L’ora nona

Il filo rosso di queste «Riletture» è la domanda sulla vita e su Dio. I romanzi sono più attrezzati dei trattati in queste cose, perché com’è ovvio partono sempre dalla vita, e ci rimangono dentro, e non hanno la pretesa di dare una risposta. Peggio ancora, la risposta. Mentre ai trattati, soprattutto teologici, è richiesto di chiudere in qualche modo il cerchio, di dare una risposta, fosse pure prudente, e spesso proprio non lo è.

La letteratura, quindi. E con ostinazione si va in cerca di romanzi in cui la dimensione di fede, nella forma dell’interrogazione o dell’esperienza, sia presente in modo non occasionale o peggio strumentale. Ma niente. C’è pochissimo nella smisurata produzione di romanzi che in Italia vengono pubblicati, e c’è da chiedersi perché, dal momento che siamo la culla del cattolicesimo e che l’invocazione dell’identità cristiana è diventata ossessiva e ipertrofica negli ultimi anni.

E si finisce nel passato, sempre. Manzoni, Fogazzaro, Parise, Monicelli, Silone e poi, fuori confine ma la letteratura non ha confini, Bernanos, Chesterton, Seipolt, O’Connor. Con l’eccezione, meravigliosa, di Marilynne Robinson, americana, autrice contemporanea immensa, calvinista, lo dice spesso quando parla di sé, la cui scrittura è tutt’uno con la conoscenza e l’esperienza religiosa e di fede. E poi, oggi, c’è anche Alice McDermott, ancora americana, i cui personaggi si muovono invece dentro la cultura cattolica. In attesa della traduzione italiana del suo ultimo romanzo, Absolution, pubblicato da qualche mese, si può intanto rileggere con assoluta delizia L’ora nona (Einaudi 2019, traduzione di Monica Pareschi; cf. anche Regno-att. 12,2020,331).

Primi del Novecento, Brooklyn, quartiere poverissimo di immigrati irlandesi. L’incipit è perfetto. «Il 5 febbraio era stata nel complesso una giornata buia e umida: pioviggine fredda la mattina e cielo basso, grigio ferro per il resto del pomeriggio. Alle quattro, Jim convinse la moglie Annie ad andare a fare la spesa prima che il buio calasse del tutto. Dopo un lieve cenno di saluto le richiuse la porta in faccia» (4).

Struggente, il buio e il freddo, inquietante, perché alla premura di far uscire la moglie prima del buio si contrappone il sospetto che qualcosa non vada per il verso giusto. Perché non esce lui? D’accordo, nelle comunità cattoliche irlandesi emigrate le donne facevano la spesa. Però poi lui le richiude la porta in faccia. Il fatto è che Jim la manda via perché vuole avere un piccolo tempo tutto per sé, per morire, per aprire il gas dello struggente appartamento in cui vive e farla finita. Anche se sua moglie aspetta un bambino. Forse per quello. La ama, lo si capisce.

È un uomo bello e gentile che forse è depresso o forse è solo troppo consapevole della vita. Non sa tenersi un lavoro, uno di quei lavori da schiavi che gli immigrati dovevano accettare come fosse una cuccagna e con gratitudine. Ma lui non poteva. Non si alzava in tempo. Veniva licenziato dopo pochi giorni. Niente di che, ma quel tipo di condizione non ha margini di trattativa. Jim muore e la moglie Annie resta sola con la sua bambina nella pancia.

Ma già, in queste prime pagine d’incanto, si affacciano personaggi che fanno splendere di una luce discreta il proprio ruolo. Suor St Saviour, delle Piccole sorelle dei poveri infermi, tornava al convento dopo una giornata di questua davanti ai grandi magazzini Woolworths e voleva solo rientrare, con le gambe gonfie, la vescica piena. Ma si ferma, non passa oltre e semplicemente si lascia portare dentro la situazione, e le dà una svolta. Non le interessa il giudizio. Già tutti pronti a sussurrare con moralistica riprovazione che l’uomo si è suicidato, già tutti pronti a escluderlo dalla Chiesa (cattolica) in cui credeva: aveva acquistato un pezzetto di terra al cimitero cattolico, appena arrivato.

