Quel che ci tiene vivi

Aiutare le famiglie che non funzionano: questo è l’obiettivo del giovane protagonista, un avvocato con un passato doloroso, difficile da dimenticare ma anche da ricordare. E, in qualche modo, quello è lo scopo anche di sua moglie Bianca, la psicoanalista a cui si è rivolto all’inizio della carriera proprio per rimettere insieme i pezzi della sua infanzia.

Non sembravano compatibili – lei credente, esile, vegetariana e raffinata, lui materialista e disilluso, sovrappeso, cresciuto solo e in povertà – eppure al posto di un’analisi è nato un amore. Forse perché parlano la stessa lingua, quella che condivide soltanto chi è sopravvissuto a un trauma incancellabile, ma che ha anche il coraggio di resistere e andare avanti. Forse perché entrambi hanno bisogno di provare ad aggiustare il mondo.

È questo che spinge l’avvocato a entrare e uscire dai tribunali con furiosa determinazione, per dare una possibilità alle persone che, come era accaduto a lui, «non vengono viste». Una sera d’inverno incontra un bambino solo, infreddolito, che parla con curiosa saggezza. Un bambino che sparisce e sembra non ricomparire più. Un bambino che gli ricorda sé stesso. E quando scopre chi è, la sua missione diventa un’ossessione: dovrà riuscire a salvarlo.

La forza dei sopravvissuti
di Nicoletta Martelletto

Mariapia Veladiano consegna una storia ambientata a Vicenza: due adulti orfani, diversi e uniti dall’amore e dal dolore. E da una missione.

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«La sera in cui i miei si sono uccisi, Giuditta mi ha fatto uscire dalla grande scatola e mi ha portato a casa sua, al piano di sotto. Lei dice che mi ha visitato un medico e volevano portarmi in ospedale, ma io non lo ricordo. Poi mi ha dato da mangiare, non mangiavo da un po’ di giorni».

Siamo già a metà del nuovo romanzo di Mariapia Veladiano Quel che ci tiene vivi, edito da Guanda, 234 pagine, e dopo 22 microcapitoli il protagonista mette a fuoco esattamente cosa accadde nel giorno che gli cambiò la vita. Il passato dell’avvocato vicentino adulto – un cinquantenne colto e acuto, in sovrappeso, tanto introverso quanto capace di arringhe fulminanti in tribunale – si fonda su una tragedia. La Tragedia: cioè perdere i genitori quando si è piccoli. Sentirsi soli, traditi nell’amore primigenio, specie se il gesto è deliberato. Come sopravvivere a un destino simile? Come uscire dalla scatola e reincontrare il mondo?

Gli opposti si attraggono ma solo i simili riescono a vivere insieme: è così che l’avvocato Angeletto, un nome improbabile ma scelto dalla sua mamma sedicenne, incontra Bianca Liocorni, psicologa. Sale viale Dante verso Monte Berico e suona al campanello della villa in stile liberty. Va per una prima seduta: «Ho una disabilità con­ genita ai rapporti sociali» è la sua autodiagnosi. Ma scopre di non voler raccontare nulla, mentre da quella figurina aggraziata e paziente è folgorato. Forse per la prima volta pensa alla donna della sua vita. Scopre nel tempo che anche lei è una naufraga, rimasta sola da bambina dopo l’incendio che divorò la casa e i suoi cari.

E’ un rapporto in crescente equilibrio, fatto di serate caminetto, sesso, piatti gourmet, anche se lei è vegetariana e lui carnivoro. In tre mesi si sposano, e tutto sembra inverosimile a lui che vive nel timore di perdere quella provvidenziale felicità. Entrambi hanno incassato i colpi del fato ma rilanciano la loro esistenza in chiave salvifica. Bianca ha studiato per curare le menti malate e i cuori inariditi; Angeletto ab­ braccia le cause più difficili, come gli ha insegnato Giuditta, la vicina di casa avvocato che gli ha fatto da madre e gli ha trasmesso la passione per la giustizia. Stare coi più deboli, dopo essere stati deboli e perdenti: lungo il Bacchiglione una sera si materializza un bambino che sembra leggere i suoi pensieri. Si approccia e sfugge, attorno al ragazzino aleggia un mistero che incrocia per vie diverse la vita dei due coniugi. C’è una Vicenza d’acqua e di prima periferia sullo sfondo di un bel romanzo, scritto al modo che l’ex preside Veladiano ci ha abituati: lievi sorrisi e le parole giuste, mai una di troppo, ancora per dare un volto al tema eterno del dolore. E in più una vena di suspence che non fa mollare la presa fino all’epilogo, in un giorno di Natale dove si aspetta la neve.


