un patto tra studenti e docenti

 

La scuola è nostra. Di tutti noi. Non mia, non loro. È di chi non ha figli nelle aule e di chi ce li ha, di chi la frequenta e di chi insegna, di chi se ne occupa e di chi non ne sa niente. È il nostro bene comune. Non si buttano pietre contro il nostro bene. Che cosa vogliamo dalla scuola? Oggi l’infelice fastello di norme-dispositivi-razionalizzazioni, in effetti solo tagli e ancora tagli, che ci si ostina a chiamare riforma della scuola, sta andando “a regime”, come si dice con una metafora vagamente minacciosa nella sua statica definitività. E allora: che cosa possiamo fare?
Ora che la scuola è più povera di persone e risorse, più mortificata nel prestigio di cui ha bisogno, con gli studenti e nella società, più attaccata, più sola? La moltiplicazione delle esperienze. Bisogna impedire l’incosciente dissipazione delle esperienze positive che i tagli vorrebbero cancellare. Così a Napoli è stata fatta morire la storia di Chance, la scuola dei maestri di strada. Cercava, inseguiva e dava un’altra opportunità a ragazzi bocciatissimi delle scuole del regno. Gli insegnanti che ci lavoravano hanno trovato piccoli finanziamenti privati e hanno disseminato l’esperienza: ora undici istituti collaborano fra loro per conservare il buono già messo da parte. “È morta una scuola e ne sono nate undici”, ha scritto Cesare Moreno, maestro di strada, rispondendo a un ex studente di Chance.

Così quel che prima viveva una separatezza sospettosa, quasi Chance fosse una scuola dei privilegi, è diventato condivisione capace di moltiplicare il bene. Una scuola del patto. La scuola può stringere patti. Fra studente e docente, scuola e famiglia, scuola e società. Tutte le indagini ci dicono che la fiducia delle famiglie verso la scuola tiene, sorprendentemente. È inutile rimpiangere la stagione della rappresentanza, che è in crisi ovunque. I genitori oggi devono partecipare direttamente alla vita della scuola in un’alleanza di trasparenze che non lasci spazio al sospetto. Credo che la scuola abbia il compito di smascherare ogni “gerarchia nascosta delle relazioni”. I problemi, le difficoltà, i disagi non vanno “comunicati” ai genitori, ma condivisi con loro e i figli. Dal bullismo al cattivo risultato scolastico, ci si trova, insieme, seduti intorno a un banco, si stende un impegno in pochi punti, sottoscritto dal ragazzo (che ripara il danno nella forma del servizio, oppure recupera le insufficienze attraverso un impegno scandito da tappe condivise), dal genitore (che si impegna a seguire giorno per giorno e a firmare il calendario degli impegni assunti), dal docente (che accompagna, verifica passo passo, riconosce i progressi e li mette in comune). Lo si fa da anni in molte scuole. Ciascuno esce dalla solitudine del suo ruolo, si condivide il successo. E anche l’insuccesso, che non può più essere buttato addosso all’uno o all’altro.

Il patto più efficace è quello con gli studenti. Perché li riconosce, è fra pari, dà fiducia davvero. E non può avere la forma rituale, all’inizio dell’anno, di una firma in fondo a un elenco altrettanto rituale di impegni. Deve essere di volta in volta, preciso, condiviso, scritto insieme (per quale risultato ci accordiamo? cosa fai tu? cosa fa la scuola? quanto tempo ci diamo? come verifichiamo?). Lo spazio simbolico. Le nostre scuole sono soprattutto raccoglitori d’ aule. E che aule. Molto di quello che diciamo importante non si ritrova nella “simbolica” degli spazi: i genitori devono partecipare, ma li riceviamo in piedi nei corridoi; i ragazzi devono leggere, ma i libri sono nascosti in armadi chiusi, nelle aule meno appetibili; i ragazzi devono studiare, ma quante scuole hanno spazi adatti? I confronti con l’Europa e con il mondo non possono riguardare solo i risultati, ma anche le risorse. Le scuole finlandesi hanno la struttura del campus: poche ore di lezione, laboratori, mensa, aule per lo studio, biblioteche, impianti sportivi. Le aule sono attrezzate con videoproiettore, collegamento Internet, biblioteca essenziale della disciplina. I ragazzi si spostano da un edificio all’altro dentro lo spazio della scuola. Scuola e vita si mescolano. Il potere delle parole. Ci servono parole condivise che dicano le verità della scuola. La famigerata “condotta” che ha fatto da catalizzatore demagogico di tante discussioni, nella legge trentina sulla scuola si chiama invece “capacità relazionale”. La metafora militare lascia il posto a una costellazione di significati che riconoscono lo studente e i suoi comportamenti dentro un rapporto. Se la relazione è cattiva, la colpa non sta mai da una sola parte. E restituisce, questa espressione felice, la dimensione della responsabilità di tutti.

