Il mito perverso del successo

(su laRepubblica, 30 marzo 2023) Nessun bambino nasce con l’ansia addosso, e nessun genitore sano di mente opera per far crescere un figlio inquieto e teso e non esiste una sola seria teoria pedagogica e didattica che contempli il sistematico utilizzo del timore come strumento di apprendimento. Anche se qua e là si è letto, perfino in tempi recenti, che paura e vergogna siano efficaci strategie di scuola. Ma non è vero. Eppure.

Al Liceo Berchet di Milano sono 56 gli studenti e le studentesse che da settembre hanno lasciato la scuola. A Bologna, dopo il Professionale Aldrovandi Rubbiani, anche i Licei Minghetti e Copernico sono occupati dagli studenti. La scuola è una gabbia, è classista, non cura il benessere di chi la frequenta, dicono nelle interviste.

Quando si parla di ragazzi e di scuola, ci sono retoriche da evitare. Che i giovani sono fragili, cresciuti a coccole e tecnologia, che i professori sono inadeguati e assunti per sanatorie, che l’istruzione è afflitta da mancanza di mezzi e non c’è futuro.

Ecco, il futuro. Chi lavora nella scuola incontra genitori sinceramente terrorizzati dal futuro e in ogni modo impegnati a proteggere i loro figli dall’incertezza che li aspetta. E cercano la scuola migliore, i voti migliori, che permettano l’accesso all’università più quotata e prestigiosa e chiedono le certificazioni linguistiche e informatiche, i corsi aggiuntivi di diritto, di economia. Tutto. Una preparazione d’eccellenza.

E ci sono le classifiche ufficiali e ufficiose dei licei d’élite, dove i figli devono andare. O degli istituti tecnici che assicurano lavoro immediato. E’ una corsa individuale, egoista. Se ottengo quel che mi interessa per mio figlio, basta. Se non lo ottengo, sono guerre legali o mediatiche. Proteste che arrivano fino al Ministero.

E i figli stanno in mezzo, protetti sì, ma avvolti di attese e insieme di sfiducia. Perché, se per affrontare il futuro serve tutto questo, vuol dire che loro non sono abbastanza, che agli occhi degli adulti di riferimento non hanno abbastanza valore, non sono ritenuti capaci di affrontare le difficoltà della vita. E spesso nemmeno le attitudini vengono riconosciute, perché si deve frequentare l’indirizzo che dà più certezze e non quello per cui si è portati. Protezione invece di educazione, chiedono i genitori alla scuola.

Nessuna scuola è contenta dei ragazzi che perde, e se in una dinamica competitiva in cui contino solo i risultati, studenti fragili che se ne vanno può significare esiti finali migliori per quelli che restano, tutte le rilevazioni serie (Invalsi, Eduscopio) oggi tengono conto, nell’apprezzare i risultati, anche di quanti sono gli studenti bocciati o che hanno abbandonato il corso di studio. Perché è gioco facile avere una media strepitosa di voti altissimi all’esame di stato se in quinta arriva la metà degli iscritti del primo anno.

E poi bisogna chiedersi dove vanno, quelli che si ritirano. Perché la galassia degli istituti privati e paritari, accanto a scuole che offrono un percorso di accompagnamento individuale serio (di sicuro non alla portata di tutti i redditi) conta al suo interno anche il fenomeno di diplomifici vergognosi, dove il successo scolastico è assicurato ma l’ingiustizia anche.

La vera domanda è come la scuola può aiutare i ragazzi ad essere attrezzati per la complessità del mondo. Natalia Ginzburg ha scritto che “al rendimento scolastico dei nostri figli, siamo soliti dare una importanza che è del tutto infondata”, perché prendiamo il rendimento come un aspetto della “piccola virtù” del successo.

Educare vuol dire portare alla luce il valore di ciascun ragazzo. La protezione più potente è saper affrontare le difficoltà. E anche le ingiustizie che fra i banchi può capitare di vivere: “La sola cosa che importa, scrive la Ginzburg, è non commettere ingiustizia noi stessi”.

Serve una scuola di altissimo livello ma non elitaria. Libera dal mito del successo. Luogo di incontro con adulti significativi capaci, se un ragazzo sbaglia la scelta, di aiutarlo a capire qual è la scuola giusta, a ricostruire la fiducia in sé stesso.

La Repubblica, 30 marzo 2023.

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1 Commento

  • Emanuela Trentin

    21 Maggio 2023 at 13:24 Rispondi

    Ho insegnato 40 anni nei professionali prima,nei licei poi; oggibsino in pensione, ma non da molto ,non da così tanto tempo per non ricordare che, purtroppo, il mio del successo ( ovviamente per i propri figli) hanno contribuito a crearlo i genitori ,le famiglie. È così, secondo me, che soprattutto a partire, dalla fine degli Ottanta la scuola ha smesso di essere una comunità educate, un bene comune prezioso che tale non è più in questo mondo dove conta emergere,purtroppo mercificando la cultura,il sapere e chi la,trasmette. Nom è la scuola a passare questo messaggio, direi parafrasando il commento che prima che la scuola avremmo bisogno di famiglie di altissimo livello..una vera utopia

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