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Da Il giornale di Vicenza, 11 maggio 2023, 47.

Mariapia Veladiano nel leggero scorrere di una vita di coppia
di Alessandro Zaccuri

Fra il fantastico e il realismo autobiografico, l’autrice vicentina racconta il senso dell’esistere nella confusa società di oggi attraverso la vicenda di due sposi, lui avvocato lei psicoanalista.

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Sembra che tutto succeda nelle ultime trenta pagine o giù di lì, ma a lettura terminata ci si rende conto che la storia è iniziata molto prima, dispiegandosi con la leggerezza di un merletto. Bianca, la moglie del protagonista e narratore Angeletto, ha una predilezione per quel tessuto impalpabile ed elegante, nel quale il marito ritrova la qualità più autentica del loro amore. Un’intimità fatta di complicità e ironia, di parole dette e altre taciute in attesa che venga il tempo di rivelarsi qualche altro segreto. La riservatezza professionale è, del resto, uno degli elementi che più accomuna i personaggi principali del nuovo romanzo di Mariapia Veladiano, Quel che ci tiene vivi (Guanda, pagine 240, euro 18,00) .

Ambientato in una Vicenza innominata e riconoscibilissima, il libro parla con la voce di Angeletto, ma spesso fa arrivare al lettore l’eco di quella di Bianca. Avvocato lui, psicoanalista lei, incontratisi per caso quando l’uomo ha dovuto fronteggiare una specie di blocco professionale. La terapia, di per sé, non è nemmeno incominciata. Angeletto si innamora al primo sguardo di Bianca e glielo dice senza esitazione. Lei gli piace perché è «tuttavita », sostiene. Quell’espressione bizzarra si riproporrà più avanti, solo che allora sarà Bianca a riservare l’appellativo ad Angeletto, lasciandolo sconcertato. Più che dalla vita, infatti, la sua infanzia è stata dominata dalla morte dei giovanissimi genitori, consumatisi in un suicidio di coppia dopo anni di sorde recriminazioni. Angeletto è stato un bambino esperto nell’arte di rendersi invisibile, fino a quando su di lui non si è posato lo sguardo di Giuditta, la vicina di casa che lo ha cresciuto e che, in modo forse involontario, lo ha indotto a studiare giurisprudenza. 

Se Giuditta è specializzata nella tutela dei minori, Angeletto si occupa prevalentemente di diritto di famiglia. Il suo studio è il campo di battaglia di coppie sull’orlo della separazione, di madri che diffidano dei figli, di figlie che si alleano con i padri. L’avvocato ascolta tutti, dopo di che si prende la libertà di non accettare questo o quel caso. Poche stanze più in là, nella magnifica casa che Bianca ha ereditato dalla famiglia, i pazienti confidano all’analista traumi e fallimenti. A dispetto delle apparenze, non si tratta di estraneità, ma di reciproco rispetto. Da ultimo, si tratta di amore.

Prima ancora che la trama si delinei nella sua forma definitiva, Quel che ci tiene vivi si presenta come un raro (e bellissimo) romanzo di amore coniugale. Angeletto e Bianca sanno fin troppo bene che l’infelicità insidia anche le famiglie più insospettabili, e non solo per via della loro professione. Della sventura di lui abbiamo detto, quella di lei rimane appena accennata. C’è stato un incendio, c’è stato un salvataggio quasi miracoloso, ma il resto rimane nell’indistinto. Angeletto, che si proclama agnostico, è convinto che presto o tardi Bianca condividerà anche quella parte del suo passato. Per il momento, è contento della sua vita così com’è. Anzi, della loro vita, nella quale Bianca porta la grazia di una fede praticata con incrollabile pudore. Nulla di quanto arriva dall’esterno turba veramente questo equilibrio, neppure l’apparizione di un bambino nel quale Angeletto si imbatte durante uno dei suoi periodici ritorni nel brutto condominio di periferia dove si è svolta la tragedia dei genitori.

