le Chiese che non ci sono più. Intervista a Paolo Repetti

Paolo Repetti,1 qualche settimana fa su Repubblica titolava «Gesù e Maria, perfetti per vendere». La notizia era che la Corte europea per i diritti dell’uomo legittimava l’uso dei simboli religiosi in pubblicità. Il caso era proprio l’uso di Gesù e Maria per una campagna promozionale (cf. anche Regno-att. 4,2018,83).

– È così? Il sacro tira in editoria?

«Non c’è dubbio che da 10 anni lo spartiacque fra editoria religiosa ed editoria laica sia più sfumato e che siano aumentati i lettori di libri religiosi. È nata un’esigenza nuova di un lettore nuovo e in questa l’editore laico si è accomodato. Il crollo delle due “Chiese”, il Partito comunista e la Democrazia cristiana, ha privato la società di due importanti agenzie pedagogiche capaci di leggere la realtà e di produrre senso e valori e ha lasciato il posto a un politeismo della politica dentro uno spazio enorme di richiesta di senso.

Avevano anche una funzione pedagogica importante, oltre che politica. Poi ci sono temi nuovi, come il fine-vita, la procreazione assistita, la crescita dei fondamentalismi. Sono temi di confine fra religione e politica dove però la politica non riesce ad arrivare. E allora si cerca nella spiritualità intesa in senso lato».

– Un nuovo interesse teologico?

«Direi una saggistica “sentimentale-spirituale”. Che risponde alla richiesta di orientamento. Ho l’impressione che siano diminuiti i temi teologici fondamentali e sia aumentata una specie di spiritualità sparpagliata che diluisce il cattolicesimo nel grande mare di una spiritualità indifferenziata. Poi ci sono anche elementi legati al mercato puro e cioè il successo di singoli libri ad argomento religioso. Ma l’interesse teologico sta dentro questo “innamoramento” per la spiritualità in generale.

Il fenomeno non è positivo in sé perché mette tutto insieme, anche il libriccino che regala risposte semplicistiche a domande complesse. Dentro tutto questo c’è anche l’aspetto teologico ma è indotto da questa generale grande ricerca di spiritualità in senso molto ampio».

Dio non è più un interesse di settore

– La collana «Stile libero» nasce nel 1996. È la collana «birichina» di Einaudi, trasversale per generi e temi. Ma non pubblica libri d’argomento religioso fino al 2011. Prima c’è Moni Ovadia, vostro autore sin dall’inizio, poi troviamo le lettere di Flannery O’Connor, e anche un libro militante come Dio non è grande di Christopher Hitchens, dove la religione è il male dei mali. Nel 2011 esce Ave Mary di Michela Murgia e poi Dov’è Dio, un saggio con quattro preti per autori, Ciani, Gallo, Panizza e Rigoldi.

«Moni Ovadia è un amico di sempre e per lui pubblicare i suoi lavori con noi è stato naturale. Non c’è stato un progetto. Abbiamo chiesto di pubblicare Ave Mary in “Stile libero” per dare al libro un taglio più pop. In Einaudi i saggi avrebbero avuto un altro titolo e un’altra storia. È stata una scelta di marketing editoriale. Dov’è Dio? è nato da una riflessione con Severino Cesari. Si è pensato che Dio non fosse un tema di settore ma più ampio, adatto anche al lettore laico che è quello di “Stile libero”. Abbiamo seguito un interesse che c’era già».

– Non con «Stile libero» ma sempre con Einaudi Enzo Bianchi ha pubblicato dal 2006 12 libri. Prima aveva sempre pubblicato con editrici religiose. È come se in Einaudi avesse trovato casa. C’è un grafico dell’Associazione italiana editori (AIE¸ cf. qui sopra) che mostra le «migrazioni» degli autori cattolici alle editrici laiche. Perché se ne vanno?

«L’autore religioso vive il passaggio alla grande editoria come a un mondo con lacci minori. Si apre a un lettore di varia. È come se uscisse da un ghetto buono e protetto per andare su un mare largo. E poi… gli editori laici pagano di più».

