggiù intravede cieli e terra nuovi, e spesso non sono i praticanti più «regolari») intrattengono con Dio. «Il tempo è un dio breve» è il romanzo di una donna – esplicitamente chiamata Ildegarda, come la grande mistica medievale di Bingen – che non solo parla con Dio, che lo interroga, ma che con Dio «contratta», piena d’amore smisurato e traboccante per un figlio chiamato Tommaso. Il filo della storia è esile ma ben tirato: una giornalista che perde l’amore del marito, che vive la paura della perdita del figlio, che incontra un nuovo amore e che… (qui non sveleremo l’epilogo) affronta un nuovo, decisivo dramma esistenziale.

Ildegarda lavora in un giornale cattolico, ha dovuto affrontare da sola la malattia del figlio perché il marito ha paura della paura e fugge lontano, quando incontra in un bellissimo paese sudtirolese – davanti a una montagna evocatrice di sogni, battezzata Croda di Luna – un uomo in crisi chiamato Dieter, un pastore luterano tedesco (il nome sembra un’irresistibile allusione al grande teologo protestante Dietrich Bonhoeffer) che piange una perdita irreparabile. Riassunta così, suona come una vicenda neo- o tardo- romantica, ma ciò che eleva la seconda prova letteraria di Veladiano qualche migliaio di metri al di sopra dello psicologismo narrativo di consumo corrente non è solo la qualità della sua scrittura, compassionevole e rigorosa a un tempo («qualcosa di estatico e ossessivo pulsa coraggiosamente nella sua prosa», ha osservato Leonetta Bentivoglio sulla «Repubblica»); è proprio il coraggio con cui mette Dio (il problema di, il silenzio di, il mistero di) al centro della storia, personaggio tra i personaggi, i cui nomi sono sempre rimandi a significati (Helfgott, Dio t’aiuta o tu aiuti Dio, si chiama l’affettuosa signora della pensione pusterese di Campodalba – il nome vero del paesino è «protetto» per

evitare indebiti pellegrinaggi di turisti letterari – Martin come Lutero si chiama il figlio del pastore…) e le cui storie affondano in altre storie precedenti, negli inconfessati fiumi carsici di non-amore che attraversano le genealogie familiari e che (come nella «Vita accanto») spiegano molte infelicità di oggi. «C’è un percorso del dolore che attraversa le generazioni. Esistiamo da molto prima di nascere. Mi chiedo che cosa resti della nostra libertà». La storia si dipana, e ci «prende», su un sentiero disseminato di sassolini teologici di folgorante essenzialità: «È perché ci si sta insieme che si crede in lui». «Chi non crede in Dio forse non lo ha incontrato in un amore abbastanza grande e rassicurante da suggerire qualcosa dell’amore di Dio». E proprio nel cuore del cuore del libro, alla fine, c’è come in Dostoevskij il mistero scandaloso del dolore innocente, e un’identificazione cristologica in un libro che parla sempre di Dio e quasi mai di Gesù, perché il dolore del Crocifisso non è più grande di quello di tutti gli altri crocifissi figli di madre, e suo figlio non è solo il Nazareno, ma ogni bambino: «Tommaso è la vita. – dice Dieter – È tutti i bambini del mondo. È Martin. È Dio». 

Qui in Ildegarda parla senza dubbio l’autrice, laureata in teologia, «con la pretesa spavalda di interrogare Dio sulle sue terribili responsabilità». «Non c’è un senso. È uno scandalo e basta. Io credo che Dio non possa fare niente e chi invoca il disegno di Dio non sa quello che dice». Il Dio che le donne mistiche capiscono forse meglio degli uomini non è un oggetto filosofico. Il Dio come esperienza che accade, che attraversa la vita, la cambia, la ama. E l’unica risposta è quella di amare un figlio, e la vita, e il mondo: senza l’illusione di cambiarlo, ma con l’impegno generoso di lasciarlo un po’ migliore, come fa Marguerite, che con il suo orientamento al bene riscatta da sola la famiglia depressa ed egoista di Pierre.

C’è un segreto, nella felice narrativa teologica di Mariapia Veladiano: lo rivela quando fa dire a Ildegarda, del suo rapporto con Pierre: «Io ero stata più fortunata. Sempre in debito verso la vita mi sentivo. Lui sempre in credito». Solo chi si sente in debito, e dunque ha motivi per ringraziare, per pregare (veladianamente, un «solletico alle orecchie di Dio») sa raccontare le storie delle donne e degli uomini, addirittura, dal punto di vista di Dio.