L’appartamento è ancora lì, destinato a svuotarsi con una lentezza che corrisponde alla fatica con cui il protagonista si separa dal proprio passato. Salvino (così dice di chiamarsi il bambino) se ne va in giro da solo, di notte, proprio come era solito fare Angeletto per sfuggire alla cupezza dell’ambiente domestico.

Per qualche pagina si ha l’impressione che il racconto possa virare nel fantastico, ma la vicenda è molto più realistica di quel che si potrebbe immaginare. Non per questo, tuttavia, è priva di implicazioni spirituali. Tanto per cominciare, Salvino si esprime con un eloquio forbito e straniante, diretta conseguenza della sua condizione di soggetto autistico. Più in profondità, il piccolo nottambulo assume di sé il ruolo del figlio che Angeletto si ostina a non desiderare, timoroso com’è del riproporsi di un’infelicità da cui ancora si sente minacciato. Quale sia la svolta del romanzo, e quale la soluzione, è un riuscito arcano narrativo sul quale va mantenuto il riserbo, adeguandosi allo stile di Bianca e Angeletto.

Di sicuro, però, Quel che ci tiene vivi conferma l’attitudine di Veladiano a riconoscere la grandiosità di avvenimenti che parrebbero minuti, lungo una linea che dal felice esordio di La vita accanto (2011) si è dipanata di titolo in titolo, ora dando maggiore risalto all’elemento teologico (si pensi a Lei, che nel 2017 ricostruiva con poetico rigore la figura di Maria di Nazaret), ora facendo affiorare con discrezione il dato autobiografico (come in Adesso che sei qui del 2021). Sono libri che, a un certo punto, assumono la consistenza lieve e tenace del merletto, questa successione di vuoti e pieni che ci ricorda quanto all’amore si addica il silenzio. Se proprio di amore si vuole parlare, meglio affidarsi al racconto, che dice e non dice. E, non dicendo, dice tutto quello che conta.


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Da Avvenire, 2 giugno 2023.

Il mito perverso del successo

(su laRepubblica, 30 marzo 2023) Nessun bambino nasce con l’ansia addosso, e nessun genitore sano di mente opera per far crescere un figlio inquieto e teso e non esiste una sola seria teoria pedagogica e didattica che contempli il sistematico utilizzo del timore come strumento di apprendimento. Anche se qua e là si è letto, perfino in tempi recenti, che paura e vergogna siano efficaci strategie di scuola. Ma non è vero. Eppure.

Al Liceo Berchet di Milano sono 56 gli studenti e le studentesse che da settembre hanno lasciato la scuola. A Bologna, dopo il Professionale Aldrovandi Rubbiani, anche i Licei Minghetti e Copernico sono occupati dagli studenti. La scuola è una gabbia, è classista, non cura il benessere di chi la frequenta, dicono nelle interviste.

Quando si parla di ragazzi e di scuola, ci sono retoriche da evitare. Che i giovani sono fragili, cresciuti a coccole e tecnologia, che i professori sono inadeguati e assunti per sanatorie, che l’istruzione è afflitta da mancanza di mezzi e non c’è futuro.

Ecco, il futuro. Chi lavora nella scuola incontra genitori sinceramente terrorizzati dal futuro e in ogni modo impegnati a proteggere i loro figli dall’incertezza che li aspetta. E cercano la scuola migliore, i voti migliori, che permettano l’accesso all’università più quotata e prestigiosa e chiedono le certificazioni linguistiche e informatiche, i corsi aggiuntivi di diritto, di economia. Tutto. Una preparazione d’eccellenza.

E ci sono le classifiche ufficiali e ufficiose dei licei d’élite, dove i figli devono andare. O degli istituti tecnici che assicurano lavoro immediato. E’ una corsa individuale, egoista. Se ottengo quel che mi interessa per mio figlio, basta. Se non lo ottengo, sono guerre legali o mediatiche. Proteste che arrivano fino al Ministero.

