Alla fine è la parola

Questi sono giorni impensati e reclusi e, per contrasto con il confine dei muri che ci contengono, vengono in mente tutte le libertà e tutti i sogni che non avevamo il tempo di sognare quando le nostre notti erano brevissime fra il lavoro fuori, il lavoro di casa, un viaggio e ancora il lavoro il giorno dopo e poi ancora, e dentro tutte le stanze, dove siamo circoscritti come è giusto, ci arrivano le immagini portate dalla Rete, di viaggi fatti da chissàchi, in posti che davvero non sappiamo se potremo mai più vedere, dopo, un qualche dopo, e ci arrivano anche immagini da libri letti in un altro mondo, poesie, dipinti, racconti.

L’immagine dei camion militari che trasferiscono i morti da coronavirus, lenti e ordinati come le processionarie nelle nostre montagne, e poi le bare, allineate, ordinate per numero e provenienza, nelle chiese, nei capannoni, addirittura nelle residenze per anziani, depositi impensati anche questi, hanno richiamato tremende emozioni sorelle, che si pensavano lontane nel tempo. Un lampo, una pagina letta chissà quando e chissà da quale libro. Ingiuria degli anni che passano. Scaffale dopo scaffale si va in cerca.

Finché eccola. Una riflessione della poetessa Hilde Domin, contenuta in una lettera all’amica e a sua volta poetessa Nelly Sachs, premio Nobel per la letteratura nel 1966, che si trova in apertura della raccolta Alla fine è la parola / Am Ende ist das Wort (Del Vecchio editore, Bracciano [RM] 2013): «Alla fine della guerra  ho visto per la prima volta delle immagini dei campi di concentramento (…) La cosa più tremenda per me sono stati i mucchi di cadaveri: tutti quei corpi nudi inermi, come un deposito di bambole slogate impilate l’una sull’altra» (25).

La parola è deposito. Vuol dire che sono tanti. Vuol dire che possono essere lasciati lì e ben chiusi, anonimi, anche se hanno targhetta e numero. Vuol dire che non trovano casa e riposo e si perdono nel mucchio. Vuol dire che si perdono. Perdere la vita è nel conto o dovrebbe esserlo, per noi, meglio tardi e ricchi di anni. Perdere ogni traccia di sé è intollerabile, per noi stessi e per chi ci conosce e ama.

Hilde Domin è nome d’arte, il suo cognome è Löwenstein. È ebrea come Nelly Sachs. È nata a Colonia nel 1909 e sarebbe finita nel mucchio di bambole disarticolate anche lei se non fosse partita a 24 anni, scappata dalla persecuzione, una vita in fuga, sempre via e ancora via, invece noi ci salviamo forse se restiamo, proprio se non partiamo.

Ma questo è ciò che infine si deve imparare: l’arte di essere là dove ci si trova. E non è chiaro chi ce la può insegnare. Hilde Domin una strada la indica, la poesia: «Il poeta contribuisce alla continuazione della vita» (27). Dare ai morti la voce per poter vivere e non restare per sempre dentro il deposito, ma vivere pur conservandone la memoria nelle parole.

«Si deve saper andare via / e tuttavia essere come un albero: / come se le radici rimanessero nel terreno / Come se il paesaggio si muovesse e noi restassimo fermi. / Si deve trattenere il fiato / finché si calma il vento / e l’aria estranea / inizia a girarci intorno, / finché il gioco di luci e ombre, / di verde e di blu, / crea gli antichi disegni, / e siamo a casa, / ovunque essa sia, / e possiamo sederci e appoggiarci / come se fossimo alla tomba / di nostra madre» (Paesaggio in movimento, 51).

Ogni poesia è come un racconto. Hilde Domin è esperta di rinascite, questo è toccato alla sua generazione, e loro non l’hanno cercato, durissimo imparare. Nessuna retorica, solo la perfezione della parola precisa: «Non ci sarà nessuno dopo di noi / che potrà raccontare, / nessuno, che prenderà in mano / e porterà a termine / ciò che noi lasciamo incompiuto (…) Dobbiamo indossare scarpe sottili / o camminare scalzi. / Ciò che tocchiamo / toccarlo con dita leggere / con polpastrelli vigili. / Nulla con indifferenza. / Ogni volta è l’ultima / o potrebbe esserlo (…) Non vogliamo lasciare nulla / incompiuto / o lasciare ai fantasmi / bicchieri mezzi vuoti sul tavolo» (Non ci sarà nessuno dopo di noi, 205).