«Era stata una giornata greve di disperazione. Dio stesso non aveva potuto farci niente, suor St Saviour ne era convinta. Era convinta che mentre nell’appartamento al piano di sopra un giovane si liberava dal giogo di quella vita grigia… non per mancanza d’amore, ma per l’assoluta incapacità di andare avanti (…) Dio era rimasto lì, con la testa fra le mani» (15).

Grazie all’intercessione (laicamente può essere tradotta con senso di responsabilità, o con compassione, nell’accezione di «sentire insieme») della suora, Annie trova riparo e casa nel convento, dove lavorerà nella lavanderia e dove nascerà la figlia Sally, amatissima bambina che da grande dovrà trovare il proprio posto nel mondo, cosa non facile dal momento che il suo mondo naturale sembra essere il convento.

Ma intorno al convento vortica un’umanità varia e interessante, piena di attese e piccole felicità che possono rendere la vita assolutamente degna e bella. Non perfetta, e nemmeno l’amore, che alla fine sia la madre che la figlia troveranno, sarà sufficiente a metterle al riparo dalla malinconia, come viene giustamente chiamata. La malinconia non è la malattia della depressione, è il senso che qualcosa nella vita è andato, va o potrà andare storto. È un correttivo nobile al senso di onnipotenza che uccide molto, ma molto di più. Soprattutto uccide il nostro prossimo.

C’è da dire che la fede è delle donne, qui. Le suore soprattutto. Suor Lucy e suor Jeanne che rischia la propria fede fino in fondo: «Ho rinunciato al mio posto in cielo tanto tempo fa, – disse –: Per amore dei miei amici» (266). Un incanto, questo romanzo.

Naturalmente resta prosaicamente la domanda: perché la narrativa (italiana) non parla di Dio? Possiamo dare risposte diverse, ma la più ovvia, e banale, è forse che della Scrittura e della fede oggi in Italia si sa pochissimo, perché al netto di un uso strumentale e identitario che una politica senza simboli propri e senza pensiero nobile ne fa, è irrilevante, semplicemente irrilevante. E allora, ecco, il passaparola di noi lettori-cercatori, può davvero essere una gioia.

Il Regno – attualità, 15 gennaio 2024.

lunario dei giorni di quiete

Tutti gli anni, tutti, verso Natale a chi lo conosce già viene in mente il Lunario dei giorni di quiete (a cura di Guido Davico Bonino, Einaudi, Torino 1997). Con gratitudine lo si prende in mano e lo si spilucca, come un dolce opulento, di quelli natalizi appunto, a cui attingere per un candito, un pezzetto furtivo di glassa, una montagnola di briciole goduriose accumulate negli angoli.

In realtà è una coltissima raccolta di testi di autori che hanno avuto a cuore il senso delle cose, della vita e soprattutto si sono interrogati su Dio. Pagani e cristiani, più cristiani. Conosciuti e no.

Un testo al giorno per 365 giorni. Pochi pochissimi possono sinceramente vantare di conoscerne la maggior parte. La bellezza è proprio la scoperta. Chi è costui? Com’è possibile che non lo si conosca se ha detto e scritto questo? Ma non importa davvero.

Infine è un gioco trovare un testo per ogni giorno dell’anno. E i giochi sono cose serissime. E quale anno, poi? Quello in cui è stata scritta la raccolta oppure quello in cui è stata ripubblicata o infine in cui è stata letta o riletta? Qui si tocca con mano l’assoluto della scrittura, della Parola.

Visto il periodo, partiamo da dicembre. Il 25. Troviamo una poesia deliziosa, profonda, meravigliosamente antiretorica: Il Natale delle zitelle, di Marie Noël, nom de plume di Marie Rouget, poetessa francese morta nel 1967. «Tre zitelle, tre, eccoci arrivate qui,/ portando tre vecchie lampade,/ per adorare il Bambino…/ O Vergine, eccoci qua, le ultime di tutti:/ d’un tal ritardo, eccoci qua, umiliate/ ma il fatto è che gli altri, partendo;/ ci hanno dimenticato./ Tutto il paese in festa, senza di noi,/ a mezzanotte se n’andò (…) Siam noi, Gesù Bambino, siam noi, tre zitelle,/ tre, così povere e brutte,/ che nessuno ha mai voluto prenderci in sposa./ Un marito, passi! È un figlio/ che manca al nostro cuore» (518).