E i figli stanno in mezzo, protetti sì, ma avvolti di attese e insieme di sfiducia. Perché, se per affrontare il futuro serve tutto questo, vuol dire che loro non sono abbastanza, che agli occhi degli adulti di riferimento non hanno abbastanza valore, non sono ritenuti capaci di affrontare le difficoltà della vita. E spesso nemmeno le attitudini vengono riconosciute, perché si deve frequentare l’indirizzo che dà più certezze e non quello per cui si è portati. Protezione invece di educazione, chiedono i genitori alla scuola.

Nessuna scuola è contenta dei ragazzi che perde, e se in una dinamica competitiva in cui contino solo i risultati, studenti fragili che se ne vanno può significare esiti finali migliori per quelli che restano, tutte le rilevazioni serie (Invalsi, Eduscopio) oggi tengono conto, nell’apprezzare i risultati, anche di quanti sono gli studenti bocciati o che hanno abbandonato il corso di studio. Perché è gioco facile avere una media strepitosa di voti altissimi all’esame di stato se in quinta arriva la metà degli iscritti del primo anno.

E poi bisogna chiedersi dove vanno, quelli che si ritirano. Perché la galassia degli istituti privati e paritari, accanto a scuole che offrono un percorso di accompagnamento individuale serio (di sicuro non alla portata di tutti i redditi) conta al suo interno anche il fenomeno di diplomifici vergognosi, dove il successo scolastico è assicurato ma l’ingiustizia anche.

La vera domanda è come la scuola può aiutare i ragazzi ad essere attrezzati per la complessità del mondo. Natalia Ginzburg ha scritto che “al rendimento scolastico dei nostri figli, siamo soliti dare una importanza che è del tutto infondata”, perché prendiamo il rendimento come un aspetto della “piccola virtù” del successo.

Educare vuol dire portare alla luce il valore di ciascun ragazzo. La protezione più potente è saper affrontare le difficoltà. E anche le ingiustizie che fra i banchi può capitare di vivere: “La sola cosa che importa, scrive la Ginzburg, è non commettere ingiustizia noi stessi”.

Serve una scuola di altissimo livello ma non elitaria. Libera dal mito del successo. Luogo di incontro con adulti significativi capaci, se un ragazzo sbaglia la scelta, di aiutarlo a capire qual è la scuola giusta, a ricostruire la fiducia in sé stesso.

La Repubblica, 30 marzo 2023.

Speranza, parola che salva

Che cosa possiamo fare? Ce lo stiamo chiedendo con struggimento in questi mesi di guerra. Ce lo chiediamo da esseri umani, uomini e donne di buona volontà, e da cristiani che camminano nella fede di un amore che li precede, sempre, anche quando rimangono indietro e lo perdono di vista. La verità è che siamo sorpresi, folgorati. Ma come, una guerra vera, combattuta con le armi, crudelissima tanto quanto quelle crudelissime che si studiano nei libri di storia, come se il tempo fosse trascorso del tutto senza frutto, così vicina alla nostra vita così civile. Psicologi e sociologi ci stanno spiegando perché le molte altre guerre sparse per la Terra non ci hanno sgomentato nella stessa misura.

Ma ora c’è questa e non sappiamo che cosa fare. Addirittura parlarne è diventato quasi pericoloso e controproducente, perché si litiga, le nostre parole scavano fossati perché abbiamo un linguaggio quotidiano che si esprime con parole di guerra, pieno di trincee, fronti, bollettini, battaglie. Un linguaggio già bello pronto alla guerra, che ci mette di qua o di là, da un lato o dall’altro del confine.

Certo possiamo cercare di tirarci fuori dalla responsabilità e dire noi no, noi non c’entriamo. Noi sì, invece. Ogni volta che non siamo stati sentinelle, bellissima immagine biblica, e abbiamo guardato, senza vedere, il disastro che stava arrivando e poi abbiamo chiuso gli occhi e ci siamo addormentati sul nostro benessere molle che era già guerra, guerra verso i poveri lasciati indietro e sfruttati. E se il sonno era inquieto – non si dorme bene sapendo che gran parte del mondo non mangia –, allora abbiamo allungato la mano sulle gocce per il sonno, o sul telecomando, qualche volta basta quello. Noi sì, anche quando abbiamo votato chi gridava di più, prevaricava, promettendo di difenderci contro Lazzaro che chiede briciole e noi ci siamo aggiunti al coro e abbiamo gridato «libera Barabba», il brigante e l’assassino. Viva i condoni e gli indulti per marpioni, ladri e profittatori così possiamo continuare a sentirci buoni. Ci vuol poco, se il metro sono loro.

