Quel che ci tiene vivi

Aiutare le famiglie che non funzionano: questo è l’obiettivo del giovane protagonista, un avvocato con un passato doloroso, difficile da dimenticare ma anche da ricordare. E, in qualche modo, quello è lo scopo anche di sua moglie Bianca, la psicoanalista a cui si è rivolto all’inizio della carriera proprio per rimettere insieme i pezzi della sua infanzia.

Non sembravano compatibili – lei credente, esile, vegetariana e raffinata, lui materialista e disilluso, sovrappeso, cresciuto solo e in povertà – eppure al posto di un’analisi è nato un amore. Forse perché parlano la stessa lingua, quella che condivide soltanto chi è sopravvissuto a un trauma incancellabile, ma che ha anche il coraggio di resistere e andare avanti. Forse perché entrambi hanno bisogno di provare ad aggiustare il mondo.

È questo che spinge l’avvocato a entrare e uscire dai tribunali con furiosa determinazione, per dare una possibilità alle persone che, come era accaduto a lui, «non vengono viste». Una sera d’inverno incontra un bambino solo, infreddolito, che parla con curiosa saggezza. Un bambino che sparisce e sembra non ricomparire più. Un bambino che gli ricorda sé stesso. E quando scopre chi è, la sua missione diventa un’ossessione: dovrà riuscire a salvarlo.

La forza dei sopravvissuti
di Nicoletta Martelletto

Mariapia Veladiano consegna una storia ambientata a Vicenza: due adulti orfani, diversi e uniti dall’amore e dal dolore. E da una missione.

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«La sera in cui i miei si sono uccisi, Giuditta mi ha fatto uscire dalla grande scatola e mi ha portato a casa sua, al piano di sotto. Lei dice che mi ha visitato un medico e volevano portarmi in ospedale, ma io non lo ricordo. Poi mi ha dato da mangiare, non mangiavo da un po’ di giorni».

Siamo già a metà del nuovo romanzo di Mariapia Veladiano Quel che ci tiene vivi, edito da Guanda, 234 pagine, e dopo 22 microcapitoli il protagonista mette a fuoco esattamente cosa accadde nel giorno che gli cambiò la vita. Il passato dell’avvocato vicentino adulto – un cinquantenne colto e acuto, in sovrappeso, tanto introverso quanto capace di arringhe fulminanti in tribunale – si fonda su una tragedia. La Tragedia: cioè perdere i genitori quando si è piccoli. Sentirsi soli, traditi nell’amore primigenio, specie se il gesto è deliberato. Come sopravvivere a un destino simile? Come uscire dalla scatola e reincontrare il mondo?

Gli opposti si attraggono ma solo i simili riescono a vivere insieme: è così che l’avvocato Angeletto, un nome improbabile ma scelto dalla sua mamma sedicenne, incontra Bianca Liocorni, psicologa. Sale viale Dante verso Monte Berico e suona al campanello della villa in stile liberty. Va per una prima seduta: «Ho una disabilità con­ genita ai rapporti sociali» è la sua autodiagnosi. Ma scopre di non voler raccontare nulla, mentre da quella figurina aggraziata e paziente è folgorato. Forse per la prima volta pensa alla donna della sua vita. Scopre nel tempo che anche lei è una naufraga, rimasta sola da bambina dopo l’incendio che divorò la casa e i suoi cari.

E’ un rapporto in crescente equilibrio, fatto di serate caminetto, sesso, piatti gourmet, anche se lei è vegetariana e lui carnivoro. In tre mesi si sposano, e tutto sembra inverosimile a lui che vive nel timore di perdere quella provvidenziale felicità. Entrambi hanno incassato i colpi del fato ma rilanciano la loro esistenza in chiave salvifica. Bianca ha studiato per curare le menti malate e i cuori inariditi; Angeletto ab­ braccia le cause più difficili, come gli ha insegnato Giuditta, la vicina di casa avvocato che gli ha fatto da madre e gli ha trasmesso la passione per la giustizia. Stare coi più deboli, dopo essere stati deboli e perdenti: lungo il Bacchiglione una sera si materializza un bambino che sembra leggere i suoi pensieri. Si approccia e sfugge, attorno al ragazzino aleggia un mistero che incrocia per vie diverse la vita dei due coniugi. C’è una Vicenza d’acqua e di prima periferia sullo sfondo di un bel romanzo, scritto al modo che l’ex preside Veladiano ci ha abituati: lievi sorrisi e le parole giuste, mai una di troppo, ancora per dare un volto al tema eterno del dolore. E in più una vena di suspence che non fa mollare la presa fino all’epilogo, in un giorno di Natale dove si aspetta la neve.


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Da Il giornale di Vicenza, 11 maggio 2023, 47.

Mariapia Veladiano nel leggero scorrere di una vita di coppia
di Alessandro Zaccuri

Fra il fantastico e il realismo autobiografico, l’autrice vicentina racconta il senso dell’esistere nella confusa società di oggi attraverso la vicenda di due sposi, lui avvocato lei psicoanalista.

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Sembra che tutto succeda nelle ultime trenta pagine o giù di lì, ma a lettura terminata ci si rende conto che la storia è iniziata molto prima, dispiegandosi con la leggerezza di un merletto. Bianca, la moglie del protagonista e narratore Angeletto, ha una predilezione per quel tessuto impalpabile ed elegante, nel quale il marito ritrova la qualità più autentica del loro amore. Un’intimità fatta di complicità e ironia, di parole dette e altre taciute in attesa che venga il tempo di rivelarsi qualche altro segreto. La riservatezza professionale è, del resto, uno degli elementi che più accomuna i personaggi principali del nuovo romanzo di Mariapia Veladiano, Quel che ci tiene vivi (Guanda, pagine 240, euro 18,00) .

Ambientato in una Vicenza innominata e riconoscibilissima, il libro parla con la voce di Angeletto, ma spesso fa arrivare al lettore l’eco di quella di Bianca. Avvocato lui, psicoanalista lei, incontratisi per caso quando l’uomo ha dovuto fronteggiare una specie di blocco professionale. La terapia, di per sé, non è nemmeno incominciata. Angeletto si innamora al primo sguardo di Bianca e glielo dice senza esitazione. Lei gli piace perché è «tuttavita », sostiene. Quell’espressione bizzarra si riproporrà più avanti, solo che allora sarà Bianca a riservare l’appellativo ad Angeletto, lasciandolo sconcertato. Più che dalla vita, infatti, la sua infanzia è stata dominata dalla morte dei giovanissimi genitori, consumatisi in un suicidio di coppia dopo anni di sorde recriminazioni. Angeletto è stato un bambino esperto nell’arte di rendersi invisibile, fino a quando su di lui non si è posato lo sguardo di Giuditta, la vicina di casa che lo ha cresciuto e che, in modo forse involontario, lo ha indotto a studiare giurisprudenza. 

