Lettera a una professoressa

Don Milani è divisivo. Lo è stato sempre e continua a esserlo. La gioia assoluta di ogni editore, oggi. Divisivo vuol dire polemiche, articoli, visualizzazioni, popolarità, denaro. Povero lui, che povero scelse di essere e solo dei poveri si è occupato. E poveri anche noi, perché davvero non è facile mantenere il piè fermo nella confusione.

Allora. Chi frequenta per mestiere e passione il mondo della scuola e della letteratura sa che Lettera a una professoressa (Libreria editrice fiorentina, Firenze 1976) è un capolavoro. Di scuola e di letteratura. L’incipit perfetto, diretto, sfacciato, che ogni autore sogna di trovare: «Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti» (9), e già siamo obbligati a continuare a leggere.

E insieme la competenza, oggi si direbbe così, nelle questioni didattiche e pedagogiche più vere e appassionanti: la dispersione scolastica, sempre usando il lessico dei nostri tempi, la didattica cooperativa buona sempre e praticamente obbligatoria nella pluriclasse (cioè costituita da studenti di diverse età che in contesti diversi sarebbero distribuiti per classi omogenee) che don Milani aveva di necessità creato a Barbiana; la didattica immersiva per le lingue straniere (i ragazzi di don Milani andavano all’estero a lavorare e così imparavano le lingue eccome) e così via.

C’è talmente tanto di tutto quello che a scuola s’è fatto dopo, che ci si chiede come sia possibile attaccare anche ferocemente questo prete bizzarro che in un oscuro paese dell’Appennino insegnava la parola a un manipolo di ragazzi sicuro che questo fosse il suo compito di predicatore della parola di Dio.

Forse il motivo è quello di sempre, quando partono attacchi sgangherati. Che ha ragione, che quello che ha scritto rimane, come capita ai classici della letteratura, e anche loro sono di tanto in tanto divisivi, e allora resta solo l’arma del discredito, anche personale, e pure questo gli è capitato, in tempi recenti.

Comunque. Lo si accusa, testi alla mano, di essere il padre della deriva lassista della scuola italiana, perché ha smontato il feticcio del merito: «Selezione suicida»; «Una scuola che seleziona distrugge la cultura» e così via (104s). Si sa che ai testi, torturandoli opportunamente, si può far dire quello che si vuole. Tagliando, estrapolando, isolando parole ed espressioni.

E infatti. Don Milani di merito e selezione parla sì, ma a partire dalla disuguaglianza. Il merito va benissimo ma dopo che la scuola ha riparato la condizione d’immenso, iniquo svantaggio con cui i bambini arrivano a scuola. Non c’è storia di merito possibile, racconta Lettera a una professoressa, se c’è chi nemmeno ci arriva a scuola come accadeva ai bambini del tempo di Barbiana se non ci fosse stata Barbiana, e come accade oggi, se non recuperiamo i bambini dispersi, si chiama dispersione ma potremmo chiamarlo sprofondamento. Sommersi, invisibili, spariti, vivi perché hanno imparato l’arte di sopravvivere nei ghetti delle città.

Ecco. Magari a molti sta bene, che le cose vadano così. Se si nasce dalla parte giusta, ci può andare bene. Se la scuola italiana (e di parte del resto dei paesi ricchi) non ha saputo colmare questa disuguaglianza è perché non ha seguito abbastanza don Milani, non perché lo ha seguito troppo. Non ha dato sufficienti risorse per dare la lingua italiana a chi arriva in classe senza parole, perché culturalmente bisognoso o perché straniero. Non si è fatta carico a sufficienza dei poveri, di cultura e di spirito.

Dove questo è stato fatto, scuole che noi gente di scuola, appunto, conosciamo bene e ammiriamo e studiamo, ci sono stati risultati splendidi, come a Barbiana. Non bocciare vuol solo dire che «arrivare alla terza media non è un lusso. È un minimo di cultura comune cui ha diritto ognuno. Chi non l’ha tutta non è Eguale» (80s).