– L’editoria laica come grande editoria, lei dice. Ma l’editoria religiosa e in particolare quella cattolica è difficile pensarla come piccola editoria. In Italia ha avuto un mercato enorme. Carlo Maria Martini è stato per almeno un decennio l’autore più venduto in assoluto. L’editoria religiosa in generale ha tenuto meglio di quella laica in questi anni di crisi dei libri. Fino al 2011 è addirittura cresciuta, poi è calata molto meno del mercato in generale… (cf. anche Regno-Annale 2015-2016, 125ss.).

«Aveva una capacità di penetrazione nel mercato di tipo molecolare e aveva anche un mercato protetto. Le persone religiose compravano i suoi libri e li trovavano in tutti gli ambienti che frequentavano e anche fuori: nelle parrocchie, nelle librerie religiose, presenti in tutte le città».

– Dal 2013 il crollo degli editori religiosi. Che ora è molto più grave rispetto a quello del mercato del libro in generale: -8,30% le editrici cattoliche nel 2016, rispetto al mercato che ha registrato un -0,26%. Cos’è successo?

«L’esodo di moltissimi autori alle editrici laiche. Si sono portati dietro i lettori e ne hanno catturati di nuovi. La caduta d’interesse del lettore religioso per gli argomenti specialistici e l’apertura verso un mondo di spiritualità di confine. La sua Chiesa non c’è più e si guarda intorno. E un’editoria religiosa che non ha ripensato se stessa nemmeno in termini commerciali».

– Ripensare se stessa o giocare la carta delle aggregazioni, come ha fatto l’editoria laica?

«Non è un problema tecnico di aggregazioni. Capita in editoria esattamente quel che capita per il mercato del lavoro. Bisogna ripensare il fondamento della propria missione editoriale. L’aggregazione è un tema strumentale: crea sinergie e risparmi di spesa ma non crea nuovi lettori. Serve ad affrontare un periodo di crisi. Allunga il tempo di tenuta ma bisogna trovare idee nuove, da questo non si scappa».

I mercati (un tempo) garantiti e il papa pop

– E il fatto che il prezzo medio del libro d’argomento religioso sia per gli editori cattolici 6,96 €, cioè meno della metà di quello degli editori laici, non aiuta perché?

«Nel mondo di oggi nessuna casa editrice può reggere con prezzi così. È fuori mercato. Un’editoria che non sta sul mercato con le regole del mercato non ha speranza di resistere. Il dramma è l’ovvietà dei gesti e dei pensieri con cui questi editori fanno editoria. È una sorta di editoria di stato. Con i loro mercati garantiti. Si siedono sulle garanzie, vivono di rendita. Ma nel lavoro editoriale devono accadere cose, bisogna fare errori e si deve imparare. Si deve stare sul mercato con le proprie forze. Si deve provare e inventare».

– Questo ripensamento l’editoria laica lo sta facendo?

«L’editoria laica ha sempre dovuto stare sul mercato e reinventarsi. In questo momento di crisi si muove sul breve termine, affacciata sul medio termine. Schiacciati dal presente. Non è una buona cosa ma questo è un problema epocale. Oggi a tutti i livelli si agisce in termini di stimolo-risposta e non di programmazione culturale sul futuro che ha avuto per molto tempo l’editoria del Dopoguerra. È una caratteristica dell’editoria come dell’epoca. Tutto è gesto e non pensiero».

– Paolo Repetti, «Stile libero» ha pubblicato anche un vescovo, Dionigi Tettamanzi, due donne di spiritualità, Madre Ignazia Angelini e Antonella Lumini. In questo momento pubblica libri d’argomento religioso per assecondare il mercato o per crearlo?

«Un po’ e un po’. A metà strada. Si percepisce un interesse maggiore, un allargamento dei temi che catturano i nostri lettori e poi noi creiamo nuovi lettori».

– E i papi? Giovanni Paolo II ha preferito editrici religiose. Papa Francesco è un vortice: Castelvecchi, Newton Compton, Dehoniane, Rizzoli, S. Paolo…

«Il primo libro di papa Francesco è stato pubblicato in 25 lingue. Ha avuto un’attenzione mediatica immensa. I diritti di quel libro hanno dato ossigeno agli editori di tutto il mondo. È un fenomeno d’“intermediazione editoriale”. Ha funzionato la simbolizzazione di una figura: il papa icona pop. Parla direttamente il papa e il pubblico s’avvicina a lui come farebbe con un feticcio.