Lo toccheranno infine il piccolo Gesù, lo sfioreranno con la punta delle dita «tiepide», e in questo aggettivo timidissimo sta tutto il fuoco del cuore di tre zitelle senza figli che desiderano il Bambino. 

Ancora a dicembre il Lunario offre una poesia leggerissima di Carlo Betocchi, collocata in un giorno d’inverno forse a Bordighera dove spesso risiedeva. In un momento indefinito, «non alba né tramonto» i suoi pensieri si sono alzati in volo come farfalle, farfalle senza pretese, quelle degli orti, bianche e gialle, e forse il poeta si stava perdendo ma «una tremolante luce/ d’un altro mondo invadeva quella valle/ dove io fuggivo, e con la sua voce eterna/ cantava l’angelo che a Te mi conduce» (500).

Sono molti gli angeli fra queste pagine, ed è ovvio che sia così. Forse meno scontato è trovare tanti… asini. C’è lo straordinario asino pasquale di Chesterton: «Testa mostruosa e voce lacerante/ E orecchie come ali vagabonde;/ Diabolica parodia ambulante/ Di tutti gli animali a quattro zampe./ Miserabile paria della terra (…) Sciocchi! Perché ebbi anch’io la mia ora,/ Un’ora del passato dolce e fiera:/ Clamore intorno alle mie orecchie,/ E palme davanti ai miei piedi!» (136). Splendido.

Come gli asini di Francis Jammes, poeta francese che ritrova Dio dopo anni di lontananza e che scrive una Preghiera per andare in paradiso con gli asini in cui alla fine asini e angeli s’incontrano nel Paradiso di Dio: «Quando tempo sarà di ritornare a Voi, mio Dio (…) Col mio bastone andrò lungo la via maestra/ E agli asini dirò, miei grandi amici:/ Io sono Francis Jammes e vado in Paradiso,/ Che non c’è inferno nel paese di Dio./ Dirò: Del cielo azzurro/ Soavi amici, venite, accompagnatemi, / Povere bestie che girando il muso/ O con colpi d’orecchie vi schermite/ Da fruste, e mosche, e api (…) Con questi asini, Dio, fate che a voi ritorni./ E che in pace profonda angeli ci conducano/ Verso ruscelli ombrosi, / e ridano ciliegie/ Più lisce della guancia alle fanciulle,/ Fate che in quel reame delle anime, / Curvo sull’acqua sacra io stia come gli asini/ A contemplare l’umile, la dolce povertà/ Nell’amoroso specchio della vostra eternità» (526s).

Certo ci sono altre immagini del Paradiso, in attesa d’arrivarci, possiamo immaginare sul modello della nostra perfetta felicità. Per Virgilio Schönbeck, poeta dialettale triestino morto alla metà del secolo scorso, il paradiso è più domestico e francamente assai gioioso e godurioso: si sta con la «mia molge giòvine,/ e i mii fioi grandi, e anca, / sì, putei; (…) E stemo insieme; e tuti/ insieme spassegiemo; / e se metemo in tola/ e magnemo e bevemo» (70).

Infine, per l’anno nuovo che ci aspetta, il Lunario offre il dono di una lettera che il bambino Pillus Vogel, di Wuppertal, ha scritto su sollecitazione della maestra. Un compito per casa, scrivere i desideri per l’anno che viene, è il 1976, e lui ne scrive due.

Il primo è un desiderio «contro» e questo gli spiace un poco, ma infine lo formula bello chiaro: è «contro i ricchi, che mi sembra siano davvero i peggiori di tutti noi: tra quelli che ho conosciuto non ce n’è uno che non sia avaro, pigro, superbo: e anche se non ti parlano, senti che sono egoisti lontano un chilometro (…) Io non sono perché debbano essere perseguitati o puniti, sennò che cristiano sarei? Ma mi piacerebbe che il Borgomastro della nostra città (…) gli appioppasse una tassa speciale, solo per loro, con la quale costruire una scuola: sì, la Scuola per la Rieducazione dei Ricchi ad essere più Buoni» (524). L’eterno bisogno di giustizia.