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Paolo Ghezzi, L’Adige 1/11/2012

Storia di una donna che ha imparato a pregare

da L’osservatore Romano, 24 ottobre 2012

di Giulia Galeotti

«Com’è strana la mia storia – scriveva nel suo diario Etty Hillesum – la storia della ragazza che aveva imparato a pregare». Pur con tutte le differenze, queste parole della ventinovenne ebrea olandese uccisa ad Auschwitz costituiscono un riassunto perfetto anche per la storia di Ildegarda, protagonista del nuovo romanzo di Mariapia Veladiano, Il tempo è un dio breve (Torino, Einaudi, 2012, pagine 232, euro 17).

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La trama è facile. Abbandonata dal marito con un figlio piccolo, Ildegarda è avviluppata nello sconforto. Per Natale, volendo trovare un rifugio lontano con il piccolo Tommaso, arriva sulle splendide montagne dell’Alto Adige dove fa un incontro che cambierà la sua vita.

Alle prese con questo canovaccio, l’autrice dimostra di essere una scrittrice completa. Superare la prova del secondo romanzo quando il primo (La vita accanto) è stato un grande successo di pubblico e di critica, non è impresa facile. C’è il rischio della fretta, della ripetizione, dell’approssimazione o dello snaturamento. Veladiano, invece, schiva brillantemente tutti i pericoli, offrendoci un nuovo, meraviglioso romanzo. Quel che ritorna, rispetto al precedente, è il senso profondo della storia, che poi è il senso profondo della vita: il dolore esiste, ma la capacità di essere vivi la si acquisisce camminando con gli altri.

l romanzo comincia con una cappa terribile. Le sabbie mobili indotte da un malessere cupo, totale. Eppure, capire che le cose possono cambiare è possibile. Ildegarda racconta al lettore la sua storia, e lo fa (lei che ha studiato teologia) interrogandosi ininterrottamente. Anzi, interrogandoLo ininterrottamente. La domanda più assillante che questa ragazza rivolge a Dio è la questione più terribile che la vita mette sul piatto: la sofferenza dei bambini. Ildegarda si arrabbia, si dispera, cerca la fede, ringrazia, sorride, si chiede se crede – e Gli chiede se crede. Dialogando con Dio, lo insegue, lo ama, lo rincorre, lo strapazza, si abbandona. È un fluire di domande, asserzioni, suppliche. È un affidarsi. È una grandissima dimostrazione d’amore.

Oltre che per l’impianto generale del romanzo, Veladiano dimostra una cura stupefacente per il contorno, i dettagli. Una cura che è anche un’attestazione di profondo rispetto per il lettore.Lo rivelano la maestria con cui ogni personaggio viene descritto e la scelta di ogni singola parola. È pieno il racconto di Ildegarda. È un guardare dentro il dolore, ma è un guardare (allo stesso tempo e insieme) la vita negli occhi. Nel fluire di interrogativi, una sola risposta. Affidarsi. «“Che la sua gioia sia piena, Signore”. Questo pregavo». È quel che ha imparato Ildegarda.

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Fonte: L’Osservatore Romano

 

Tutto su mio figlio che cosa siamo disposti a fare per amore

da Repubblica, 24 ottobre 2012 -52 –  Sezione Cultura

di Leonetta Bentivoglio

Il tempo è un dio breve, di Mariapia Veladiano, in uscita per Einaudi Stile Libero, è un vibrante libro sull’ amore. Così scrive la protagonista del romanzo, narrato in prima persona, invocando la necessità di un ordine nel proprio esporre: «L’ ordine è una forma d’ amore. Tutto mi sembra una forma d’ amore. È l’ amore che ci dà forma». Poi scatta un flusso amoroso che non si arresta fino alla tragica chiusa della storia. Ma in quali timbri e colori è declinato il sentimento dominante?