In questo successo dei libri del papa non c’è un vero progetto religioso. È un fenomeno di dis-intermediazione teologica. È venuta meno completamente la mediazione culturale e gioca un ruolo determinante l’identificazione con la persona ma così salta il pensiero. È un fenomeno generale della nostra società che nella Chiesa cattolica significa il venir meno della mediazione della teologia. Pur bello, profondo, importante per la Chiesa, il discorso di Ratisbona di papa Ratzinger è difficile da leggere. Anche se lui è un teologo immenso, leggerlo è impegnativo. Con papa Francesco salta la mediazione».

Cercare e crearsi i propri lettori

– Ripercorrendo il catalogo «Stile libero» si vede che molti grossi successi sono stati di «autori di un solo libro». Che poi non hanno scritto più nulla né di successo né di interessante. Non ricordo niente di simile nell’editoria religiosa.

«Vero. “Stile libero” ha una quindicina di autori che scrivono per noi con regolarità. Ma poi pubblichiamo anche quando sappiamo che il libro intercetta un interesse del momento, un tema che può attirare, anche se sappiamo che non si tratta di una voce nuova.

L’editoria religiosa questo non lo sa fare eppure si tratta non solo di stare sul mercato anche grazie a questi libri, si tratta pure di corrispondere a una richiesta dei lettori, del momento. Poi il lettore che ha letto quel libro tiene d’occhio il tema, uguale o simile. E torna in libreria».

– Del resto sono spesso romanzi, questi grandi successi singoli. E l’editoria religiosa non c’è proprio sul mercato con i romanzi.

«Sì. Un lettore laico non andrebbe mai a cercare un romanzo da un editore religioso. L’editoria cattolica non ha ancora credibilità sul lettore di letteratura. Vale un pregiudizio d’appartenenza. Se lo scrittore pubblica c’è l’idea che pubblichi in modo condizionato ma soprattutto bisogna dire che se si vuole creare un mercato sulla letteratura bisogna conquistarselo con credibilità e perseveranza, trovando autori nuovi da imporre in modo continuativo, non sporadico.

Attualmente per questa ragione nemmeno il lettore religioso cerca un romanzo sugli scaffali di un editore religioso».

– Severino Cesari diceva spesso che ogni libro è un libro. Perché non funziona con l’editoria religiosa?

«Ma non voleva dire che non esiste l’editore o non esiste la collana. “Stile libero”, benché appartenga a una “Chiesa”, cioè a Einaudi, si è data una forma riconoscibile. Una collana che attraversa tutti i generi: narrativa straniera, italiana, saggistica, fumetto. C’è stato un pensiero e questo ha creato un’identità. Una autorevole riconoscibilità. Vale questo anche per l’editoria religiosa. Deve ripensarsi. Farsi riconoscere da lettori che la scelgono. Non pretendere di essere letta perché esiste».

 

a cura di
Mariapia Veladiano

 

1 Paolo Repetti è fondatore insieme a Severino Cesari – recentemente scomparso – della collana Einaudi «Stile libero» e suo attuale responsabile.

Da Il Regno, 15 marzo 2018.

il mondo nuovo

«Perché, come tutti sanno, i particolari portano alla virtù e alla felicità; mentre le generalità sono, dal punto di vista intellettuale, dei mali inevitabili. Non i filosofi, ma i taglialegna e i collezionisti di francobolli compongono l’ossatura della società» (22).

Il Direttore del Centro di Incubazione e Condizionatura di Londra Centrale (tutte le maiuscole al posto giusto) conosce bene la natura pericolosa dello sguardo largo sul mondo. Quel che conta è in ogni modo impedirlo, far sì che ci si contenti del proprio orizzonte circoscritto credendo che la vita sia tutta lì: collezionare non più (nemmeno) francobolli, che hanno una loro storica e artistica dignità, ma tristi like sotto una notizia falsa che dissemina frottole a spaglio, pietroni lanciati con traiettoria centrifuga che quando riusciamo a riprendere hanno già contuso mezzo mondo.