Sullo sfondo della Domin c’è la Shoah. In attesa del nome con cui saranno chiamati questi giorni che viviamo, si può ascoltare il suono che ci portano i versi, per essere pronti a trovare quelli giusti per continuare, sapendo che non c’è una  regola da capire: «Colui a cui tocca / viene sollevato / da un’enorme gru / e posato / dove niente ha più valore, / dove nessuna strada / porta dall’ieri al domani (…) Poi viene spogliato / e messo in mostra al mercato dei rifiuti /. Mani ostili / toccano i fianchi» (A chi tocca, 133).

Eppure sempre c’è un regalo da accogliere, quando arriva, anche se sempre porta la memoria del dolore: «Nuvole di tenerezza / mi catturano, / e la felicità conficca / il suo piccolo dente / nel mio cuore» (Regali del vento, 131). 

Intanto c’è questa attesa fatta di un andare prudente, col pensiero, solo col pensiero per ora, e non è facile per nessuno: «Camminiamo / ognuno per sé / per la stretta strada / sopra le teste dei morti / – quasi senza paura – /a ritmo con il nostro cuore, / come se fossimo protetti / finché l’amore / non perde un battito» (Equilibrio, 65).

Da Il Regno, 15 aprile 2020.

Ma la scuola non si ferma

Non è una decisione che si può prendere facilmente quella di chiudere le scuole. Anche solo un giorno.

Quando i giornali pubblicano titoli del tipo: “Sciopero dei docenti. Scuole chiuse”, non è mai vero. I presidi sono tenuti a mettere in atto tutte le misure organizzative possibili per assicurare la sorveglianza degli studenti senza chiudere le scuole. Solo quando l’adesione di docenti o collaboratori è così massiccia che in nessun modo si può assicurare l’incolumità dei ragazzi dentro le aule, è possibile chiudere, ma solo i plessi scoperti. Il preside deve fare una determina motivata, in cui indica come e perché è costretto a sospendere le lezioni. Le scuole chiuse rappresentano quindi nella realtà e nel simbolo l’eccezionalità del momento, anche perché in questi giorni non solo sono sospese le lezioni, ma sono chiuse anche le segreterie. A memoria di chi sta nella scuola, non è mai capitato, nemmeno con le nevicate eccezionali del 1985.

Finora si è trattato di due (primo ciclo) o tre giorni (superiori e università). Praticamente un ponte con le vacanze di Carnevale. Ora per Veneto, Emilia-Romagna e Lombardia si tratta di una settimana intera. È un periodo significativo che ha un impatto importante sul piano della riorganizzazione familiare e, per la novità, anche sull’organizzazione della didattica e della scuola stessa. Una settimana o due non rappresentano una tragedia per i programmi purché la scuola riesca a mantenere il legame con il processo di apprendimento. “Lasciar cadere” questi giorni vuol dire perdere l’opportunità di verificare quanto le scuole si sanno attrezzare per una didattica che possa dare continuità all’apprendimento, anche a distanza, con modalità e strumenti che ci sono già e che sono conosciuti e apprezzati dagli studenti. Si può fare. Per situazioni particolari come la malattia prolungata di uno studente, più o meno tutte le scuole sono in grado di farlo, anche perché si ingaggiano i docenti su base volontaria e di solito si prestano i tecnologicamente più attrezzati. Un tempo non era così, adesso invece sì.

Ora però si tratta di organizzare una didattica a distanza strutturata, coinvolgendo in modo sistematico e ordinario tutti i docenti e gli studenti. Le scuole che hanno già messo a regime modalità di didattica a distanza stanno lavorando senza difficoltà. Sembrano meglio attrezzate le università.

Gli altri livelli di scuola si muovono a spot. Il Miur ha organizzato un gruppo di supporto per le scuole che vogliono sperimentarla, in corsa, vista l’emergenza, invitando a collaborare “i produttori di hardware e software che desiderano rendere disponibili a titolo gratuito i propri prodotti”. In realtà è qualcosa che non si può improvvisare e che non potrà essere senza costi, come chiede il ministero, ma la strada sarà questa e i giorni particolari che stiamo vivendo ci dicono che si deve percorrerla con saggezza.

Da La Repubblica, 1 marzo 2020.