amore (2)

A volte è malamore. Prendere con la forza quel che può solo essere regalato. Trattenere quel che si deve lasciare. Non accogliere lo spazio del desiderio, il vuoto della distanza. La bellezza di un esplorarsi di libertà che pure lottano ma nella lotta tessono la loro identità ed escono vivi.
Invece no. E quando è malamore non c’è parte che sia buona in cui stare.
C’è grande confusione, in cui gongola il demonio dicono i santi: anche le attenzioni malate e folli son pur tuttavia attenzioni, essere riconosciuti. Così capita di essere dannati ad accettarle. Un po’ alla volta. Apprendistato triste del proprio soccombere all’altro.
Queste cose non avvengono nel deserto. Ma tace il mondo vicino. Si tace. Per piaggeria, per reverenza, per obbedienza e per stupidità, per prudenza. Anche questo è malamore. E quante volte la prudenza del mondo è sorella della complicità.
E si è soli, ad andare controvento, quasi fermi, forse proprio fermi, tutta la vita, a trascorrere giorni in cui sempre almeno un oggetto, un’espressione, il ricordo di una frase diventa improvvisamente una puntura di lancia che colpisce a tradimento.
Infelice chi pratica il malamore, molto più infelice chi lo subisce. Ma guai a chi finge di non vedere.
Avvenire, 26 aprile 2012

amore (1)

Si chiama in molti modi.
È il verso di gioia, custodito, silenzioso, di chi vede la prima volta il proprio figlio, tutta la vita tra le mani, Dio che si consegna e noi lo abbiamo fatto, e ora lo vegliamo, e non possiamo chiudere gli occhi mai più, mai più la vita non ci riguarda, tutta intera, senza pareti fra noi e loro. Noi e tutti.
È il lamento di chi scopre l’amore quando vien meno e all’improvviso sa che qualcuno che non c’è più gli ha permesso di diventare quello che è, e lui non l’ha visto finché è stato vicino e ora vede ogni cosa, ora che è assente, per sempre, eppure è possibile continuare perché questo è l’amore di padre e di madre, ci fa vivere restando nascosto, perché è così grande che a mostrarsi intero potrebbe far male e anche piangere va bene, come un profumo che esce da un vaso che si è rotto, e bisognava pur che si rompesse il vaso se la chiusura era così stretta.
E si sa senza cercare che non è amore se si vuol dargli un confine, come non si può dominare la bufera, o anche l’aria, lo spirito, il suono che dilegua, non posso trattenerlo, ma l’ho ascoltato, mi ha cambiato, mi accompagna come piacere, avuto, che rimane sotto altra forma, memoria, emozione, un bambino, qualche volta, un bambino.
Avvenire, 25 aprile 2012

sconforto

Schiere distinte di possibilità sfrontate ci son passate davanti in processione troppo veloce perché fossimo invitati e si sono allontanate con passo che fa rumore e dice addio a chi resta, peggio per te.
C’eran tutti mi sembra. Gagliardi, indolenti, buoni, maledetti. Alcuni scrivevano bilanci, altri coltivavano nasturzi, c’era chi portava vasi al camposanto e chi studiava da seduttore. I pigri si lasciavano trainare ora qua ora là, ma anche loro c’erano.
Solo io in dissolvenza, fantasma al margine delle corti, con le briglie dell’afflizione al collo, tutti i posti occupati mi sembra, a chiedermi che fare, dove portare lo sconforto che mi costringe.
Da dove viene mancanza di coraggio che mi tormenta?
Inadeguatezza? Inettitudine? Accidia? Egoismo? Puro cristallino egoismo?
Accontentarsi di quel che c’è, sentirsi sicuri sul fondo, sconcertati, con il sentimento di pettinar bambole mentre Roma brucia, Sagunto viene espugnata, la tromba suona il bagliore perfetto con cui la falciatrice inesausta si annuncia?
E poi alzarsi e
camminare, anche noi, perché qualcuno ci ha chiamato, è già un po’ avanti e potremmo anche aver sentito male, ma crediamo di no, e intanto che andiamo ci si presenta l’un l’altro e capita che si faccia amicizia, e anche ci si ami.
Avvenire, 24 aprile 2012

rassegnazione

Si può voler rovesciare il mondo e non riuscirci.
Trovarsi a vivere una vita fatta soltanto di inverni. E di finzioni. Costretto addestramento al piatto non sentire: né il desiderio, non più l’attesa, mai più un amore. Avvolti da un grigio senza nobiltà, nemmeno quella di sapere il proprio disamore. Disumana certezza che niente può cambiare e che solo il peggio tien dietro ai tentativi. Infilata interminabile di ore che non si distinguono, e giorni uguali agli anni e non si sa dire quando sia cominciato il muto chiuso nostro crollare, intimo, senza immagini e senza sonoro, e non si vuol pensare a quando possa finire.
Mentre intorno si nasce tra il tripudio egoista dei vicini e dei distanti, ci si sposa e addirittura risposa, e noi a guardare senza avere il cuore di ricordare.
Si può chiedere aiuto. Sempre. Un aiuto indistinto come i nostri pensieri: fa’ qualcosa per me, rovesciami il mondo addosso, pieno di bisogni che hanno un nome semplice. Pane, casa, vestiti, coccole. Si può con un urlo liberato costringere l’altro a sgusciare finalmente fuori di sé e salvarsi. Salvarci.
Anche far nulla, si può. Se non si ha la forza. E restare qui. Essere scrigno per i tesori di chi viene a consegnarceli.
Avvenire, 22 aprile 2012