Lo si accusa di manicheismo: i poveri tuttibuoni, i ricchi tutticattivi. Iniziatore inconsapevole e involontario della deriva armata del Sessantotto, ma non per questo senza colpe, perché da una posizione all’altra si scivola e lui è il maestro (cattivo) a cui tanti si sono ispirati. Lui che ha pagato carissima la posizione antimilitarista della Lettera ai cappellani militari. Ma la Lettera a una professoressa lo dice chiaro, che anche i ricchi escono male dalla scuola che esclude, perché «ai ricchi toglie la conoscenza delle cose» (105).

Contro di lui si arruola (termine esatto, è una battaglia) l’uno su mille, fra i poveri, che ce l’ha fatta e che testimonia come il duro lavoro sul greco e sul latino può dare il riscatto sociale. Verissimo, purché al liceo ci arrivi, e non sia infinitamente pluribocciato prima di trovare chi gli dà la parola, le parole, la lingua, come faceva ostinatamente don Milani.

E comunque, questa retorica consolatoria finge di non sapere che fra i 999 che non ce la fanno la maggior parte non è pigra e colpevole, è solo nata senza giustizia intorno.

La forza della Lettera a una professoressa è la contabilità degli esclusi. Le tabelle finali. I bocciati sono i poveri. Scartati. C’è esattamente questa parola, che è scolastica e politica. 

Don Milani non ha mai voluto essere copiato, cacciava chiunque gli chiedesse risposte e soluzioni. Stava in un paese che non aveva scuola e ha fatto scuola. I suoi bambini avrebbero continuato a zappare zolle (e forse questo va bene a tanti, quali che siano le zolle) e invece hanno viaggiato per il mondo, hanno fatto mestieri diversi, sono diventati anche professori e politici.

Ha detto in faccia al mondo che la disuguaglianza fa male a sé stessi, alla società, alla pace. Ha dato una speranza. 

Quelli che lo criticano possono dire lo stesso? 

Il Regno – attualità, 15 giugno 2023.

Fontamara

Oggi si direbbe che Fontamara di Ignazio Silone (San Paolo, Cinisello Balsamo [MI] 1997) è un libro divisivo.

Per alcuni è datato perché a quasi un secolo di distanza dai fatti narrati i cafoni protagonisti della storia ora sono altri, qualitativamente diversi, soprattutto niente hanno a che fare con la terra. Un libro a tesi con qualche errore perché a primavera i cafoni sono analfabeti e in autunno invece costruiscono un giornalino rivoluzionario, e che giornalino.

Per altri invece è un classico, dove i personaggi sono archetipi, dove le dinamiche sono figura di quelle di oggi, perché il potere è sempre potere e quello fa, dominare i poveri con la legge e l’inganno. E, soprattutto, la terra è sempre terra. E anche l’acqua. Da cui tutto parte. E l’acqua era tutto nel primo libro della Genesi, dove nel Paradiso terrestre i fiumi sono quattro, era tutto nel 1929, quando prende inizio Fontamara, ed è tutto oggi, in questi giorni in cui compulsiamo il meteo a cercare la pioggia.

Il romanzo è stato pubblicato nel 1933 in lingua tedesca. Silone era in Svizzera, il fratello era morto in prigione torturato dai fascisti appena un anno prima. La storia è ambientata nella Marsica, al confine fra l’Abruzzo e il Lazio. Il nome del paese è inventato ma sta dalle parti del lago Fucino, prosciugato per fare spazio a ricche colture di frumento che all’epoca erano in mano a grandi proprietari e che i piccoli contadini continuavano a sognare di poter un giorno possedere in ragione di una giusta redistribuzione.

Tutto comincia con un inganno, l’ennesimo. Una sera un forestiero arriva in paese e intercetta gli uomini raccolti di ritorno dal lavoro e li induce a firmare dei fogli. Una petizione, dice il forestiero, al nuovo Governo che finalmente ascolta i cafoni. Soprattutto assicura che non c’è niente da pagare. Niente da pagare è la formula magica per chi è poverissimo e così i presenti uno a uno firmano e poi il forestiero semplicemente aggiunge le firme di chi manca ed è già andato a casa.