Se Giuditta è specializzata nella tutela dei minori, Angeletto si occupa prevalentemente di diritto di famiglia. Il suo studio è il campo di battaglia di coppie sull’orlo della separazione, di madri che diffidano dei figli, di figlie che si alleano con i padri. L’avvocato ascolta tutti, dopo di che si prende la libertà di non accettare questo o quel caso. Poche stanze più in là, nella magnifica casa che Bianca ha ereditato dalla famiglia, i pazienti confidano all’analista traumi e fallimenti. A dispetto delle apparenze, non si tratta di estraneità, ma di reciproco rispetto. Da ultimo, si tratta di amore.

Prima ancora che la trama si delinei nella sua forma definitiva, Quel che ci tiene vivi si presenta come un raro (e bellissimo) romanzo di amore coniugale. Angeletto e Bianca sanno fin troppo bene che l’infelicità insidia anche le famiglie più insospettabili, e non solo per via della loro professione. Della sventura di lui abbiamo detto, quella di lei rimane appena accennata. C’è stato un incendio, c’è stato un salvataggio quasi miracoloso, ma il resto rimane nell’indistinto. Angeletto, che si proclama agnostico, è convinto che presto o tardi Bianca condividerà anche quella parte del suo passato. Per il momento, è contento della sua vita così com’è. Anzi, della loro vita, nella quale Bianca porta la grazia di una fede praticata con incrollabile pudore. Nulla di quanto arriva dall’esterno turba veramente questo equilibrio, neppure l’apparizione di un bambino nel quale Angeletto si imbatte durante uno dei suoi periodici ritorni nel brutto condominio di periferia dove si è svolta la tragedia dei genitori.

L’appartamento è ancora lì, destinato a svuotarsi con una lentezza che corrisponde alla fatica con cui il protagonista si separa dal proprio passato. Salvino (così dice di chiamarsi il bambino) se ne va in giro da solo, di notte, proprio come era solito fare Angeletto per sfuggire alla cupezza dell’ambiente domestico.

Per qualche pagina si ha l’impressione che il racconto possa virare nel fantastico, ma la vicenda è molto più realistica di quel che si potrebbe immaginare. Non per questo, tuttavia, è priva di implicazioni spirituali. Tanto per cominciare, Salvino si esprime con un eloquio forbito e straniante, diretta conseguenza della sua condizione di soggetto autistico. Più in profondità, il piccolo nottambulo assume di sé il ruolo del figlio che Angeletto si ostina a non desiderare, timoroso com’è del riproporsi di un’infelicità da cui ancora si sente minacciato. Quale sia la svolta del romanzo, e quale la soluzione, è un riuscito arcano narrativo sul quale va mantenuto il riserbo, adeguandosi allo stile di Bianca e Angeletto.

Di sicuro, però, Quel che ci tiene vivi conferma l’attitudine di Veladiano a riconoscere la grandiosità di avvenimenti che parrebbero minuti, lungo una linea che dal felice esordio di La vita accanto (2011) si è dipanata di titolo in titolo, ora dando maggiore risalto all’elemento teologico (si pensi a Lei, che nel 2017 ricostruiva con poetico rigore la figura di Maria di Nazaret), ora facendo affiorare con discrezione il dato autobiografico (come in Adesso che sei qui del 2021). Sono libri che, a un certo punto, assumono la consistenza lieve e tenace del merletto, questa successione di vuoti e pieni che ci ricorda quanto all’amore si addica il silenzio. Se proprio di amore si vuole parlare, meglio affidarsi al racconto, che dice e non dice. E, non dicendo, dice tutto quello che conta.


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Da Avvenire, 2 giugno 2023.

Mariapia Veladiano, Quel che ci tiene vivi
di Maria Elisabetta Gandolfi

Finalmente, si potrebbe dire, un uomo è il protagonista dell’ultimo romanzo di Mariapia Veladiano; perché finora di uomini ce ne sono stati, ma non con un ruolo di primo piano. 

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C’era il padre di Rebecca, tanto per fare un esempio, nel romanzo d’esordio La vita accanto (Premio Calvino 2010); c’era il pastore Dieter ne Il tempo è un dio breve (2012); c’era il mitico direttore d’azienda in Una storia quasi perfetta (2015); c’era – ovviamente e in maniera per nulla scontata – il figlio in Lei (2017), il romanzo in prima persona dove parla la Maria della fede e dei Vangeli, «figlia del tuo figlio»; come c’era, ma molto sullo sfondo, anche in Adesso che sei qui (2020) lo zio Guidangelo, ad esempio. Spesso figure secondarie.

Qui invece c’è un uomo, postmoderno, si potrebbe dire. Buono. Perché la sofferenza che la sua storia personale gli affida non lo trasforma in un mostro violento, o in un campione di negazione. Semplicemente vive, un po’ sopravvive, un po’ cerca di scordare; sa che molto di quello che fa è una risposta a quello che ha patito; ha paura, una paura folle di perdere l’amore. Perché consapevole del fatto che sia «immeritato», come tutti gli amori, del resto.

Teologicamente si direbbe «per grazia ricevuto».

Per lavoro Angeletto si occupa di famiglie disperate, di casi così drammatici che spesso non riesce ad accettarli: «“Non posso prendere il suo caso”» mi sento dire alla giovane donna» (25), dove c’è un io ferito che sbuca fuori prepotente e dà la propria immediata risposta, prima che il raziocinio prenda il controllo della barra del comando.

Per amore incontra Bianca, psicanalista lieve e vitale di cui s’innamora perdutamente. Credente.

Per piacere, quasi ossessivo-compulsivo, prepara da mangiare con cura e passione maniacale. E adora il cibo, persino la carne, mentre Bianca è vegetariana.

E per caso incontra lui, il bambino, sfuggente come i suoi ricordi, che parla come un adulto, che sa tante cose e che poi misteriosamente scompare.

Ma non anticipiamo nulla della storia, come sempre magistralmente scritta. L’amore, il piacere di vivere e il bambino sono tre elementi strutturali del racconto che possiamo estrarre come fili della trama.

Con Bianca il nostro protagonista non vuole scoprirsi del tutto sul suo passato né sapere tutto del passato di lei. Un patto. Entrambi vivono un amore assoluto, devoto, fedele e passionale: e la penna della scrittrice, che non si lascia intimorire dall’aggettivo «cattolica», con garbo lascia capire.

Che dà vita – un termine che ricorre moltissimo nelle pagine e nei titoli della Veladiano – nel senso che è profondamente incarnato, nella gioia e nel dolore. Scarni sono i riferimenti esplicitamente religiosi; eppure sono disseminati nello stile dei personaggi raccontati e anche, ovviamente, nei dettagli che sembrano quasi autobiografici o che tali li immagina il lettore delle sue storie.

Ma il non detto tra i due non è mentire e non fa ombra all’amore, anzi. Segna fiducia, rispetto, cura e inevitabile distanza dalla mente e dal cuore dell’amato, a dimostrazione che il «dirsi tutto» non è segno d’affetto ma un reciproco sfogarsi che non valuta le conseguenze di ciò che fa.

Certo con il rischio – che comunque esiste – che le ombre prendano il sopravvento. Ma qui si racconta che un’altra via è possibile. Vengono in mente – azzardo – le storie e i personaggi di Marilynne Robinson (presentata dalla stessa Veladiano qui: Regno-att. 14,2020,422; 18,2020,558; 2,2019,38).