E poi però c’è un secondo desiderio, del quale si vergogna un poco perché è pretenzioso: «Arrivare a veder Nostro Signore Gesù Cristo in faccia» (525).

Pillus Vogel è morto a 19 anni di leucemia. Stringe il cuore. Davvero assai presto doveva avverarsi questo desiderio di ogni cristiano.

Il Regno – attualità, 15 dicembre 2023.

la caduta

Albert Camus scrisse La caduta (qui Euroclub, Milano 1979) quattro anni prima di morire. Era il 1956, l’anno dopo avrebbe preso il Nobel per la letteratura. Era intellettualmente un isolato. Ripudiato il comunismo, il capitalismo e ovviamente, prima ancora, il fascismo, era sostanzialmente attaccato da tutti gli ex amici di ideologia ed era parte a sé stesso.

Come il protagonista di questo ossessivo monologo, l’avvocato Jean-Baptiste Clamence, prima ammirato principe del foro di Parigi, ora, al tempo della narrazione, misterioso oscuro consigliori di ladri o falsari, in un oscuro baraccio di Amsterdam, il Mexico-City. Parla sempre lui e non dà mai la parola al suo ascoltatore – interlocutore proprio no – che però non è il lettore generico. Ha più o meno l’età del narratore, è abbastanza colto e ricco, non è stato generoso con i poveri.

È lo specchio di chi parla. È l’intera possibile conosciuta o sconosciuta umanità. La pretesa è quella di uno sguardo totale sul desiderio, il vizio e la virtù degli uomini. Uomini come genere perché lo sguardo è proprio maschile. È piena di donne, la narrazione della vita di Jean-Baptiste Clamence, ma in nessun modo le donne sono protagoniste di qualcosa. Sono oggetto (di desiderio), trofeo (per tutta la prima parte della vita di lui), trappole in cui cadere sapendo di farlo e quindi giochi, puri giochi. Ma non c’entrano. Perché il potere è degli uomini.

Difficile trovare oggi un romanzo così innocentemente (intenzionalmente) chiuso nell’orizzonte maschile.

Jean-Baptiste (Giovanni Battista, il precursore?) ripercorre la strada del suo successo professionale, l’ebbrezza dell’essere ammirati, le mille donne conquistate e lasciate. Con il senno di poi, la ripercorre. Il poi è quello che arriva dopo la consapevolezza, la scoperta, per lui improvvisa, che alla fine quel che si vuole ferocemente è «vivere in alto» per «esser visto e salutato dal maggior numero». Ma «in fin dei conti, per essere conosciuti basta uccidere la portinaia» (138). Ecco.

Oggi le portinaie non esistono più, ma potremmo attualizzare: per essere visti basta uccidere la moglie, violentare la fidanzata o andare in televisione, sui social, basta esagerare, scatenarsi nella trovata più grossa, scandalosa, smisurata. Finché qualcun altro non trova quella più smisurata ancora. Tutto per sentirsi «figlio di re o roveto ardente» (140). Principe o Dio, comunque prescelto. È un vorticoso passare da un’intuizione all’altra, ciascuna potrebbe aprire una strada nuova, una saggezza nuova ma non capita perché Jean-Baptiste non ha la consistenza morale ed emotiva necessarie per ricavare qualcosa dalle proprie riflessioni. Capisce, esplicita anche, con lucidità, ma passa oltre.

Come quando dice che è stanco, che ormai la chiarezza di mente che gli amici gli riconoscevano da avvocato brillante quale era, non se la sente più sua. Anzi, nel frattempo ha scoperto di non avere più amici, «solo complici. In compenso ne è cresciuto il numero, sono diventati il genere umano» (168).

Tutti siamo ugualmente colpevoli di tutto. Sappiamo e scappiamo. Facendo finta che sia troppo tardi per fare qualcosa, come ha fatto lui, alla fine lo racconta all’ascoltatore concreto e universale al quale si rivolge.

Una sera sul Pont Royal ha incontrato una donna che appena un secondo dopo che lui l’ha sorpassata si è buttata nella Senna. E lui l’ha sentita gridare, e poi basta. E poi è tornato a casa. Ma il vero si è proposto, e tutto quello che poteva essere affogato nel vino e seppellito fra le braccia di una donna diventa impossibile. Fine dell’innocenza, se mai c’è stata.