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In verità di amori ne possiede tanti, quest’ opera seconda della Veladiano, scrittrice vicentina (di formazione filosofa e teologa, e oggi preside a Rovereto) che si è rivelata nel 2011 con un esordio assai premiato, La vita accanto, incentrato sul bisogno di riconoscimento (o sull’ urgenza di essere amata) di una donna segnata dall’ infamia sociale della bruttezza. Ne Il tempo è un dio breve – titolo dettato dalla rapidità bruciante e imperiosa della vita – pulsa innanzitutto l’ amore che la raccontatrice Ildegarda – nome scelto dai genitori contadini in onore di Hildegarda von Bingen, la santa erborista del dodicesimo secolo – nutre per il suo bambino Tommaso. È forse questo l’ amore più decisivo del percorso, perché ha una forza attraversata, e anche sofferta, dal principio alla fine. Potente nei suoi chiaroscuri, è un amore cadenzato da un succedersi di ostacoli, fatiche, fasi di sperdimento e malattie (una spaventosa dermatite aggredisce Tommaso neonato, poi irrompe l’ epilessia, descritta come il risucchio straziante in un buco nero). Ed è anche un amore abitato, come tuttii veri amori materni, dalla consapevolezza concreta della morte, e da un estremo senso di fragilità e impotenza di fronte ai dolori del figlio. Vive insomma di quegli stati, a volte conflittuali e a volte colmi di gratitudine e stupore, che si producono in ogni maternità sensibile e desiderata, come lo è quella d’ Ildere di Guerra e pace ). È un concentrato d’ inviolabile tristezza, serrato in una gabbia d’ egoismo impermeabile ai rischi che comportano gli amori, e capace solo di sentire la morte annidata dentro di sé. Il che, con drammatica evidenza, gli impedisce d’ immaginare l’ amore per un figlio. Perciò non tollera l’ arrivo di Tommaso, e finirà per andarsene di casa senza dire una parola. Pierre è un’ incarnazione esasperata del silenzio degli uomini, cioè dell’ impossibilità, così diffusa nell’ universo maschile, di verbalizzare le emozioni. Ma santa Ildegarda (santa perché c’ è santità nel suo martirio coniugale) non esprime rancore quando lui se ne va, né esterna alcun desiderio di vendetta. Confessa solo l’ ansia di dover compiere ciò che non ha voluto fare Pierre: spiegare al figlio l’ abbandono. Torna in mente un pensiero di Simone Weil, formulato ne La personae il sacro: nel momento in cui sorge dal fondo del cuore, davanti a un’ ingiustizia, il medesimo lamento che Cristo non seppe trattenere quando fu sacrificato sulla croce (perché mi viene fatto del male?), l’ ingiustizia consiste nell’ assenza di una spiegazione. È questa la violenza tremenda inferta da Pierre a Ildegarda e a Tommaso. C’ è poi un amore di tutt’ altro rango, ne Il tempo è un dio breve. È quello vivido e solare che unisce, verso la metà della vicenda, la martire al tedesco Dieter, un pastore protestante che è stato ferito a sua volta da una serie di terribili distacchi. Ildegarda lo incontra durante un soggiorno in Alto Adige, dov’ è evasa scappando dalla villa muta e fredda della famiglia del suo fuggitivo marito, popolata da parenti algidi e confusi, tra i quali spicca la madre di Pierre, una sorta di erinni immune agli affetti. Nel rifugio di quel Natale rivelatorio, illuminato dalla beltà immacolata della neve, Ildegarda non smette di dialogare con Dio, e questa sua incrollabile devozione religiosa è un altro degli amori che costellano il romanzo. Creatura di fede, ma anche sfinita dagli accadimenti, la mamma di Tommaso viene tentata dall’ idea della morte. Ed è proprio quando emerge tale sensazione che compare Dieter, portatore di una felicità diversa, alimentata da una passione anche fisica per la vita. Poi tutto slitterà in un supplizio da cui si salverà solo l’ amore. Quello di Tommaso per la madre, divorata da un male che si scopre incurabile, e quello di Dieter per Tommaso, il quale ricostruirà in lui il riferimento paterno che ha perso. Veladiano avanza lungo le pagine ascoltando il suono della propria scrittura. È lirica, intensa, molto letteraria. Ha la tempra furiosamente femminile di certe mistiche. A tratti il suo controllo maniacale del linguaggio diventa una sfida alla poesia. Qualcosa di estatico e ossessivo pulsa coraggiosamente nella sua prosa

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Fonte: La Repubblica

 

L’intervista. Mariapia Veladiano
Dopo una gestazione durata dodici anni, la scrittrice vicentina torna a parlare di fede e dolore nel suo secondo romanzo «Il tempo è un Dio breve», in libreria dal 23 ottobre.
di Luisa Santinello – Il Messaggero