Nessuno sa bene che cosa ha firmato, ma la mattina dopo il corso dell’unico ruscello che porta acqua alle aride terre di Fontamara viene deviato verso le terre dell’Impresario appena nominato podestà, un parvenu del regime fascista ormai ben assiso sulla cadrega di un potere non più così nuovo, ma che i cafoni di Fontamara nemmeno conoscono.

Il resto è uno scivolamento verso la catastrofe. Qualsiasi cosa i cafoni facciano, pacifica, sgangherata, meno pacifica, finisce in ulteriori inganni. Spinti da don Circostanza, un eminente che ritenevano amico, accettano che l’acqua sia suddivisa fra loro e il nuovo padrone nella misura di due terzi e due terzi, e a chi non sa la matematica può sembrare cosa equa. Poi ancora accettano che l’accordo non duri cinquant’anni come proposto dall’Impresario, ma dieci lustri, come media don Circostanza. Appunto.

Bisogna rileggerlo questo romanzo, è un capolavoro di come il potere manipoli l’ignoranza, che oggi è forse meno elementare, ma ignoranza rimane. Di faccende economiche, fiscali, di rappresentanza politica e di partecipazione sociale. 

Poi, e anche prima, perché il racconto ne è davvero intriso, c’è il filo tenace, la trama fitta e però tremendamente sfilacciata della fede. I cafoni che vanno a protestare per l’acqua lo fanno in nome di Dio. Rubare l’acqua è «un sacrilegio mai visto» (39). Quando vengono cooptati dai fascisti per un’adunata ad Avezzano e devono portare il gagliardetto, nemmeno capiscono che si tratta delle bandiere nere col teschio e si portano appresso la nobile insegna di san Rocco, prelevata dalla Chiesa, al passaggio della quale le donne dei campi s’inginocchiano mentre i fascisti la deridono.

Il prete don Abbacchio è un poveraccio, uomo di potere e senza fede, il più blasfemo di tutti i commensali ubriachi che, con i cafoni alla porta che aspettano udienza, si lanciano in una surreale sfida sull’Onnipotente (51).

Ma la trama religiosa è soprattutto nelle figure tragiche di Berardo ed Elvira. Berardo è un cafone senza terra, un gigante buono intriso di senso della giustizia. Nipote di un brigante, destinato a finire ammazzato come il nonno, secondo la profezia della madre Maria Rosa. Elvira è la ragazza che lo ama. Nel momento in cui Berardo decide per disperazione di cominciare a cercare il suo bene invece del bene degli altri, e va a Roma per farsi assumere nelle bonifiche dell’Agro Pontino, Elvira gli ricorda che lei è dell’altro Berardo, quello che lotta contro l’ingiustizia, che si è innamorata.

E parte in pellegrinaggio verso il santuario della Madonna della Libera e chiede alla Vergine d’«intercedere per la salvezza di Berardo», in cambio della sua stessa vita (201). Morirà subito dopo, Elvira, di una misteriosa malattia che la brucia. E intanto Berardo, a Roma, viene arrestato per errore e si sacrifica per salvare un oppositore del regime, che è in cella con lui, e muore di percosse e torture, esattamente come il fratello di Silone.

«E Berardo si è salvato?» mormorò una donna, rivolta alla madre a proposito del voto di Elvira. «Forse, rispose la vecchia Maria Rosa. Nessuno può sapere». «Strana salvezza morire in carcere», disse l’altra sottovoce. «Nessuno può sapere, ripeté la madre». E le tocca ripeterlo tre volte di fronte alle obiezioni della donna. «Forse la salvezza di Berardo è stata essere restituito al suo destino» (201s).

Strana salvezza morire in carcere. E anche morire in croce, di sicuro.

Un romanzo bellissimo, eterno nella semplicità delle dinamiche umane che racconta.

Il Regno – attualità, 15 maggio 2023.