non sedurre ma servire

Capita che un docente sia accusato di avere avuto rapporti di sesso, anche violento, con sue studentesse, anche minorenni. Più d’ una. Capita che lo ammetta. Più tardi la giustizia dirà tutto quel che può, dopo un processo che deve essere giusto.E intanto però capita che compagni e compagne di classe e di scuola difendano il professore. Bravo dicono, appassionato, innamorato della materia. Innamorato? E allora ci si chiede qualcosa. Nelle aule come nella vita può capitare che le emozioni diventino bufera che travolge. Nella scuola di più, non solo perché ci si passa un mare di tempo e i rapporti sono stretti stretti e le interazioni necessarie. Ma anche perché le aule sono affollate di portatori privilegiati dell’ emozione più potente in noi, il desiderio.

Da giovani il desiderio è moltitudine. Essere visti, riconosciuti come persona che vale, amati. Esistere. Ed è bene che le emozioni attraversino le ore di lezione. Non si trova teoria pedagogica a sostenere che l’ apprendimento e il rapporto educativo funzionino meglio in un contesto di gelo relazionale. Gli strumenti critici e le emozioni ci fanno sapere il nostro valore. E insieme viene la libertà. Di non farsi aggirare, di difenderci da soprusi sociali e personali, stereotipi, trappole che ci minacciano. Scuola sta con libertà, se il patto con l’ adulto funziona. Davvero però il rapporto può tracimare in ogni momento, e la letteratura è piena di queste storie con finale a volte chissà letterariamente felice, più spesso incerto. La cronaca invece conosce soprattutto finali drammatici. Il patto stabilisce che nel contesto d’ aula il confine dei ruoli è tenuto dall’ adulto, che conosce, e riconosce, anche in se stesso, il potere delle emozioni, e in virtù del suo essere adulto le sa governare, anche in sé stesso. E gioca d’ anticipo ogni momento, non comprime la distanza con lo studente, che non è distanza di valore, ma di ruolo e di maturità. Non si confonde con lui. Ci sono i confini. Colleghi insegnanti hanno deciso che un confine è non essere amici sui social network finoa che rimane il rapporto di scuola. Niente telefono diretto, niente sms, niente post o tweet. Altri stanno anche su questi confini. Ma conoscono l’ arte della misura che non ammicca.

E poi c’ è il potere. Sia pure piccolo, corroso da una considerazione sociale in caduta libera e più ancora da una carsica crisi di indotta disistima, in aula il docente porta una forma di potere, quello di riconoscere lo studente oppure no appunto, ed è il potere più forte, aiutato dal potere del voto, la promozione. Credito fra gli amici e in famiglia. L’ unico potere d’ aula buono è servizio alle persone che ci sono affidate. Lo è per legge e per deontologia professionale. E invece no. Può capitare che non sia così è diventi mezzo di seduzione, sopruso. Più facile se l’ insegnante è bravo. Perché il seduttore ha sempre del buono in sé, altrimenti non sedurrebbe nessuno. Ha il buono di una passione. E quello del desiderio, come i ragazzi. Non coltivato in un sé adulto e appagato ma un desiderio malato di vita. Di tutte le vite. Bisogno di esistere attraverso le vite d’ altri, possedute fino all’ estremo confine. Queste cose non capitano nel deserto. C’ è sempre un mondo di adulti “sani”, ciechi sordi e muti, intorno. Non tutti colpevoli d’ omissione, no. Perché un genitore che trova un professore pieno di entusiasmo, generoso del suo tempo e del suo sapere, amato dai ragazzi, che vanno a scuola volentieri e sono felici, è contento, semplicemente. Certo che deve essere attento, e magari lo è, eppure non vede. Perché il seduttore seduce a trecentosessanta gradi, i genitori anche, e i ragazzi hanno il diritto di non capire la tempesta che li abita, e sono sgomenti e contenti nello stesso momento: un’ attenzione malataè pur sempre un’ attenzione, un insegnante sedotto è un frammento di onnipotenza nelle loro mani giovani. In un gioco di rovesciamenti che la psicoanalisi sa chiamare per nome e raccontare.

Forse è per questo che i ragazzi con ostinazione difendono il docente che esce dal suo ruolo fino all’ offesa dei loro corpi e della loro libertà. Perché difendono il loro essere esistiti, assoluti, unici e importanti, per un attimo a volte lungo, perché condannare il seduttore vuol dire riconoscere che l’ ingresso travolgente nell’ età adulta, vissuto come un posto ricevuto e riconosciuto, non c’ è stato. Vuol dire precipitare di nuovo nella paura di non valere. Però all’ appello delle colpe qualcuno può ben essere chiamato. Tutti quelli che per convenienza, piaggeria, quieto vivere, ammiccante connivenza, hanno taciuto. E quelli che sulla scuola non sorvegliano. Che affidano un compito straordinario a persone la cui inadeguatezza, o malattia, colpevolmente non sanno riconoscere.

Su La Repubblica, 3 settembre 2013

Facebooktwitterlinkedin

Nessun commento

Posta un commento