Aldous Huxley scrive Il mondo nuovo (Mondadori, Milano 1971) nel 1932 cioè quasi un secolo fa. Prevede un mondo dominato da un governo centrale che pianifica l’umanità attraverso un rigoroso controllo delle nascite secondo principi di eugenetica che portano ad avere individui Alfa e Beta evoluti e intelligenti, ma anche secondo il suo contrario, una precisa dis-genetica, perché altri individui, Gamma, Delta ed Epsilon sono condizionati nello sviluppo a diventare inferiori, variamente servi dei primi.

Il tutto avviene in provetta, si direbbe oggi. Abolita la gestazione naturale considerata primitiva e selvaggia. Un incubo, vien da dire, e del resto le distopie sono incubi. Eppure è un mondo che si pretende «felice», perché al condizionamento genetico segue quello psicologico e comportamentale per cui ciascun individuo è tranquillo al posto suo, non sente il desiderio di essere altro rispetto a quello che è.

E laddove qualche malinconia residua affiori, c’è il soma, una droga che condiziona l’umore e lo riporta con precisione alla «felicità» di tutti. Su questa felicità il controllo sociale e gerarchico è totale. Chi è inquieto è sospetto e va curato col soma.

Huxley sembra averne azzeccate poche di previsioni. Nessun governo centrale pretende di pianificare il nostro bene comune anzi, gli stati si sciolgono per effetto di mille regionalismi, l’eugenetica, se la si può chiamare così, è saldamente nelle mani dei singoli che esercitano semmai il capriccio individuale e non la pianificazione sociale. Ma in questo libro il genio, e anche il diavolo, sta nei dettagli.

Ad esempio il Direttore del Centro di incubazione e condizionamento spiega che gli embrioni vengono condizionati precocemente ad amare il freddo oppure il caldo a seconda della destinazione futura degli individui che diventeranno. «E questo è il segreto della felicità e della virtù: fare in modo che la gente ami la sua inevitabile destinazione sociale» (32).

Oggi se la nostra inevitabile destinazione sociale è poter produrre per poter acquistare quel che si produce e poter continuare a produrre altrimenti tutto implode, bisogna che si ami profondamente il lavoro, anche se tremendo e alienante, e infatti diventa piacere e quasi felicità se la sua mancanza è il male assoluto. Senza lavoro non sono nessuno, non sono socialmente accettabile, sono povero e rifiutato. La mancanza di lavoro come stigma irredimibile. E tutti amiamo la nostra inevitabile destinazione sociale di lavoratori purchessia.

Sempre il Direttore a proposito del condizionamento a odiare la natura: «Le primule e i paesaggi hanno un grave difetto: sono gratuiti. Si decise di abolire l’amore per la natura, almeno nelle classi inferiori» (37). Come si decise di abolire anche i giochi semplici che non aumentano i consumi. Un apposito Controllore è deputato ad approvare solo giochi che abbiano una quantità di accessori almeno uguale a quella del più complicato dei giochi esistenti (43).

Il mondo nuovo ha abolito anche il tempo libero: era stato sperimentato in Irlanda, tre ore libere al giorno, ma queste «furono così lontane dall’essere fonte di felicità, che la gente si vide costretta ad andarsene in vacanza per sfuggirle» (201).

E oggi? Il tempo libero potrebbe diventare un pericolosissimo spazio di pensiero, consapevolezza di quel che siamo, che davvero desideriamo, perché si sa benissimo, in fondo, che così non va, anche perché il lavoro slegato dalla realizzazione di sé, lavoro per il lavoro, è funzionale alla logica dell’accumulo da parte di pochi che di questo lavoro fanno le pietre squadrate delle loro ziqqurat di potere e denaro. Ma il tempo libero è occupato ad autodistruggersi nel lavoro del divertimento programmato. Un soma raffinato, distrattore permanente.

E poi ci sono i libri, nel libro di Huxley. C’è il condizionamento dolorosissimo (a suon di traumi acustici e di scosse elettriche) a odiare la lettura, necessario a impedire alle «caste inferiori di sprecare tempo della Comunità con i libri, che c’era sempre il rischio che essi leggessero qualcosa capace di alterare in modo non desiderabile uno dei loro riflessi» (36).

