Sul prossimo libro, in uscita in gennaio 2016 presso Guanda, il quotidiano indipendente del Trentino L’Adige è uscita una lunga intervista con Paolo Ghezzi, in cui racconto la storia di una seduzione.
E tre. Mariapia Veladiano – già dirigente scolastica in Trentino e ora a capo di un megaistituto tecnico nella sua Vicenza – che ha incantato tutti con il suo romanzo d’esordio La vita accanto (Premio Calvino 2010) – storia poetica e tragica di una ragazza prigioniera del proprio viso inguardabile – e ha commosso con il numero 2, un intenso libro esistenzial-teologico sull’amore (Il tempo è un dio breve, 2012), ha consegnato il suo terzo romanzo, che uscirà a metà gennaio.
Lo spiega in questa intervista all’Adige alla vigilia del suo ritorno a Trento, domani sera, per il dialogo con don Luigi Ciotti che inaugura la settimana dell’accoglienza del Cnca.
Dunque, Mariapia, da Einaudi passa a Guanda: una scelta anti-fusione Mondazzoli?
«No, ho deciso di uscire ben prima, Guanda è una bella casa editrice, Gems è un bel gruppo. A 4 anni dall’ultimo libro, ho cambiato».
Titolo?
«Una storia quasi perfetta».
In copertina?
«L’ho scelta io, come le altre due: c’è un’opera dello stesso autore, Yamaguchi Kayo, che ha firmato la copertina del “dio breve”. Stavolta, è una cascata di foglie di cachi con un gatto nero, il titolo è “Les kakis”. E, importante per me, c’è un gatto. Nero. Lui aveva un gatto».
Di che cosa parla, la storia quasi perfetta?
«Ancora una volta di una donna. Ma stavolta è una storia di seduzione».
Sedotti e seduttori, di tanto in tanto, lo siamo tutti. Senza arrivare alle compulsioni comicotragiche di don Giovanni. Ambientata quando e dove, la storia?
«A Vicenza, che però anche stavolta non viene nominata, una Vicenza piena di fiori e profumi. Una storia contemporanea. Una storia di relazioni, quasi solo di persone. Lei è una disegnatrice, c’è il mondo dell’arte…».
Lei è una perfezionista, sono passati quattro anni dall’ultimo romanzo: immagino che ne sia convinta…
«Ne sono contenta, era una mia vecchia cosa che ho ripreso in mano, ci ho lavorato a lungo».
Leggeremo con passione: lei è una di quegli scrittori che, quando pubblicano, si capisce che lo fanno perché hanno qualcosa di urgente, di importante da dire. Ma importante, decisivo oggi in Europa, è anche il tema dell’accoglienza, su cui Vincenzo Passerini l’ha chiamata a parlare a Trento, lunedì. Ci anticipa qualcosa?
«Partirò, credo, da questa nostra società poco accogliente. A cominciare da un’architettura pensata e fatta per l’individuo, non per la comunità: viviamo in città non accoglienti, con i condomini senza spazi, sollevati dal suolo per far spazio ai parcheggi. I bambini fanno fatica a trovare varchi per toccare la terra. Le case sono ridotte a oggetti di possesso individuale, non destinate alla condivisione: sono merce da scambiare, diventano recinti, spazi separati, dagli steccati della paura».
Paura, confessata e non, che è al centro della politica sull’immigrazione.
«Il tema della paura viene coltivato da qualsiasi governo, di destra o di sinistra, come strumento per limitare la libertà. Noi saremmo più accoglienti che paurosi e invece educhiamo anche i bambini alla paura, che ci blocca non solo nei confronti di chi viene da lontano, ma anche di chi è molto vicino».
Ci sono terre d’Italia dove più viene coltivata, politicamente, la paura?
«Credo che dappertutto ci siano Caritas generose e rioni, terre private dove non prevale la paura: e non per eroismi solitari, di cui dobbiamo diffidare. A Vicenza c’è stato il caso di un gruppo di migranti destinati a un appartamento in viale Milano, una strada centrale, in un condominio, tutto regolare e gestito meravigliosamente da una comunità d’accoglienza: ma c’è stata una sollevazione straordinaria e sono stati allontanati dal prefetto. In pochi, si fa fatica. L’accoglienza funziona dove c’è un’amministrazione che se ne fa carico, come ho visto a Lecco, che inserisce i migranti a lavorare gratis nei servizi pubblici».
E sul piano culturale, come passare dalla paura all’accoglienza?
«Il rischio è che alcuni “buoni” vengano delegati al compito di essere accoglienti: diventano come la riserva indiana di tipi bizzarri o pericolosi, da cui pescare foglie di fico per coprire le vergogne della società. Il rischio è sul piano del linguaggio: nei media è in voga una koiné linguistica non accogliente. Buona parte del linguaggio pubblico – al di là dei proclami – risponde al sospetto che l’immigrazione sia un problema da risolvere invece che una realtà della storia, come tante altre volte è capitato. Che va accompagnata con tutta l’intelligenza e la prudenza possibile, senza improvvisare in extremis».
Il futuro dipende, anche in questo caso, da una scuola davvero «buona»?
«La scuola è il grande laboratorio della convivenza possibile: se comincia ad esserlo oggi, tra vent’anni si vedranno i frutti. La scuola pubblica ha questo compito, se no può morire. Suddividere i ragazzi tra scuole cristiane, musulmane e laiche sarebbe fallimentare: la scuola è imparare tutti insieme. La scuola trentina, in particolare, ha ottimi progetti di integrazione: ha un progetto vero. L’inserimento in una classe di un alunno straniero a gennaio sta diventando una normalità, non dev’essere visto come emergenza».
Nostalgia della scuola del Trentino?
«Ho nostalgia perché in Trentino avete un amore vero per la scuola, che da molte altre parti manca. E non è solo una questione di soldi dell’autonomia».
A proposito di bambini e immigrazione, abbiamo bisogno dello shock emotivo dei corpicini senza vita sulle spiagge per cambiare le politiche dell’accoglienza?
«Basterebbe quel che già sappiamo, colpisce il peso che hanno queste immagini. Sembra che non basti riconoscersi nella comune umanità di un’unica vita da giocarsi, loro come noi. Ma se l’impatto emotivo cambia le politiche nell’immediato, qual è l’effetto a medio termine? L’Ungheria ha comunque continuato per la sua strada, così la Polonia».
E allora, ancora una volta: che fare?
«Credo molto di più nella forza della ragione, anche nella fede per chi crede: ma basta la ragione, che non è una forza da poco. L’emotività invece è una forma di debolezza del pensiero».
Se avesse diretto La Repubblica, l’avrebbe pubblicata, la foto straziante del piccolo Aylan Kurdi?
«Non sono per la censura, ma per il rispetto dei codici etici dell’immagine. Forse l’avrei messa in un contorno importante di altre immagini, che aiutassero alla riflessione e non ci abbandonassero alla forza delle emozioni. Voglio dire: non l’avrei lasciata sola».
Da L’Adige, 11 ottobre 2015.
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