Il piacere di vivere, contraddistinto dalla cura per la preparazione del cibo, invece, mi riporta immediatamente al Pranzo di Babette di Karen Blixen, la tenera storia che tutta si svolge attorno a un tavolo da pranzo e a una cucina dove con amore riconoscente viene preparato (da una cuoca cattolica) un pranzo degno di un re per una minuscola, anziana (e rigida) congregazione luterana. 

Un piacere che interseca anche l’attualità del mangiare vegetariano contro l’inutile sofferenza inflitta agli animali, senza che per questo debba tramutarsi in un digiuno del corpo e dello spirito: anche il vino ha un ruolo da protagonista!

Infine il bambino: il bambino che non è stato Angeletto, e quello che non si sa chi sia e che appare come un fantasma misterioso, in una bella intersezione tra i due.

Ma ciò che è al centro di questo personaggio è il tema della giustizia e di come gli adulti la gestiscono nei confronti dei minori. Cioè di come gli adulti sono responsabili e intendono la loro cura. Perché questo può cambiare la vita.

In Il tempo è un dio breve c’era il grido per il dolore innocente del piccolo Tommaso: era una richiesta disperata di giustizia di una madre che si rivolgeva a Dio e chiedeva conto del male e segnatamente della malattia.

Qui c’è una domanda sulla giustizia praticata dagli uomini nelle aule dei tribunali e se essa possa essere giusta per i bambini coinvolti in intricate vicende famigliari e capovolgere la frase cinicamente rassegnata della madre di Angeletto: «A questo mondo non c’è giustizia, ricordatelo» (16).

La sua personale risposta non è quella di una fiducia assoluta nei buoni contro i cattivi, che più spesso sono mescolati, come lo sono anche le soluzioni che i giudici si trovano a indicare volta a volta, ma la possibilità che il bambino «sia visto». Che qualcuno, un adulto, s’accorga di lui e si faccia carico della sua esistenza; gli ridia insomma una possibilità di vita: «Sono stato visto. Esisto. Dio grazie che esisto» (70).

Molti gesti violenti passano più tramite la trascuratezza – mal-trattamenti in generale – o l’indebita considerazione del minore come un piccolo adulto cui confidare come a un altro se stesso tutti i dettagli delle liti per l’affido, che diventano guerre perinde ac cadaver.

Violenza è parlare del minore in sua presenza in terza persona, di ciò che non dovrebbe nemmeno sapere; è strappare un suo disegno… non solo o non necessariamente solo alzando la voce o le mani contro di lui.

Dall’altro capo ci sono gli adulti responsabili. Non necessariamente i migliori o i perfetti: possono anche avere delle ferite, e vivere come si può; possono essere credenti o diversamente credenti. Ma tramite il gesto di cura, preparando da mangiare, prestando ascolto, accarezzando, danno vita alle «ossa» che «riprendono a vivere» come il passo di Ezechiele 37 esplicitamente citato.

Un’ultima osservazione sulle parole del romanzo e sul manifesto sul loro uso che ne emerge. «Le parole creano il mondo» (171), si dice in un passaggio – secondario – dove si parla delle violenze sessuali. Non si deve usare «abuso» nel caso di violenze sessuali su minori perché non c’è un uso buono in un rapporto evidentemente sbilanciato; non si deve neppure pensare, al contrario, di usare l’enfasi («bambine») per attirare l’attenzione su un fatto che non è meno grave se si dice che è avvenuto nei confronti di «ragazze» (107).

«Le parole sono concrete. Immagini a 3D che scorrono davanti (…) le parole non sono neutre, sono pronunciate intrise delle nostre storie» (126). Vero, specie se non si pretende di sapere il tutto di quelle storie; c’è un’eccedenza e un oltre sacro invalicabile, nella vita e in ogni vita, che chiede rispetto come un mistero prezioso.

Di queste parole accuratamente precise, semplici e dirette Mariapia Veladiano è maestra nell’uso raffinato, nella loro limatura, nei dialoghi serrati eppure spesso così brevi da spingere a ritornare daccapo per leggere le parole non scritte che vi si nascondono.

Una lezione di stile per tutti, ma specialmente per coloro, come noi, che fanno della parola il proprio mestiere.

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Da Il Regno – attualità, 15 giugno 2023.

“Raccolgo storie di persone ferite che vogliono vivere”
intervista di Riccardo Mazzeo

Mariapia Veladiano, vicentina, laureata in filosofia e teologia, insegnante, dirigente scolastica anche in Trentino, è una romanziera famosa in Italia e all’estero. Il suo primo romanzo, La vita accanto, dal quale il regista Marco Tullio Giordana ha tratto il soggetto per il suo ultimo film attualmente in lavorazione, dodici anni fa ha vinto il Premio Calvino ed è arrivato secondo al Premio Strega. Poi ne ha scritti molti altri, tutti connotati da quegli elementi personologici e poetici che latitano in modo bruciante e avvilente nel nostro tempo: la capacità di ascolto, la disponibilità a sintonizzarsi, il culto di una bellezza autentica e specifica contrapposta al glamour e alla banalizzazione tribale e volatile, la profondità e uno sguardo capace di coltivare sempre la speranza e la riparazione possibile delle cose della nostra vita. 

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Mariapia Veladiano, lei è diventata famosissima con il suo primo romanzo «La vita accanto»: duecentomila copie vendute, tradotto in un’infinità di Paesi…L’avevo letto e mi era piaciuto, ma il mio interesse per lei nacque quando lessi il suo secondo romanzo, «Il tempo è un Dio breve»: per me, agnostico, la storia di questa donna cattolica che crede suo figlio sia destinato a morire e intraprende un violentissimo faccia-a-faccia con Dio è stata sconvolgente: non avevo più pensato a Dio da quando avevo dieci anni…

«Perché il male del mondo? È l’unico tema serio per chi crede in un Dio che ama la vita. Ci sono biblioteche di trattati teologici che cercano una risposta e spesso è stata una risposta indecente, che non tiene conto davvero del dolore di chi perde un bambino, un affetto. I romanzi possono di più. C’è più teologia nei romanzi che in tanti trattati perché la teologia ha sempre un poco la pretesa di chiudere il cerchio della domanda, di dare una risposta coerente con la dottrina, mentre il romanzo può rispettare il mistero di una vita che è colpita, si interroga, si dà sì risposte, ma piccole risposte senza pretese di universalità, che però permettono comunque di continuare a sperare. “Il tempo è un Dio breve” ha provato questa strada.

Ildegarda madre colta, libera, interrogante, si dà una risposta che passa attraverso il corpo e che però rimane sospesa fino alla fine. Non chiude il cerchio. Non è una verità da credere o da condannare. Vuol dire prendere sul serio il mistero » .

