Primo giorno di scuola

Carissime ragazze e carissimi ragazzi,

benvenuti. Voi arrivate a scuola e portate dentro le nostre aule il mondo. Tra voi c’è chi ha avuto una famiglia che lo ha potuto seguire e accompagnare, una casa che lo ha protetto e chi invece arriva dopo un viaggio che non sa raccontare, e qui trova una piccola riva e non sa se dovrà ripartire. Qualcuno di voi ha già conosciuto l’offesa e sappiamo che non è facile studiare quando i pensieri di paura riempiono tutta la testa.

Qui a scuola ciascuno è una persona piena di valore e di diritti, quali che siano i suoi voti. In ogni momento della vostra vita di scuola siete persone chiamate ad essere felici, per quanto possibile felici. Vi invito a sta- re con i compagni senza mai giudicarli, curiosi di conoscere le loro sto- rie, contenti che siano diverse dalle vostre. Vi invito anche a sorridere, e a farlo per primi, è un bel modo di cominciare un rapporto, va bene per tutti, studenti, genitori e docenti, come dice la mia splendida collaboratrice professoressa Camilla Sala, che già conoscete o conoscerete insieme all’impeccabile vicepreside prof. Giorgio Donazzolo.

Vedete? Lavoriamo in squadra, insieme tutto è più semplice e bello.

A scuola costruiamo una comunità, ci rispettiamo, non difendiamo uno o l’altro gruppo, non alziamo la voce, non cerchiamo di arrivare primi da soli. A scuola cerchiamo fermamente di coltivare la buona lingua per esprimerci, la cortesia delle relazioni, il valore dell’aiuto reciproco nello studio. Si lavorerà insieme per molte ore ogni giorno. Abbiamo il tempo di diventare migliori, di portare un’esperienza bella di relazione anche fuori, in famiglia, sulle strade, sui mezzi di trasporto che prendiamo, e poi nei gruppi e nella politica. Per il bene comune, che è anche il bene nostro. Il bene comune è poter vivere meglio tutti e a scuola possiamo capire che è possibile e bello.

Non è vero che il mondo va come va e non lo si può cambiare. I giorni di questo anno scolastico sono ancora tutti da vivere. Potete fare nuove le cose, essere liberi, cortesi, non offendere, portare aiuto. Nessuno è felice di vivere arrabbiato.

Tutto questo non è “troppo”. È esattamente quello che chiede alla scuola la nostra splendida Costituzione ed è anche quello di cui abbiamo bisogno come esseri umani: che gli ostacoli alla realizzazione di noi stessi siano rimossi, che nessuno sia escluso.
Agli adulti che vi circondano – a noi che siamo a scuola prima di tutto – auguro di sapervi aiutare con attenzione e gentilezza.

Buon anno scolastico al Boscardin!

La preside.
Mariapia Veladiano

Vicenza, 12 settembre 2018

la maturità nella terra di mezzo

L’esame di Stato 2018, l’ultimo con la forma che conosciamo, cade in un tempo in cui le parole del potere polverizzano i valori che la Costituzione affida alla scuola pubblica

Forse l’esame di stato 2018 abita una confusa terra di mezzo. Di certo è l’ultimo con la forma che conosciamo: prima prova di italiano uguale per tutti, seconda prova ministeriale unica per indirizzo, terza prova su misura della classe, con domande a scelta multipla oppure a risposta aperta, oppure, raramente, il progetto, il problema, il caso pratico.

Con il paradosso che la prova più vicina agli studenti è sempre stata la più temuta e toppata. E poi il colloquio, così difficile da salvare nel suo non dover essere la somma di singole interrogazioni e nemmeno un disordinato flusso di coscienza sfilacciato su collegamenti lunari come il flusso delle maree, il diagramma di flusso e il flusso mestruale.

Dal prossimo anno per accedere all’esame sarà necessario aver sostenuto durante l’anno le prove Invalsi in italiano, matematica e inglese, e aver completato le 400 ore di Alternanza scuola lavoro previste per i tecnici e le 200 previste per i Licei. Come entreranno queste attività di Alternanza scuola lavoro, che hanno stritolato la capacità organizzativa delle scuole con risultati a volte esaltanti a volte tremendi, nella valutazione dell’esame ancora non si sa, mentre è certo che non ci sarà la terza prova se non in casi particolari previsti per “specifici indirizzi di studio”, non ancora indicati dal MIUR.

E’ certo anche che questo del 2018 è un esame di stato di un tempo in cui in modo repentino e impensato le parole del potere sembrano polverizzare senza imbarazzo i valori che la Costituzione affida alla scuola pubblica e per i quali la scuola ha ragione di esistere. L’uguaglianza, innanzi tutto: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali (art. 3). E poi la solidarietà, il ripudio della guerra (anche sociale). La condivisione, la curiosità intellettuale per le culture, l’amore per il mondo multiforme e interrogante, eternamente interrogante sul senso e valore di esistenze la cui sorte sembra incatenata alla geografia della nascita. Privilegio o responsabilità?

E sull’onda di questa attualità gridata, il toto-temi si sposta sull’immigrazione, i rapporti internazionali, la denatalità. I temi della prima prova sono preparati in primavera da una commissione di esperti del MIUR. Se ci sarà l’immigrazione (già data all’esame di stato più volte) è perché si tratta di un evento epocale come molte volte nella storia è stato un evento epocale, non perché è la politica del momento ne ha fatto il totem incantatore del suo parlare.