Basta il pianto di un bambino a far crollare un castello di certezze. A svelare un mondo di dolore. A infrangere la campana di illusioni e silenzi dentro la quale l’uomo è solito trincerarsi. «E scopri che sei sola, tu e il tuo male, tu contro il male». A quasi due anni dalla pubblicazione del suo romanzo d’esordio La vita accanto (vincitore del Premio Calvino nel 2010 e del Premio Cortina d’Ampezzo nel 2011; secondo al Premio Strega 2011), Mariapia Veladiano torna a parlare di fede e sofferenza con Il tempo è un Dio breve (in libreria dal 23 ottobre). Un omaggio alla vita e a ciò che di divino c’è in essa, il tempo. Per la scrittrice vicentina – 52enne laureata in filosofia e teologia, dirigente di un istituto comprensivo di Rovereto, nonché editorialista di varie testate nazionali –, il tempo è un bene che non va sprecato né intaccato dalla paura, ma conquistato e difeso giorno dopo giorno.

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A imparare la lezione sarà la protagonista del romanzo che, guarda caso, porta il nome di una santa patrona delle battaglie. Per Ildegarda, la strana dermatite del figlio Tommaso è l’inizio di un viaggio interiore alle radici del dolore. In bilico tra la frustrazione per l’abbandono del marito Pierre e l’impotenza di fronte a un Dio che sembra non curarsi dei patimenti del mondo, la donna compie un percorso di fede verticale che dalla pianura lombarda, palude dell’anima, la porterà alla montagna altoatesina, luogo incontaminato dove il dialogo con l’assoluto prende forma. Tra flashback e colpi di scena narrati con uno stile raffinato e preciso, la protagonista imparerà che «morire per Dio è facile, vivere per Dio può essere infinitamente più difficile».

Msa. Il rapporto tra fede e corpo è una costante nei suoi romanzi. In che modo questi due aspetti sono collegati?
Veladiano. Il corpo è coinvolto nella nostra fede come nell’amore, nell’amicizia, in ogni sentimento e in ogni movimento della nostra vita affettiva e spirituale. I mistici conoscono bene il ruolo del corpo e le religioni in generale accompagnano preghiera e celebrazioni con movimenti che non sono rito, ma sostanza. Non può che essere così: si commuove il corpo, prima del nostro spirito. La fede ci prende interamente, come capita in ogni rapporto vero. Ci fa alzare, muovere verso l’altro, ci fa sentire leggeri di una compagnia sentita, più forti di una forza che ci viene data.

Che cosa significa per lei la parola «fede»?
Vivere accompagnati da una promessa, e cioè che il male non è mai l’ultima parola. Un qualcosa di immenso. Del resto, per me la fede è proprio questo.

Quanto c’è di autobiografico nella sua ultima opera Il tempo è un Dio breve?
Nella storia pochissimo: gli studi teologici della protagonista, un figlio, l’amore assoluto per la montagna. Dalle pagine emerge, però, un’autobiografia dei sentimenti. Le domande che la protagonista rivolge a Dio sono le mie, ma anche quelle che tanti altri si pongono. Quanto alle risposte – o non risposte –, forse sono la parte più personale di tutto il romanzo.

Da che cosa nasce la scelta del nome Ildegarda per la protagonista?
Nel libro si giustifica attraverso la storia della madre, che è erborista. Il nome è ispirato a Hildegard von Bingen (proclamata dottore della Chiesa lo scorso 7 ottobre, ndr), una santa straordinaria, donna coltissima, combattente, figura di suprema libertà dell’interrogare e del dire. Senza contare il suo legame con la natura, le erbe, dono di Dio e cura per il corpo.

Nel libro ricorre spesso il tema della passione per le piante di Ildegarda. Rinsecchite o dall’aspetto trasandato, esse sembrano quasi riflettere l’atmosfera respirata dai personaggi…
Le piante fanno un po’ da specchio ai movimenti dello spirito. Sono anche un tramite d’affetto tra personaggi la cui relazione ha un necessario profilo di riservatezza (si pensi a Ildegarda e al direttore del giornale dove lavora). Del resto, a molti capita di far fiorire o lasciar morire le piante a seconda dei periodi della propria vita.