Lei ha insegnato per trent’anni ed è stata dirigente scolastica anche in Trentino. Ha descritto il mondo dei piccoli in un saggio, per la verità molto poetico, «Parole di scuola», che riesce a far focalizzare il lettore sugli aspetti che spesso passano sottotraccia perché si trovano in piena luce con la loro superficie e occultano il mondo di tensioni, sofferenze, ambivalenze che c’è sotto e che dovremmo imparare a tenere presente.

«Lavorare nella scuola è un privilegio. Si è dentro a una grande esperienza di comunità che può meravigliosamente funzionare. E se funziona i ragazzi e le ragazze escono con la bella sicurezza di poter abitare lo stesso mondo senza che sia una giungla in cui si sopravvive solo affilando gli artigli. Perché la scuola, pubblica, riceve il mondo senza selezionarlo e quando trova il modo di non lasciare indietro nessuno, diminuire le disuguaglianze, attivare attitudini collaborative, allora l’eccellenza tanto divisiva è solo il nome vero di una qualità diffusa, che interessa tutti i ragazzi. Ma è un lavoro. Bisogna andare controvento, è una parola che uso da sempre, perché oggi la scuola è terreno di scontro, è strumento di privilegio, è il raccoglitore delle nostre paure di adulti che vedono il futuro dei figli sotto il segno della precarietà. I ragazzi sono avvolti di paura invece che di fiducia. È durissimo per loro vivere così, ma gli adulti siamo noi e bisogna essere consapevoli e cambiare».

Il suo ultimo romanzo appena uscito, «Quel che ci tiene vivi» (Guanda, 2023), l’ho trovato prezioso e mi ha fatto ripensare a «Libertà» di Franzen, un romanzo che mentre si legge induce insofferenza, rabbia, addirittura odio per alcuni personaggi ma che poi, una volta finito, quei personaggi ce li fa sentire familiari, degni perlomeno di comprensione. I suoi personaggi invece, in realtà, ci parlano della possibilità di sopravvivere ai traumi trovando la forza e la propensione ad «aggiustare» per quel che si può il nostro mondo…

«Raccolgo storie di persone ferite che però vogliono vivere, come tutti. Qui c’è un giovane avvocato sgarrupato che mangia troppo, beve troppo, rifiuta i clienti. Ma c’è il perché e non sempre il perché è, come dire, rimediabile. La sua famiglia sciagurata non ha rimedio, e allora ecco, nei romanzi vado a spigolare aggiustamenti possibili, riparazioni. Si impara con i bambini, questo. Cioè che sempre i comportamenti per quanto estremi hanno una ragione d’essere e che molto spesso si può operare qualche riparazione. Sono questi i miei romanzi, fin dal primo, la storia di Rebecca bambina brutta. In “Quel che ci tiene vivi” lui non diventa ottimista e virtuoso, però impara l’arte di salvare il bambino che una notte si trova davanti, che non vuole davvero vedere, che cerca di evitare. Eppure. Non è questione di ottimismo. È che i romanzi cercano di offrire uno sguardo non scontato sulla realtà. Creare un percorso emotivo che possiamo riconoscere vero anche se non ci abbiamo mai pensato. Qui c’è come sempre il grande tema della famiglia. Che cosa è davvero famiglia? Naturalmente c’è una donna, Bianca, psicoanalista che bizzarramente si innamora di lui e deve imparare a camminare sul filo teso fra il suo lavoro di cura e l’amore. E poi c’è la provincia, che fa finta di non vedere eppure sa tutto quello che accade. È sempre così. Quando capita qualcosa di tremendo c’è uno che fa e ci sono dieci che non vedono. In un mondo omissivo, quel che conta è imparare a vedere, sempre. E nel romanzo gioco ancora una volta il tema dell’essere visti per salvarsi, del vedere per salvare».

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Da Il T, 18 maggio 2023.

“Alle tragedie si può sopravvivere”
di Marta Randon

Mariapia, lui sovrappeso, orfano da piccolo, sgangherato, della periferia, ateo, di cognome “Zoccolaro”. Lei è sottile, paziente, dolce, della Vicenza bene, credente. Ha calcato molto sulle differenze. “Si trovano e non si lasciano più”. Qual è il loro segreto? Può davvero funzionare nella realtà?

«In 40 anni di scuola ho avuto esperienza di varia umanità. È sorprendente come a volte ci si trovi davanti a persone che stanno insieme, coppie, genitori, e ci si chiede: “Ma com’è possibile?”. Poi si scopre che le cose funzionano oppure no, però intanto sono lì, ci credono, hanno famiglia e figli. E le cose in qualche modo vanno avanti. Poi c’è sicuramente anche una quota diciamo letteraria quando si costruisce un romanzo. “Zoccolaro” è un cognome che può far specie, me ne rendo conto, ma i cognomi veneti sono terribili e ne ho cercato uno che non esistesse. Qui a Vicenza di sicuro non esiste».

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Il nuovo romanzo di Mariapia Veladiano “Quel che ci tiene vivi” (Edizioni Guanda, 233 pagine), ambientato a Vicenza, è forse quello che la rappresenta di più. Abbiamo imparato ad amarla perché racconta le imperfezioni che tutti noi, ogni giorno, ci portiamo appresso, la forza dell’incontro della relazione che spesso salva. La fatica, il dolore. In contrapposizione con la leggerezza della sua penna, i colori dei fiori sconosciuti che ama e descrive nei dettagli con le loro infinite varietà, alcune semi-sconosciute, fino alla fede in Dio, che alcuni protagonisti coltivano, spesso in silenzio e ne fanno il loro faro.

I due protagonisti si chiamano Angeletto e Bianca, nomen omen, sono rispettivamente un avvocato e una psicanalista di Vicenza. Il libro è scritto in prima persona. È Angeletto a parlare. Per la prima volta la scrittrice vicentina dà voce alla vita e ai sentimenti di un uomo.

Che esperienza è stata? Si è preparata confrontandosi e parlando con uomini?

«Non so se sia del tutto riuscito. Angeletto è arrivato così, prima che cominciassi a scrivere. Aveva già i suoi pensieri. La prima scena che ho visualizzato è lui che va da Bianca per avere un aiuto. Mi è arrivato al maschile perché il pensiero del letto lettone, subito erotico, è molto maschile. Più volte sono tornata indietro. Ho sciacquato periodicamente i panni nel testosterone senza confrontarmi però con uomini. Alcune immagini le ho viste. Gli scrittori sono grandi osservatori. Ad esempio questa cosa del sudare al sedere (caratteristica di Angeletto ndr) l’ho registrata in un bar, c’era sofferenza. Il corpo non lo domini».

Angeletto e Bianca sono accomunati da una tragedia. Angeletto porta i segni del suicidio dei suoi genitori, però è un uomo prudente, centrato, diligente, capace di grandi gesti d’amore. Come si fa a sopravvivere alla morte dei genitori?