E così, sempre a Trento, la disabilità è ricompresa, come insegna l’Europa, entro l’espressione “bisogni educativi speciali”. Che ha più declinazioni, che non richiedono tutte necessariamente la certificazione. Si tratta di misure integrative e compensative che possono riguardare per un certo periodo molti ragazzi. L’effetto è sfumare il confine fra normalità e disabilità, in un accordo con le famiglie che faccia uscire dalla guerra per le risorse (le ore di sostegno) e liberi le energie per arrivare agli obiettivi. Un mondo di storie. La scuola può raccontarsi, per smontare pezzo dopo pezzo il cliché deresponsabilizzante dello sfascio educativo. Deve trovare la misura di un’immagine. Una strada può essere quella di usare i siti delle scuole: accanto ai link di servizio, farne trovare altri di storie vere, divertenti, struggenti. Raccontare: negli incontri con i genitori, nei Consigli di istituto, durante gli open day, sui giornali di scuola e no. Storie di vita d’ aula che regalino un immaginario collettivo dei giorni, della convivenza, dello studio.

Oggi la letteratura, il cinema, il teatro non frequentano molto la scuola e manca un'”epica dell’insegnamento” paragonabile a quella che proprio i romanzi hanno saputo creare per il mondo degli ospedali, ad esempio, oppure dei tribunali. Le opportunità. La scuola non può rinunciare ad essere il luogo delle opportunità per tutti. Legare il prestigio della scuola alla selettività, alla bocciatura, è facile, demagogico e indecente. Bisogna dire ai genitori, ai ragazzi, alla società che il voto di condotta che fa media ha prodotto situazioni di intollerabile iniquità perché di fatto rischia di alzare il profitto dei “buoni” mediocri e di mortificare i “cattivi” capaci. Ma la scuola dovrebbe invece riconoscere e trovare un modo per accogliere e valorizzare intelligenze e personalità originali, divergenti, non allineate. Invece arriviamo a nascondere un’ingiustizia persino nell’attuale normativa sui recuperi di settembre e sull’ammissione all’esame di stato “con la sufficienza in tutte le discipline”. Di fatto non si può bocciare uno studente per una o due materie, anche se si tratta di insufficienze gravi: vorrebbe dire dissipare un anno a ripetere insieme alle materie insufficienti anche le altre. Dietro ai sei di tante pagelle ci sono voragini invisibili e ingiuste rispetto ai tanti sei conquistati con fatica. Non va bene.

Cosa ci vuole a fare un sistema di crediti come all’università, che permetta di andare avanti nello studio ma con l’obbligo di avere alla fine davvero tutte le discipline sufficienti? E poi: una scuola più povera è sempre anche più iniqua. Soprattutto in tempo di crisi. Vogliamo rassegnarci davvero? Gli insegnanti. All’ultimo atto della riforma ci si può contrapporre solo con iniziative vitali, concrete. È un’azione prima di resistenza e poi di alleanza con chi si sente responsabile. E soprattutto conosce ciò di cui parla. Non si può fare una riforma della scuola senza la sapienza dei docenti. “Non si può costruire una resistente (oltre che bella) cupola o sinfonia, senza conoscere certe regole della statica o dell’acustica”. Questo ha scritto Giorgio Caproni, ed era un poeta.

da La Repubblica, 11 settembre 2011

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