I libri sono pericolosi, conoscere la storia è pericoloso, il dolore è pericoloso per cui non si esce di casa al mattino se non con scorte sicure di soma, lo si offre prima che un fastidio possa inquietare chi ci sta vicino, lo si usa per fare l’amore, alla fine del proprio lieto e necessario lavoro, prima che la noia ci sfiori, prima che… «Tutto era agitazione armoniosa e attività ordinata» (26).

Chi ci salva? Una piccola risposta Huxley la dà.

Da Il Regno, 15 dicembre 2017

il digiuno culturale. Perché quella del tempo è una scusa che non regge

«BEATA TE che hai tempo di leggere, andare a teatro e al cinema». Doppia bugia. Leggere non è questione di tempo. Un moderno romanzo sul tempo perduto (o solo perso?) occuperebbe più dei sette volumi della Recherche. Vagabondari su internet e tv dal far del giorno a notte fonda, in treno, sul bus, a piedi, in macchina. E farfugliamenti immortalati su WhatsApp: Dove sei? alla fermata, sei in ritardo, la vedo arrivare, cosa? la metro, ah, sì, bene, non c’è più campo, uffa, ecco adesso è tornato, cosa? Il campo.

Il report annuale 2015 di We are social racconta che mediamente gli italiani passano quattro ore e 28 minuti su internet, due ore e 30 minuti su piattaforme social, due ore e 39 minuti davanti alla tv. I più teledrogati d’Europa. Dentro a questo oceano di ore un libro all’anno o uno spettacolo teatrale non sono questione di tempo. Ed è una bugia anche la faccenda dell’esser beati. Fosse vero, qualche lettore in più ci sarebbe. Chi pronuncia quella frase mente non sapendo di mentire. Perché confusamente, in fondo, crede abbastanza che la cultura sia una cosa buona e infatti chi non legge non fa campagne contro quello stravagante fenomeno per cui esistono persone che leggono, mentre si può vivere anche senza farlo risparmiando così tempo e soldi.

Cultura e potere hanno viaggiato insieme a lungo e chi non frequenta libri e giornali soffre ancora di un moderato disagio. Poco poco, perché il potere si sta emancipando con fiera baldanza dalla cultura e da Tremonti in poi si sa che «con la cultura non si mangia» e ormai non esser laureati è quasi un requisito per far carriera politica.

E allora se non è questione di tempo, è questione di scelta non leggere, non andare a teatro, al cinema, al museo? Si fa altro semplicemente perché altro ci rende più felici? Fosse vero. Quanta parte della nostra vita è uno scivolare inconsapevole portati dall’aria che tira e da infiniti concorsi di colpa. A parte la scuola, e infatti l’Istat ci dice che sono proprio i bambini e i ragazzi i principali fruitori culturali, non c’è molto del nostro ordinario mondo quotidiano che racconti che la cultura è importante. Librerie intasate da libracci che gli editori pubblicano alla ricerca del botto che salva i bilanci di un semestre invece di coltivare il gusto e la passione di lettori fedeli, biblioteche e teatri che chiudono per i tagli che sulla cultura, pazienza, si possono fare, politici che un libro in mano mai e la cultura è solo la sera della prima alla Scala. C’è una simbolica dei gesti, delle parole, degli spazi e delle azioni che racconta quel che davvero interessa a una società. Le parole sono inganno senza questa materialità che dice il loro valore. L’amore per la cultura non nasce nel deserto della cultura. Ci sono strade istituzionali già percorse e sperimentate. In Francia, Gran Bretagna, Usa, chi vuole scrivere un libro può chiedere una borsa di studio o accedere a una residenza per scrittori, a Praga la metro è tappezzata di pubblicità di libri e gli studenti vanno a teatro e ai concerti con abbonamenti dal costo simbolico. Ogni Paese ha le sue storie. La nostra dice che libri, musei e teatro sono per ora cose di scuola. Non basta, ma graziealcielo c’è la scuola.

Su La Repubblica.it, 13 gennaio 2016.