Ma qual è la caduta? Cade una donna, dal Pont Royal a Parigi, il suo urlo trapassa la notte e insieme la vita di Jean-Baptiste Clamence. Molto probabilmente è morta, ma nemmeno questo si sa, perché lui, dopo, nei giorni successivi, non legge nemmeno i giornali. Cade la vita di lui. Questo lo si sa. La caduta di lei è la caduta di lui, punto di non ritorno. Pensa di essersi lasciato alle spalle l’intera faccenda, ma non è così.

Una risata – il riso! Ecco come il riso è davvero pericoloso, lo scrivevano i padri del cristianesimo – lo perseguiterà a partire da qualche sera dopo. Una risata non cattiva, leggera, ma una risata. Chissà che cosa vuol dire. Tutto quello che fai non conta? Tutto è leggerissimo? Chi credi di essere? E cade, alla fine, ogni possibile composizione del dramma. La vera caduta è questa forse, ed è la caduta originaria, dell’essere uomini e donne (ancora) senza redenzione. Quando abbiamo scoperto che «ogni uomo intelligente (…) sogna di essere un gangster e di regnare sulla società con la sola violenza», ma «siccome non è facile come si potrebbe pensare (…) ci si affida alla politica e si ricorre al partito più crudele» (157), allora davvero non si può tornare indietro, dalla consapevolezza non c’è ritorno.

Possiamo stordirci ma alla lunga non funziona, oppure trovare una scorciatoia forse accettabile. La sua è questa: diventare «giudice penitente» (133). Confessare a chi incontra la propria abiezione, lentamente, metodicamente, con l’abilità consumata di un avvocato (oggi potrebbe essere un giornalista? Un filosofo del web? Influencer? Un esperto moderno di spiritualità eclettica, spiccia, profonda?), assumere la radicale condizione di penitente per poter raccontare, riconoscere ogni tremenda colpa d’azione e d’omissione, così che anche chi lo ascolta sia indotto a riconoscere, catarticamente, superficialmente, qualunquisticamente le sue colpe che sono quelle di tutti.

E poi finalmente essere giudice, spietato affilato giudice di tutti.

Forse che in tutto questo qualcosa ci è oggi piuttosto familiare?

Da Il Regno – attualità, 15 novembre 2023.

Lettera a una professoressa

Don Milani è divisivo. Lo è stato sempre e continua a esserlo. La gioia assoluta di ogni editore, oggi. Divisivo vuol dire polemiche, articoli, visualizzazioni, popolarità, denaro. Povero lui, che povero scelse di essere e solo dei poveri si è occupato. E poveri anche noi, perché davvero non è facile mantenere il piè fermo nella confusione.

Allora. Chi frequenta per mestiere e passione il mondo della scuola e della letteratura sa che Lettera a una professoressa (Libreria editrice fiorentina, Firenze 1976) è un capolavoro. Di scuola e di letteratura. L’incipit perfetto, diretto, sfacciato, che ogni autore sogna di trovare: «Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti» (9), e già siamo obbligati a continuare a leggere.

E insieme la competenza, oggi si direbbe così, nelle questioni didattiche e pedagogiche più vere e appassionanti: la dispersione scolastica, sempre usando il lessico dei nostri tempi, la didattica cooperativa buona sempre e praticamente obbligatoria nella pluriclasse (cioè costituita da studenti di diverse età che in contesti diversi sarebbero distribuiti per classi omogenee) che don Milani aveva di necessità creato a Barbiana; la didattica immersiva per le lingue straniere (i ragazzi di don Milani andavano all’estero a lavorare e così imparavano le lingue eccome) e così via.

C’è talmente tanto di tutto quello che a scuola s’è fatto dopo, che ci si chiede come sia possibile attaccare anche ferocemente questo prete bizzarro che in un oscuro paese dell’Appennino insegnava la parola a un manipolo di ragazzi sicuro che questo fosse il suo compito di predicatore della parola di Dio.