«Angeletto ha trovato chi gli ha fatto da genitore. Questa è una cosa che capita in tantissimi miei romanzi, perché nella vita questo deve capitare. Può esserci la cosa più enorme, più tragica che ti arriva, la malattia, un lutto, un incidente, e come si fa? Bisogna che il mondo abbia una responsabilità allargata altrimenti si muore. Lui ha trovato Giuditta che è la più improbabile delle madri. I nomi sono sempre parlanti nei miei romanzi. La Giuditta della Bibbia è una donna che inventa la soluzione per la liberazione di Betulia dalla sponda però della fede in Dio, la Giuditta del romanzo ha invece una grande fede nella vita. Quando si trova Angeletto bambino tra le braccia non si tira indietro. Esperta di servizi sociali avrebbe potuto “liberarsene” subito. Per prendersi cura della vita qualche volta bisogna essere profondamente irragionevoli».

Ecco che emerge l’importanza della comunità.

«Lo dicevo sempre agli insegnanti a scuola. Bisogna farsi gli affari degli altri. Qualcuno si scandalizzava. Se intuiamo qualcosa, guai non parlarne, non dirlo. Capisco che in una Vicenza pettegola dire una cosa così è forte, però dobbiamo farci gli affari di tutti perché siamo nel mondo. La storia della privacy sembra diventata la copertura dietro cui si nasconde anche la nostra indifferenza. “Mi faccio gli affari miei perché c’è la privacy”, ma quando mai! No. È un dovere non solo degli insegnanti, ma di tutti, anche nei condomini, per strada. È il modo che fa la differenza».

Qual è l’errore più grande che oggi fanno un padre e una madre nei confronti del figlio?

«È un errore indotto. Non vedere i figli per quello che sono, ma per come dovrebbero essere per stare al sicuro dal mondo. L’attrezzatura migliore che si può dare al figlio è la capacità di affrontare le difficoltà. E la chiave è l’esperienza. I genitori mettono in atto un’attitudine protettiva che diventa non protettiva perché non attiva le capacità autonome del bambino e ragazzo. È scontato dirlo ma è così».

Uno dei suoi personaggi ha la sindrome di Asperger. Perché questa scelta?

«Mi è venuto spontaneo. In tanti anni a scuola ho visto tutte le versioni, anche le teorie più terrificanti: dalla madre frigorifero, a “tutti geni”. Non è vero. È semplicemente una neurodiversità che la società ancora non ha accolto. Si tratta di allargare la normalità, senza dare troppi nomi alle cose. Mi serviva una figura chiaramente caratterizzata dal mistero, e la sindrome di Asperger è un po’ misteriosa, come è misteriosa la mente di queste persone».

Nel libro affronta il tema del “bisogna essere visti per salvarsi”. I femminicidi succedono perché qualcuno non vede o non ha voluto vedere?

«Nei femminicidi è sempre colpa di chi uccide e basta. Ma per ogni violenza su donne e bambini c’è un mondo che non vede. Nessuno mi convincerà mai che quando c’è violenza sui bambini nessuno ha visto. C’è un mondo di connivenza aperta, ci sono certi istituti religiosi che pullulano di religiosi e religiose che non hanno visto niente. Il numero in uscita del “Regno” (rivista di informazione religiosa e teologica che segue da sempre il tema della pedofilia nella chiesa ndr) , riporta il caso pazzesco del gesuita boliviano Alfonso Pedrajas che per quarant’anni, stando al suo stesso diario, ha violentato adolescenti, anche nel collegio in cui insegnava. Quarant’anni: quanti hanno visto e taciuto intorno a lui? Che peraltro chiedeva aiuto e dichiarava le sue tendenze anche ai superiori. Per uno che fa, almeno dieci vedono e tacciono. Non si deve, ecco».

Sono cominciate le riprese del film “La vita accanto” tratto dal suo libro con cui 12 anni fa ha vinto il Premio Calvino ed è arrivata seconda al Premio Strega. Quando le hanno chiesto i diritti che reazione ha avuto?

«Sono stata molto contenta soprattutto perché il cinema può dare un altro angolo di letture a questa bambina brutta, di nome Rebecca. È interessante, sono curiosa di vedere come viene».

Sono rarissimi i casi in cui il film è più bello del libro.

«Bisogna pensare che i film sono un’altra cosa rispetto ai libri. Ho mostrato al regista i luoghi dove avevo scelto di ambientare il libro, ma non sono stata consultata anche perché non sono esperta del linguaggio visivo che ha le sue regole. Sono molto felice perché il film porterà la bellezza di Vicenza nel mondo. I luoghi che hanno scelto sono i più belli: Monte Berico, Villa Valmarana ai Nani, piazza dei Signori, i Giardini Salvi».

A proposito di Vicenza “Quel che ci tiene vivi” è il suo terzo libro ambientato nel capoluogo berico. Perché questa scelta?

«Perché bisogna raccontare quello che si conosce. Ma sarà l’ultima volta. Dopo un po’ diventa manierismo».

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Da La Voce dei Berici, 18 giugno 2023.

L’ombra del bimbo misterioso sulla classica storia d’amore
di Isabella Bossi Fedrigotti

Sostengono, le esperte del settore, che un uomo sentimentalmente ferito — da un abbandono, da un tradimento, dalla fine di un’amicizia, da un’infanzia infelice — sia il miglior uomo possibile per un progetto di famiglia o anche soltanto di coppia. A leggere il romanzo di Mariapia Veladiano, filosofa, teologa, insegnante di scuola e molto apprezzata scrittrice, Quel che ci tiene vivi (Guanda), si direbbe che queste esperte abbiano ragione.

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Protagonista del racconto è, infatti, un uomo ferito pesantemente ma ciononostante molto desiderabile: forse proprio perché conosce la vita e ne ha assaggiato i colpi dolorosi. E tutt’altro che bello o prestante, quest’uomo, è troppo grosso, è troppo mangione e troppo beone, in cambio però rivela una grande qualità: è capace di amare a tempo indeterminato e nel profondo.

Non ha un nome questo giovane avvocato specializzato in diritto di famiglia, io narrante in prima persona per duecentotrentatré pagine senza stancare, senza mai avvolgersi su sé stesso, ma anche così, senza nome, è figura che, a lettura terminata, resta nella mente. E va aggiunto che l’autrice ha tecnica e cuore esperti abbastanza per immergersi felicemente in un ruolo maschile.

Delle ferite del suo protagonista il lettore apprende via via, e non senza difficoltà in quanto egli ha carattere tendenzialmente segreto e malvolentieri si «sbottona» sulle avversità che gli sono toccate e che hanno cancellato i colori alla sua esistenza. Colori che, contro ogni aspettativa o speranza si accendono nell’istante in cui conosce Bianca, a lui opposta in tutto: lei piccola, leggera come una piuma, credente, serena, vegetariana, lui cresciuto in povertà, materialista, miscredente, fuori misura, afflitto da infelicità esistenziale.

Ed è proprio per tentare di risolvere quell’infelicità che lui cerca Bianca, psicoanalista, il cui nome ha sentito fare da qualcuno. Ma non ci sarà analisi, neppure una prima seduta perché nell’istante nel quale la vede gli è passata la voglia di farsi analizzare da lei: vorrebbe invece uscire con lei, invitarla a cena da qualche parte, possibilmente portarsela a letto. Al che la riservata, morigerata Bianca — simbolicamente sempre vestita di bianco — in modo inaspettato spavalda, altrettanto all’istante, risponde accettando la triplice proposta.