E adesso? Adesso guardiamo al Vangelo. I discepoli hanno conosciuto lo sgomento per la fine delle loro speranze. E sono così compresi nella loro delusione e nella loro paura che non riconoscono più il loro bene. Quando Gesù risorge e si mostra a Maria di Magdala, non credono. Ai discepoli di Emmaus, non credono. Eppure lo hanno amato e seguito. Anche noi lo amiamo e seguiamo. Eppure non abbiamo capito e ora siamo fermi, incatenati alla nostra delusione. E allora che cosa facciamo? Ce lo dice lui: «Andate in tutto il mondo» (Mc 16,15). Parlate, annunciate. Il paradiso è stato perduto qui in Terra, ma ogni giorno possiamo ricostruirne un pezzetto, anticipo della pienezza, ripartendo dalla pietra del sepolcro del sabato o dalla polvere delle fosse comuni.

È il «grande male», di Davide Maria Turoldo, davanti al quale servono «non intelletto o dottrina, / non le logiche pur severe, carte / ingiallite avanti sera», ma «lume, splendore acceso / per lo Sposo che tarda». C’è l’invito di Gesù, a non cedere alla paura, un passo dopo l’altro andare nelle case, nelle scuole, negli uffici, fabbriche, chiese, oratori e, come i discepoli scoraggiati del Vangelo, raccontare con le parole del Vangelo e con le opere della carità, che la morte non è l’ultima parola nemmeno oggi. «A ogni creatura», va proclamata la speranza, anche se con il cuore pesante. Dal chiuso della nostra paura, grande male, la parola di Gesù ci permette di alzare lo sguardo fino all’estremo orizzonte. Ogni essere vivente ci aspetta. C’è il mondo là fuori, ha bisogno della parola che permette di sperare e vivere ancora.

Da Messaggero di Sant’Antonio, 22 giugno 2022.

Creazione e caduta

È una rilettura che arriva, ancora, portata dalla tempesta inimmaginabile della guerra. La guerra! In un Occidente carico di consapevolezze, di diritti affermati, di esperienze di guerra devastanti in mille modi elaborate attraverso lo studio, la narrativa, il cinema – ogni arte si è impegnata a raccontare la impresentabilità umana della guerra –. E siamo ancora in guerra.

E arriva fortissimo il ricordo di una grande riflessione teologica personalmente amata e forse non abbastanza entrata nel pensiero cristiano. Nell’inverno del 1932-1933 Dietrich Bonhoeffer tiene all’Università di Berlino un corso dal titolo: «Creazione e peccato. Interpretazione teologica di Genesi 1-3».

Fino a quel momento Bonhoeffer non aveva mostrato particolare interesse verso il tema della creazione e della teologia del peccato originale. D’altro canto la dottrina della creazione aveva vissuto almeno un secolo di calo d’interesse all’interno degli studi teologici: le critiche che le scienze della natura portavano all’immagine del mondo consacrata nella tradizione dirottavano la riflessione verso un compito prima apertamente apologetico, ostile alle nuove acquisizioni scientifiche, e poi verso una posizione «minimalista» di difesa dell’essenziale: Dio è creatore, i racconti biblici hanno validità anche se le scienze hanno le loro ragioni (il teologo Westermann ricostruisce nei suoi saggi questa vicenda).

Nel 1932 capita di tutto in Germania e Bonhoeffer è spinto a lavorare su questo tema da un dibattito teologico che sente importante, quello sugli «ordini di creazione». La teoria degli «ordini di creazione» fondava l’etica sulla creazione e sosteneva che esistono nel mondo istituzioni permanenti attraverso cui Dio manifesta la sua volontà in modo chiaro e concreto. Il padre teologico della teoria era Albrecht Ritschl e parlava di 4 ordinamenti: matrimonio, società civile, famiglia, stato. A questi i cristiani favorevoli al Führer che simpatizzavano per il nazismo, andavano aggiungendo anche popolo e razza e guerra, come affermazione del più forte.

