La voce di una donna parla da un luogo che lei chiama Casa di riposo e che a poco a poco capiamo essere un aldilà misterioso tanto per chi è rimasto qua quanto per chi lo abita. Si rivolge al Presidente della Casa di riposo, che nessuno ha mai visto ma che ci deve essere poiché ogni cosa là obbedisce ai suoi ordini.
Vuole giustificarsi davanti a lui, spiegargli le ragioni per cui ha rinunciato all’eccezionale privilegio che le era stato concesso, quello di tornare al mondo da cui era venuta, di vivere ancora giorni accanto all’uomo che aveva amato, il poeta irrequieto e vagante a cui lei aveva dedicato la vita, perdonato i peccati, regalato le parole e i versi anche, qualche volta.
Lei dunque capirà, di Claudio Magris (Garzanti, Milano 2006) è una piccola meraviglia di poesia e di amore per la vita. E parla d’amore, innanzitutto. C’è l’amore dei corpi che assecondano e insieme creano la relazione: «Gli ho insegnato io tutto … Quando facevamo l’amore, era come un mare, una grande onda che culla solleva sprofonda si rompe sulla riva; lui senza di me sarebbe ancora un bambino, uno che fa all’amore come soffiarsi il naso, non un uomo» (22).
Le parole sono di lei ma lo sguardo è quello di lui che le attribuisce ogni gagliarda delicata superiorità nell’arte di vivere. C’è l’amore che vince la paura: «Che pena mi fanno quelli che hanno paura, che si agitano per un granello di troppo sotto il seno o nella pancia, per uno scarafaggio sotto la tavola o per un giro d’aria; la gente è piena di tic, vuol dire che non fa all’amore nel modo giusto, se no quelle manie le passerebbero» (23).
E poi c’è l’amore che misteriosamente (perché di là i corpi son quel che sono) continua, lecito anche nella Casa di riposo perché, contrariamente a quel che si dice, il Presidente su queste faccende non è severo, non è uno che «punirebbe Adamo ed Eva solo perché magari facevano all’amore in quel bel giardino… mentre su altre faccende, invece – come litigare, mentire, far male a qualcuno, si capisce subito che non transige, diventa un castigamatti» (24).
E ancora, c’è l’amore che misteriosamente conquista per lei la possibilità di tornare. Lui non si è rassegnato all’assenza di lei. Il dolore lo ha reso infine fastidioso agli amici, a cui raccontava con parole di poesia le illusioni dolorose del ricordo: «Dalla sua parte vedo ancora il lieve avvallamento del suo corpo… è impossibile, lo so, le lenzuola sono state cambiate chissà quante volte da quella volta, ma è là, sì, là, ripeteva, quel vuoto leggero accanto a me, con me, la sua assenza al mio fianco, compagna della mia vita» (11).
Poi ha avanzato richiesta al Presidente, affinché lei potesse tornare. Non si è arreso, si capisce che ha fatto più volte la domanda e infine ha ottenuto per lei il permesso di uscita temporanea, ed è andato a prenderla.
Ci sono Orfeo e Euridice certo in controluce. E c’è la trama delle Scritture, ma rovesciata. Smentito san Paolo, Videmus nunc per speculum in enigmate, tunc autem facie ad faciem (1Cor 13,12), perché di là ci si trova sì «dietro lo specchio, ma quel retro è anch’esso uno specchio, uguale all’altro» (49).
E poi, il Presidente non lo vede nessuno, non c’è visione, non c’è conoscenza limpida e definitiva, niente verità. Il viaggio di ritorno, dietro a lui che è venuto a prenderla, lungo scale, corridoi e pianerottoli della Casa, è un passare senza sguardi e saluti: «Correvo silenziosa, fendevo la calca friabile. File di gente passavano davanti a me, ombre come i passanti in quel viale in riva al mare stagliati nel fuoco del tramonto, figurine di carta piegate dal vento» (37).
Niente beatitudine, anche se nessuno sembra soffrire in modo particolare. Certo c’è un po’ di nostalgia della vita nelle parole di lei, ma forse solo perché la prospettiva inaudita di poter tornare le ha riportato pensieri e ricordi.
Si potrebbe dire che una diversa sospensione abiti la Casa, che assicura sì un riposo, ma è un riposo da fatica di vivere. Un accudimento richiesto dalla spossatezza degli anni o delle malattie.
Niente di simile al sonno dopo l’amore che lei racconta con parole piene di passione. Perché allora è proprio lei a rinunciare al ritorno? Lei a chiamare con voce giovane, forte e sicura il suo uomo che la precede e che non può resistere e si volta come nel mito sui cui passi camminano, e così il divieto è infranto, la possibilità di tornare fra i viventi viene ritirata, l’intercessione faticosa e appassionata diventa inutile.
Perché lei capisce che lui le chiederà, vorrà sapere della Casa e di quel che si sa e come e quando scoprirà che nulla si sa anche dopo, che non c’è luce da indicare con le parole, allora sarà condannato a una vita senza più poesia, accartocciato in «un poeta a cui hanno rubato il tema» (51).
L’ultimo atto d’amore di lei è non annientare la speranza di lui. Meglio per lui il rimorso di un gesto avventato che ha rovinato la suprema possibilità del ritorno di lei, che sapere che non c’è nulla da sapere. Certo tutte queste sono le parole del poeta Magris. Canto e consolazione di un amore venuto a mancare, ma è stato, e ha reso bella la vita. Finché siamo di qua, l’amore è tutto. Non possiamo sapere ma possiamo amare e, così, vivere.
Da Il Regno, 15 gennaio 2018