La storia d’amore tra i due si conclude come sempre desiderano le frequentatrici di letteratura rosa — con un matrimonio pochi mesi dopo. E in progressiva, forse ormai totale assenza di romanzi con happy end, le lettrici, ma magari anche qualche lettore, apprezzeranno. Tuttavia, non ci si sbagli: Quel che ci tiene vivi è, sì, narrativa sentimentale ma solo nel senso che tratta di sentimenti: niente damigelle né principi azzurri che coronano il loro sogno d’amore dopo molteplici peripezie.

Veladiano è una scrittrice raffinata — forse raffinata un poco come lo è il suo personaggio — e per la maggior parte del libro riesce a nascondere dietro la trama romanzesca la vera essenza psicologico-filosofica della sua opera. Essenza che accompagna l’intera vicenda e che verso la fine si svela con una chiarezza anche a quanti erano convinti di leggere «soltanto» un avvincente romanzo sentimentale ottimamente costruito.

È un cambio di passo, un cambio di genere che può indurre a tornare indietro e a riprendere la lettura dalla prima pagina per capire meglio e meglio gustare un romanzo dove a prima vista non «succede quasi niente», giudizio che si intende pronunciare di frequente da lettori scontentati da un libro, per lo sbigottimento dell’intera categoria degli scrittori.

C’è un misterioso bambino che compare a un certo punto della narrazione. Un bambino che alla sera si aggira sperduto nel quartiere vicentino perché il romanzo è senza dubbio ambientato a Vicenza — dove si trova la casa nella quale è nato e cresciuto il giovane avvocato. Un bambino che appare e scompare, dall’espressione triste, vestito sempre di grigio, tanto che a volte è difficile distinguerlo contro il muro delle case. Un bambino che il protagonista del romanzo vorrebbe a tutti i costi trovare e consolare. Lui che di bambini propri non ne vuole mentre Bianca ne vorrebbe eccome…

Il racconto si ferma qui. Non va oltre e si limita a suggerire, forse a suggestionare. Ma è come se avesse una coda, una continuazione non scritta però, soltanto pensata e silenziosamente passata dall’autrice al lettore.

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Da Corriere della sera, 10 luglio 2023, 29.

La solitudine del bambino sopravvissuto
di Ilaria Zaffino

Mariapia Veladiano è maestra nel raccontare le ferite dell’infanzia, come ti segnano per la vita e ti fanno essere, da adulto, la persona che sei. Né si smentisce nel suo nuovo toccante romanzo, Quel che ci tiene vivi, dove ritroviamo molti dei temi cari alla scrittrice vicentina, che per oltre 30 anni ha lavorato a contatto con i giovani nella scuola, prima come insegnante e poi come preside. Ancora una volta, come era accaduto nella Vita accanto, suo felice esordio, e poi anche nel più recente Adesso che sei qui, il suo sguardo indugia e indaga all’interno delle famiglie infelici e dei rapporti complessi e disfunzionali che mal si calcificano all’interno di esse.

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Scandaglia il dolore di bambini non visti, lo guarda in faccia e senza rimuoverlo ce lo propone, come nel caso di Angeletto, l’avvocato protagonista di questo ultimo romanzo, che tutti i giorni si occupa di famiglie in pezzi: “vocazione” alla quale lo ha portato la tragedia che ha colpito la sua di famiglia, quando i genitori «un giorno hanno deciso che la vita gli stava più stretta del solito e hanno semplicemente aperto il gas».

Ma Angeletto – un nome da suore, come ci scherza su lui, perché le suore glielo hanno dato nel centro dove la madre, troppo giovane, ha portato avanti la gravidanza – solo lo era prima ancora di diventare orfano: «Ero un bambino sostanzialmente abbandonato, anche se non in pericolo, come hanno diligentemente dichiarato i carabinieri dopo il fatto», ci aggiorna sin dalle prime pagine la sua voce narrante, e solo era «diversamente occupato a sopravvivere». Occupato a non dare noie in casa («mai sentito piangere»), a essere sano, perché «un bambino sano è come non averlo», diceva compiaciuta la madre.

«Come non averlo era l’espressione che esprimeva tutta la sua felicità di madre» racconterà poi lui da adulto a Bianca, la compagna con cui basta uno sguardo per intendersi, perché entrambi condividono un simile passato lastricato di dolore. Anche lei divenuta psicologa per esorcizzare l’inferno che era stata sua infanzia per un incendio che le ha sterminato la famiglia. Due solitudini che a un certo punto convergono e cercano di sostenersi a vicenda. Anche se il vero protagonista resta Angeletto, per la prima volta nei libri di Veladiano un uomo, nei panni del quale però l’autrice si cala benissimo, riuscendo a restituirci esattamente il dolore che lo abita, mentre la sventura di Bianca resta accennata sullo sfondo.

Tra gli altri personaggi che emergono nel racconto c’è Giuditta, la vicina di casa che lo trova «in una scatola» il giorno del duplice suicidio dei genitori e che lo cresce, anche lei avvocato dunque sua mentore. E a un certo punto compare un bambino in cui Angeletto si imbatte durante i suoi sporadici ritorni nel condominio di periferia dove si è consumata la tragedia dei genitori, per sgomberare l’appartamento con una lentezza in cui si legge la fatica del protagonista a sbarazzarsi del suo ingombrante passato. Un bambino che va in giro di notte, da solo, forse per sfuggire alla cupezza dell’ambiente domestico e in cui Angeletta vede il figlio che non si decide ad a vere, per non scaricate addosso a un altro innocente l’infelicità di cui si sente portatore.

Con la delicatezza che le è propria, neI suo stile raffinato, attraverso parole semplici e dirette e dialoghi serrati, Mariapia Veladiano ci consegna allora una storia di sopravvivenza che ruota intorno al tema eterno del dolore, in una Vicenza – la sua città – mai apertamente nominata, in cui si alternano la periferia in cui il protagonista è cresciuto da solo in povertà e la bella villa liberty di Bianca, a cui lui bussa per una seduta di psicoterapia, sulla bocca lapidaria una frase: «Ho una disabilità congenita ai rapporti sociali», e dalla quale non va più via.

Ma a essere messa sotto la lente dello sguardo acuto dell’autrice è anche la questione della genitorialità: quanto male possono ingenerare due genitori in un figlio? Quanta crudeltà e violenza pur senza spargimento di sangue? «Quella che tutti chiamano normalità per me era inarrivabile, come era stato per i miei genitori che ne erano ossessionati», ci ammonisce ancora la voce di Angeletto, bambino esperto nell’arte di rendersi invisibile che solo quando viene trovato da Giuditta quella famosa sera, nascosto in una scatola sopra l’armadio, può gridare finalmente: «Sono stato visto. Esisto».

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Da La Repubblica, 24 agosto 2023.