In questo contesto incendiato Bonhoeffer tiene il corso sulla creazione che poi verrà pubblicato con il titolo che noi conosciamo: Creazione e caduta (Queriniana, Brescia, 1992. Traduzione di Maria Cristina Laurenzi). Lo scopo principale era fondare teologicamente la critica alla pretesa di manipolare politicamente il discorso sul principio.

L’Introduzione di Creazione e caduta è sconcertante. Fu scritta alla fine del 1933, dopo che Hitler era stato nominato cancelliere il 31 gennaio, dopo che il 7 aprile era stata promulgata la legge che escludeva i non ariani dal pubblico impiego, dopo che il 6 settembre il movimento dei Cristiani tedeschi (Deutsche Christen) favorevoli al Führer avevano approvato il «paragrafo ariano», che estendeva gli effetti della legge del 7 aprile anche alla Chiesa dell’Unione prussiana, nella quale si concentrava la maggior parte del popolo protestante tedesco. Questo significava l’esclusione di tutti i pastori non ariani. Il pastore Joachim Hossenfelder, guida dei Cristiani tedeschi, in quell’anno aveva predicato: «Dio disse: sia il popolo! E il popolo fu».

In Creazione e caduta Bonhoeffer affronta il problema del male dal punto di vista teologico, cioè del sapere critico della fede, actus reflexus, ma perché l’actus directus, che è la fede, è esattamente fede della vittoria sul male operata dall’incarnazione, morte e risurrezione. E di fronte al male del tempo presente, la domanda è: come cooperare alla vittoria del bene?

La domanda sul perché del male non gli appartiene, gli interessa il che del male, la sua dimensione storica operante e, soprattutto, gli interessa come contrastarlo. In sintesi semplice, il mondo della riflessione teologica è il mondo caduto. Non esiste un punto di vista diverso, esterno o superiore da cui la teologia può indagare il mondo. La teologia è una petitio principii, la pretesa filosofica di partire da una coscienza in qualche modo libera, è solo strenuo sforzo di andare oltre i propri limiti di un pensiero schiavo di sé stesso. Impossibile e basta. Qualsiasi cosa si dica del mondo lo si dice a partire dalla caduta (cf. 20).

Ma se Lutero condanna la storia come storia di peccato, Bonhoeffer denuncia questa posizione che inchioda all’irrilevanza dell’azione buona. Non è così. Laddove il male trionfa in misura così grande da essere socialmente accettato, la bontà dell’azione mostra il bene. Ma la bontà dell’azione è toccata dal peccato della caduta.

Per cui, e sarà la posizione poi in modo davvero nuovo indicato in Resistenza e resa, anche l’azione più necessaria di contrasto al male, come la resistenza violenta al tiranno, resterà male, per chi la compie. Sarà compiuta a suo rischio. Non ci sarà una coscienza serena ad accoglierla, solo la necessità di salvare il fratello al costo della propria salvezza. 

Qui si è parlato di Creazione e caduta, ma il consiglio è rileggere Resistenza e resa, letto da molti con lo sguardo peloso di chi celebra per sminuire e da altrettanti con lo sguardo glabro del concordismo scivoloso: in fondo Bonhoeffer non ha detto niente di nuovo, è un protestante che riconosce il buono del cattolicesimo e della dottrina tradizionale sul tiranno che possiamo uccidere.

E invece no. Per Bonhoeffer il tiranno lo si può uccidere ma non è cosa buona, non lo si fa per un bene superiore, e nemmeno è un male minore, è proprio male e basta e chi lo fa si assume la colpa. Personale. C’è naturalmente una colpa collettiva, storica, una cecità, ne parla nello scritto che sta in principio di Resistenza e resa, bello e così moderno da essere inquietante. Anche questo, da rileggere.

Ma l’azione buona degli uomini caduti è toccata dal male. Non c’è purezza possibile. C’è solo l’affidarsi alla misericordia. 

Da Il Regno – attualità, 15 giugno 2022.