Forse il motivo è quello di sempre, quando partono attacchi sgangherati. Che ha ragione, che quello che ha scritto rimane, come capita ai classici della letteratura, e anche loro sono di tanto in tanto divisivi, e allora resta solo l’arma del discredito, anche personale, e pure questo gli è capitato, in tempi recenti.

Comunque. Lo si accusa, testi alla mano, di essere il padre della deriva lassista della scuola italiana, perché ha smontato il feticcio del merito: «Selezione suicida»; «Una scuola che seleziona distrugge la cultura» e così via (104s). Si sa che ai testi, torturandoli opportunamente, si può far dire quello che si vuole. Tagliando, estrapolando, isolando parole ed espressioni.

E infatti. Don Milani di merito e selezione parla sì, ma a partire dalla disuguaglianza. Il merito va benissimo ma dopo che la scuola ha riparato la condizione d’immenso, iniquo svantaggio con cui i bambini arrivano a scuola. Non c’è storia di merito possibile, racconta Lettera a una professoressa, se c’è chi nemmeno ci arriva a scuola come accadeva ai bambini del tempo di Barbiana se non ci fosse stata Barbiana, e come accade oggi, se non recuperiamo i bambini dispersi, si chiama dispersione ma potremmo chiamarlo sprofondamento. Sommersi, invisibili, spariti, vivi perché hanno imparato l’arte di sopravvivere nei ghetti delle città.

Ecco. Magari a molti sta bene, che le cose vadano così. Se si nasce dalla parte giusta, ci può andare bene. Se la scuola italiana (e di parte del resto dei paesi ricchi) non ha saputo colmare questa disuguaglianza è perché non ha seguito abbastanza don Milani, non perché lo ha seguito troppo. Non ha dato sufficienti risorse per dare la lingua italiana a chi arriva in classe senza parole, perché culturalmente bisognoso o perché straniero. Non si è fatta carico a sufficienza dei poveri, di cultura e di spirito.

Dove questo è stato fatto, scuole che noi gente di scuola, appunto, conosciamo bene e ammiriamo e studiamo, ci sono stati risultati splendidi, come a Barbiana. Non bocciare vuol solo dire che «arrivare alla terza media non è un lusso. È un minimo di cultura comune cui ha diritto ognuno. Chi non l’ha tutta non è Eguale» (80s).

Lo si accusa di manicheismo: i poveri tuttibuoni, i ricchi tutticattivi. Iniziatore inconsapevole e involontario della deriva armata del Sessantotto, ma non per questo senza colpe, perché da una posizione all’altra si scivola e lui è il maestro (cattivo) a cui tanti si sono ispirati. Lui che ha pagato carissima la posizione antimilitarista della Lettera ai cappellani militari. Ma la Lettera a una professoressa lo dice chiaro, che anche i ricchi escono male dalla scuola che esclude, perché «ai ricchi toglie la conoscenza delle cose» (105).

Contro di lui si arruola (termine esatto, è una battaglia) l’uno su mille, fra i poveri, che ce l’ha fatta e che testimonia come il duro lavoro sul greco e sul latino può dare il riscatto sociale. Verissimo, purché al liceo ci arrivi, e non sia infinitamente pluribocciato prima di trovare chi gli dà la parola, le parole, la lingua, come faceva ostinatamente don Milani.

E comunque, questa retorica consolatoria finge di non sapere che fra i 999 che non ce la fanno la maggior parte non è pigra e colpevole, è solo nata senza giustizia intorno.

La forza della Lettera a una professoressa è la contabilità degli esclusi. Le tabelle finali. I bocciati sono i poveri. Scartati. C’è esattamente questa parola, che è scolastica e politica. 

Don Milani non ha mai voluto essere copiato, cacciava chiunque gli chiedesse risposte e soluzioni. Stava in un paese che non aveva scuola e ha fatto scuola. I suoi bambini avrebbero continuato a zappare zolle (e forse questo va bene a tanti, quali che siano le zolle) e invece hanno viaggiato per il mondo, hanno fatto mestieri diversi, sono diventati anche professori e politici.

Ha detto in faccia al mondo che la disuguaglianza fa male a sé stessi, alla società, alla pace. Ha dato una speranza. 

Quelli che lo criticano possono dire lo stesso? 

Il Regno – attualità, 15 giugno 2023.