Il mito perverso del successo

(su laRepubblica, 30 marzo 2023) Nessun bambino nasce con l’ansia addosso, e nessun genitore sano di mente opera per far crescere un figlio inquieto e teso e non esiste una sola seria teoria pedagogica e didattica che contempli il sistematico utilizzo del timore come strumento di apprendimento. Anche se qua e là si è letto, perfino in tempi recenti, che paura e vergogna siano efficaci strategie di scuola. Ma non è vero. Eppure.

Al Liceo Berchet di Milano sono 56 gli studenti e le studentesse che da settembre hanno lasciato la scuola. A Bologna, dopo il Professionale Aldrovandi Rubbiani, anche i Licei Minghetti e Copernico sono occupati dagli studenti. La scuola è una gabbia, è classista, non cura il benessere di chi la frequenta, dicono nelle interviste.

Quando si parla di ragazzi e di scuola, ci sono retoriche da evitare. Che i giovani sono fragili, cresciuti a coccole e tecnologia, che i professori sono inadeguati e assunti per sanatorie, che l’istruzione è afflitta da mancanza di mezzi e non c’è futuro.

Ecco, il futuro. Chi lavora nella scuola incontra genitori sinceramente terrorizzati dal futuro e in ogni modo impegnati a proteggere i loro figli dall’incertezza che li aspetta. E cercano la scuola migliore, i voti migliori, che permettano l’accesso all’università più quotata e prestigiosa e chiedono le certificazioni linguistiche e informatiche, i corsi aggiuntivi di diritto, di economia. Tutto. Una preparazione d’eccellenza.

E ci sono le classifiche ufficiali e ufficiose dei licei d’élite, dove i figli devono andare. O degli istituti tecnici che assicurano lavoro immediato. E’ una corsa individuale, egoista. Se ottengo quel che mi interessa per mio figlio, basta. Se non lo ottengo, sono guerre legali o mediatiche. Proteste che arrivano fino al Ministero.

E i figli stanno in mezzo, protetti sì, ma avvolti di attese e insieme di sfiducia. Perché, se per affrontare il futuro serve tutto questo, vuol dire che loro non sono abbastanza, che agli occhi degli adulti di riferimento non hanno abbastanza valore, non sono ritenuti capaci di affrontare le difficoltà della vita. E spesso nemmeno le attitudini vengono riconosciute, perché si deve frequentare l’indirizzo che dà più certezze e non quello per cui si è portati. Protezione invece di educazione, chiedono i genitori alla scuola.

Nessuna scuola è contenta dei ragazzi che perde, e se in una dinamica competitiva in cui contino solo i risultati, studenti fragili che se ne vanno può significare esiti finali migliori per quelli che restano, tutte le rilevazioni serie (Invalsi, Eduscopio) oggi tengono conto, nell’apprezzare i risultati, anche di quanti sono gli studenti bocciati o che hanno abbandonato il corso di studio. Perché è gioco facile avere una media strepitosa di voti altissimi all’esame di stato se in quinta arriva la metà degli iscritti del primo anno.

E poi bisogna chiedersi dove vanno, quelli che si ritirano. Perché la galassia degli istituti privati e paritari, accanto a scuole che offrono un percorso di accompagnamento individuale serio (di sicuro non alla portata di tutti i redditi) conta al suo interno anche il fenomeno di diplomifici vergognosi, dove il successo scolastico è assicurato ma l’ingiustizia anche.

La vera domanda è come la scuola può aiutare i ragazzi ad essere attrezzati per la complessità del mondo. Natalia Ginzburg ha scritto che “al rendimento scolastico dei nostri figli, siamo soliti dare una importanza che è del tutto infondata”, perché prendiamo il rendimento come un aspetto della “piccola virtù” del successo.

Educare vuol dire portare alla luce il valore di ciascun ragazzo. La protezione più potente è saper affrontare le difficoltà. E anche le ingiustizie che fra i banchi può capitare di vivere: “La sola cosa che importa, scrive la Ginzburg, è non commettere ingiustizia noi stessi”.

Serve una scuola di altissimo livello ma non elitaria. Libera dal mito del successo. Luogo di incontro con adulti significativi capaci, se un ragazzo sbaglia la scelta, di aiutarlo a capire qual è la scuola giusta, a ricostruire la fiducia in sé stesso.

La Repubblica, 30 marzo 2023.

Speranza, parola che salva

Che cosa possiamo fare? Ce lo stiamo chiedendo con struggimento in questi mesi di guerra. Ce lo chiediamo da esseri umani, uomini e donne di buona volontà, e da cristiani che camminano nella fede di un amore che li precede, sempre, anche quando rimangono indietro e lo perdono di vista. La verità è che siamo sorpresi, folgorati. Ma come, una guerra vera, combattuta con le armi, crudelissima tanto quanto quelle crudelissime che si studiano nei libri di storia, come se il tempo fosse trascorso del tutto senza frutto, così vicina alla nostra vita così civile. Psicologi e sociologi ci stanno spiegando perché le molte altre guerre sparse per la Terra non ci hanno sgomentato nella stessa misura.

Ma ora c’è questa e non sappiamo che cosa fare. Addirittura parlarne è diventato quasi pericoloso e controproducente, perché si litiga, le nostre parole scavano fossati perché abbiamo un linguaggio quotidiano che si esprime con parole di guerra, pieno di trincee, fronti, bollettini, battaglie. Un linguaggio già bello pronto alla guerra, che ci mette di qua o di là, da un lato o dall’altro del confine.

Certo possiamo cercare di tirarci fuori dalla responsabilità e dire noi no, noi non c’entriamo. Noi sì, invece. Ogni volta che non siamo stati sentinelle, bellissima immagine biblica, e abbiamo guardato, senza vedere, il disastro che stava arrivando e poi abbiamo chiuso gli occhi e ci siamo addormentati sul nostro benessere molle che era già guerra, guerra verso i poveri lasciati indietro e sfruttati. E se il sonno era inquieto – non si dorme bene sapendo che gran parte del mondo non mangia –, allora abbiamo allungato la mano sulle gocce per il sonno, o sul telecomando, qualche volta basta quello. Noi sì, anche quando abbiamo votato chi gridava di più, prevaricava, promettendo di difenderci contro Lazzaro che chiede briciole e noi ci siamo aggiunti al coro e abbiamo gridato «libera Barabba», il brigante e l’assassino. Viva i condoni e gli indulti per marpioni, ladri e profittatori così possiamo continuare a sentirci buoni. Ci vuol poco, se il metro sono loro.

E adesso? Adesso guardiamo al Vangelo. I discepoli hanno conosciuto lo sgomento per la fine delle loro speranze. E sono così compresi nella loro delusione e nella loro paura che non riconoscono più il loro bene. Quando Gesù risorge e si mostra a Maria di Magdala, non credono. Ai discepoli di Emmaus, non credono. Eppure lo hanno amato e seguito. Anche noi lo amiamo e seguiamo. Eppure non abbiamo capito e ora siamo fermi, incatenati alla nostra delusione. E allora che cosa facciamo? Ce lo dice lui: «Andate in tutto il mondo» (Mc 16,15). Parlate, annunciate. Il paradiso è stato perduto qui in Terra, ma ogni giorno possiamo ricostruirne un pezzetto, anticipo della pienezza, ripartendo dalla pietra del sepolcro del sabato o dalla polvere delle fosse comuni.