Perché ha scelto la pianura lombarda e le montagne altoatesine come teatri dei fatti?
Sono luoghi che conosco e, come tali, ho potuto parlarne più facilmente. In particolare, la montagna altissima, coperta di neve, solitaria, silenziosa – proprio come quella del libro – è un ambiente che io adoro. Credo che sia più facile amare quando si è circondati dalla bellezza di un simile paesaggio.

Nella frase «Quanto amore serve a salvare un amore» è racchiuso un po’ tutto il focus del libro. Ma può davvero l’amore salvare l’amore?
Sì. È la nostra speranza di cristiani e, quindi, è la speranza di ogni uomo. La promessa del Vangelo è che l’amore salva il nostro desiderio di amore, spesso ferito, segnato dal lutto o dal nonsenso. Che significato mai può avere il dolore bambino? Nessuno, e se lo cerchiamo si finisce con il dire cose tremende che offendono chi vive questo dolore. Ma c’è una promessa nel Vangelo: che il dolore e la morte non sono l’ultima parola.

Nel suo continuo tentativo di dialogare con Dio, Ildegarda constata che il Signore ci risponde solo attraverso i sogni. In che senso?
Credo che il sogno spesso liberi il nostro desiderio, lo stesso tramite cui Dio ci parla. Il desiderio è la nostra forza più grande, è ciò che ci muove a fare, a lottare con forze che a volte non sappiamo nemmeno di avere in noi. Perché Dio non dovrebbe parlare attraverso i nostri desideri?

Quale ruolo assume la preghiera in questo viaggio alla ricerca dell’assoluto?
La preghiera è lo spazio del nostro rapporto con Dio. Il ritrovarsi quotidiano, ogni momento possibile. Un cercarsi di amanti. E un portare nell’incontro tutta la nostra vita.

Nel libro Ildegarda si rivolge al figlio con la frase: «Io so che c’è il male, ma ti ho messo al mondo lo stesso». Quella di essere genitore, dunque, è una scelta coraggiosa?
Sì, credo di sì. È una scelta che ci spoglia, ci mette di fronte a ciò in cui crediamo veramente. Crediamo oppure no nella vita? Crediamo nel futuro? Abbiamo una visione di questo futuro da offrire ai nostri figli? Con grande consapevolezza si dovrebbe desiderare di avere un figlio. Ma senza paura. Del resto si è in due: e insieme la paura fa meno paura.

Che cos’è per lei la paura?
L’essenza della paura è la solitudine. Da soli tutto spaventa, quando si è insieme anche le esperienze più tremende possono essere affrontate. «Insieme è nulla la paura» si dice nel libro. È un’iperbole, un’esagerazione, che vale solo nel rapporto d’amore più profondo. Ma in misura diversa è sempre un po’ così.

La «forza» di cui si parla nel libro è la capacità di resistere o quella di imparare ad arrendersi all’inevitabile?
Resistere è una bellissima parola. Significa sentire ciò che ci trascina, non chiudere gli occhi e non cedere, ma anzi desiderare di combattere, perché c’è un valore bello da difendere, un amore. Può capitare che resistere indichi la capacità di assecondare quel che non possiamo evitare, scegliere di non estenuare la vita in una lotta già persa. Ma rimane comunque la parola giusta.

Che importanza ha avuto la sua formazione teologica nella stesura di questo romanzo?
Strutturato così, come un dialogo tra persone di fede e un dialogo con Dio, è un libro nato anche dagli studi di teologia, intesa come ricerca incessante di un incontro che altri hanno avuto, che noi abbiamo avuto e possiamo, misteriosamente, avere.

Così come La vita accanto, anche Il tempo è un Dio breve vanta una lunga gestazione. Come mai?
Ho sempre scritto molto: racconti, romanzi, diari di viaggio. Ma ho pubblicato solo le scritture che chiamo «di servizio», ovvero articoli per «Il Regno», una rivista di attualità religiosa e teologica, per la quale seguivo temi di confine: Chiesa e ambiente, teologia ed economia. Poi, molto tardi, ho sentito il desiderio di un ascolto anche per la scrittura narrativa. Il fatto di non aver fretta di pubblicare mi ha permesso un lungo lavoro sul suono delle parole, sulla relazione fra la storia e la parola. Ho scritto e riscritto decine di volte. Questo secondo romanzo è un lavoro di dodici anni.

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Fonte: Il Messaggero

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