È il «grande male», di Davide Maria Turoldo, davanti al quale servono «non intelletto o dottrina, / non le logiche pur severe, carte / ingiallite avanti sera», ma «lume, splendore acceso / per lo Sposo che tarda». C’è l’invito di Gesù, a non cedere alla paura, un passo dopo l’altro andare nelle case, nelle scuole, negli uffici, fabbriche, chiese, oratori e, come i discepoli scoraggiati del Vangelo, raccontare con le parole del Vangelo e con le opere della carità, che la morte non è l’ultima parola nemmeno oggi. «A ogni creatura», va proclamata la speranza, anche se con il cuore pesante. Dal chiuso della nostra paura, grande male, la parola di Gesù ci permette di alzare lo sguardo fino all’estremo orizzonte. Ogni essere vivente ci aspetta. C’è il mondo là fuori, ha bisogno della parola che permette di sperare e vivere ancora.

Da Messaggero di Sant’Antonio, 22 giugno 2022.

Creazione e caduta

È una rilettura che arriva, ancora, portata dalla tempesta inimmaginabile della guerra. La guerra! In un Occidente carico di consapevolezze, di diritti affermati, di esperienze di guerra devastanti in mille modi elaborate attraverso lo studio, la narrativa, il cinema – ogni arte si è impegnata a raccontare la impresentabilità umana della guerra –. E siamo ancora in guerra.

E arriva fortissimo il ricordo di una grande riflessione teologica personalmente amata e forse non abbastanza entrata nel pensiero cristiano. Nell’inverno del 1932-1933 Dietrich Bonhoeffer tiene all’Università di Berlino un corso dal titolo: «Creazione e peccato. Interpretazione teologica di Genesi 1-3».

Fino a quel momento Bonhoeffer non aveva mostrato particolare interesse verso il tema della creazione e della teologia del peccato originale. D’altro canto la dottrina della creazione aveva vissuto almeno un secolo di calo d’interesse all’interno degli studi teologici: le critiche che le scienze della natura portavano all’immagine del mondo consacrata nella tradizione dirottavano la riflessione verso un compito prima apertamente apologetico, ostile alle nuove acquisizioni scientifiche, e poi verso una posizione «minimalista» di difesa dell’essenziale: Dio è creatore, i racconti biblici hanno validità anche se le scienze hanno le loro ragioni (il teologo Westermann ricostruisce nei suoi saggi questa vicenda).

Nel 1932 capita di tutto in Germania e Bonhoeffer è spinto a lavorare su questo tema da un dibattito teologico che sente importante, quello sugli «ordini di creazione». La teoria degli «ordini di creazione» fondava l’etica sulla creazione e sosteneva che esistono nel mondo istituzioni permanenti attraverso cui Dio manifesta la sua volontà in modo chiaro e concreto. Il padre teologico della teoria era Albrecht Ritschl e parlava di 4 ordinamenti: matrimonio, società civile, famiglia, stato. A questi i cristiani favorevoli al Führer che simpatizzavano per il nazismo, andavano aggiungendo anche popolo e razza e guerra, come affermazione del più forte.

In questo contesto incendiato Bonhoeffer tiene il corso sulla creazione che poi verrà pubblicato con il titolo che noi conosciamo: Creazione e caduta (Queriniana, Brescia, 1992. Traduzione di Maria Cristina Laurenzi). Lo scopo principale era fondare teologicamente la critica alla pretesa di manipolare politicamente il discorso sul principio.

L’Introduzione di Creazione e caduta è sconcertante. Fu scritta alla fine del 1933, dopo che Hitler era stato nominato cancelliere il 31 gennaio, dopo che il 7 aprile era stata promulgata la legge che escludeva i non ariani dal pubblico impiego, dopo che il 6 settembre il movimento dei Cristiani tedeschi (Deutsche Christen) favorevoli al Führer avevano approvato il «paragrafo ariano», che estendeva gli effetti della legge del 7 aprile anche alla Chiesa dell’Unione prussiana, nella quale si concentrava la maggior parte del popolo protestante tedesco. Questo significava l’esclusione di tutti i pastori non ariani. Il pastore Joachim Hossenfelder, guida dei Cristiani tedeschi, in quell’anno aveva predicato: «Dio disse: sia il popolo! E il popolo fu».

In Creazione e caduta Bonhoeffer affronta il problema del male dal punto di vista teologico, cioè del sapere critico della fede, actus reflexus, ma perché l’actus directus, che è la fede, è esattamente fede della vittoria sul male operata dall’incarnazione, morte e risurrezione. E di fronte al male del tempo presente, la domanda è: come cooperare alla vittoria del bene?

La domanda sul perché del male non gli appartiene, gli interessa il che del male, la sua dimensione storica operante e, soprattutto, gli interessa come contrastarlo. In sintesi semplice, il mondo della riflessione teologica è il mondo caduto. Non esiste un punto di vista diverso, esterno o superiore da cui la teologia può indagare il mondo. La teologia è una petitio principii, la pretesa filosofica di partire da una coscienza in qualche modo libera, è solo strenuo sforzo di andare oltre i propri limiti di un pensiero schiavo di sé stesso. Impossibile e basta. Qualsiasi cosa si dica del mondo lo si dice a partire dalla caduta (cf. 20).

Ma se Lutero condanna la storia come storia di peccato, Bonhoeffer denuncia questa posizione che inchioda all’irrilevanza dell’azione buona. Non è così. Laddove il male trionfa in misura così grande da essere socialmente accettato, la bontà dell’azione mostra il bene. Ma la bontà dell’azione è toccata dal peccato della caduta.

Per cui, e sarà la posizione poi in modo davvero nuovo indicato in Resistenza e resa, anche l’azione più necessaria di contrasto al male, come la resistenza violenta al tiranno, resterà male, per chi la compie. Sarà compiuta a suo rischio. Non ci sarà una coscienza serena ad accoglierla, solo la necessità di salvare il fratello al costo della propria salvezza. 

Qui si è parlato di Creazione e caduta, ma il consiglio è rileggere Resistenza e resa, letto da molti con lo sguardo peloso di chi celebra per sminuire e da altrettanti con lo sguardo glabro del concordismo scivoloso: in fondo Bonhoeffer non ha detto niente di nuovo, è un protestante che riconosce il buono del cattolicesimo e della dottrina tradizionale sul tiranno che possiamo uccidere.

E invece no. Per Bonhoeffer il tiranno lo si può uccidere ma non è cosa buona, non lo si fa per un bene superiore, e nemmeno è un male minore, è proprio male e basta e chi lo fa si assume la colpa. Personale. C’è naturalmente una colpa collettiva, storica, una cecità, ne parla nello scritto che sta in principio di Resistenza e resa, bello e così moderno da essere inquietante. Anche questo, da rileggere.

Ma l’azione buona degli uomini caduti è toccata dal male. Non c’è purezza possibile. C’è solo l’affidarsi alla misericordia. 

Da Il Regno – attualità, 15 giugno 2022.