Non sappiamo quel che sarà il futuro. L’esame di stato promuove quasi tutti da sempre. Cercare di indovinare i temi o il passaparola sulle preferenze dei commissari è un rito e va bene se abbassa l’ansia. Quel che è certo è che la vita è sempre qui e ora insieme ogni nostro gesto e parola lascia il segno per cui c’è un unico consiglio, buono per tutti (noi): poter dire di avere affrontato i giorni e le prove da persona libera, capace di argomentare e non di assecondare l’aria che tira, rinunciando alla tentazione delle parole che colpiscono come clavate e invece cercando di far valere la propria (giovane) personale voce, libera dalla competitività (che ci separa dagli altri e ci rende poveri di collaborazione) e dalla piaggeria.

Poter raccontare con verità questa esperienza.

Da La Repubblica19 giugno 2018.

che errore quei soldi agli studenti

Quando si parla di scuola bisogna applicare mille prudenze perché ogni scuola è un mondo e solo chi proprio là vive e lavora può conoscere che cosa aiuta i ragazzi ad appassionarsi alla cultura, a vincere un’indolenza magari ambientale che potrebbe far pensare che, proprio no, studiare non vale la pena. Detto questo, l’idea di ricompensare la media dei voti con un premio in denaro è infelice. È un’idea non nuova (siamo andati a vedere se e come ha funzionato là dove è stata già applicata?) e sbagliata. Si premia la media dei voti a partire dal 7 e mezzo, purché associata al 9 in condotta. Ma la misura del merito non è il voto.

Già il voto in sé ha mille pesi diversi, da una scuola all’altra, da una sezione all’altra. Ma il merito è meravigliosamente altro: è la capacità di colmare un gap iniziale magari abissale. Di lingua, ad esempio, perché in famiglia parlano tutti in dialetto e così gli amici e gli amici degli amici. Gap di ambiente sociale, perché lo studente è nato in un contesto in cui la cultura non serve — fatti furbo, fatti gli amici giusti — eppure lui o lei crede che invece studiare sia una cosa buona.
Un gap di povertà culturale perché lo stesso studente ha solo dieci libri in casa e invece ha imparato a conoscerne il valore e a desiderarli. Santificare il voto vuol dire sposare la logica (aziendalistica) del risultato: o c’è o non c’è, in mezzo il nulla. Lo sforzo, la determinazione, la volontà e la fatica non valgono nulla. Si può dire naturalmente che così va il mondo, che “fuori”, nella realtà del lavoro sarà poi così. Ma è sbagliato, non crea né giustizia né felicità e non piace a nessuno e, appunto, nella scuola bisogna mostrare che abbiamo valore al di là del risultato e che il mondo lo si può cambiare.

Si può obiettare che anche le borse di studio sono in denaro ed è vero. Con però differenze importanti. Perché quasi sempre tengono conto del reddito, oltre che della media, sono consistenti e rappresentano così un allargamento del nostro micragnosissimo diritto allo studio e possono fare la differenza per uno studente non ricco, diversamente dal premiare a tappeto voti tutto sommato normali. Il sospetto è che nella speranza di ottenere un risultato modesto (un po’ di impegno in più?) si lanci un messaggio dannoso: che la scuola non ha mezzi propri per riconoscere il valore delle persone al di là del denaro. Perché in effetti alla scuola è chiesto di tener saldo il fatto che ogni persona ha valore e che la scuola può aiutarla ad esprimerlo.
Ci sono splendidi modi di scuola (e non di mercato) per incentivare lo studio: l’iscrizione a una certificazione linguistica, un soggiorno all’estero, un abbonamento a concerti, un buono-libri, un’esperienza desiderata, offerta a studenti segnalati dai Consigli di classe con motivazioni che tengano conto di tutto, compresi i voti, le difficoltà ambientali, la determinazione, la creatività, la generosità.

La Repubblica, 4 maggio 2018.

i genitori adottati dalla scuola

l rapporto sul Benessere equo e sostenibile è un bel progetto Istat-Cnel che legge la dimensione sociale del nostro star bene. Fra gli indicatori considera anche la fiducia. L’ultimo Rapporto 2016 dice che solo il 20% degli italiani dai 14 anni in su ritiene che gli altri siano degni di fiducia. Vuol dire che 8 su 10 delle persone che incontriamo ci guardano con sospetto. Non un bel vivere. La scuola, ci ha detto Ilvo Diamanti ieri, sta meglio di altre istituzioni perché ancora il 53% degli italiani la apprezza, ma il tarlo della sfiducia collettiva l’ha già raggiunta. E allora come si fa, visto che la scuola vive di ogni tipo di fiducia: nei ragazzi che sono pieni di valore, quali che siano i loro risultati; negli insegnanti che non li stanno ingannando ma aiutando a riconoscere se stessi e le proprie abilità, nel futuro per cui studiare è cosa buona?

Si può fare. In generale la sfiducia dilaga quando non si conosce la realtà che si ha davanti. Della scuola il mondo esterno non sa nulla. Solo la rappresentazione occasionale e gridata che ne danno i media quando qualcosa di orribile capita nell’universo dei 7 milioni di studenti distribuiti nelle 8.700 scuole della penisola. Tutta la vita d’aula, l’intensità, la bellezza e la fatica di governare relazioni con bambini e adolescenti belli confusi ed esplosivi, tutto questo non lo si conosce. A casa i figli sono uno o due alla volta, a scuola sono trenta e più per classe.

Un immaginario condiviso di scuola noi in Italia non ce l’abbiamo. Le fragilissime strutture partecipative pensate dai Decreti delegati si sono sciolte di fronte alla crisi di partecipazione dei nostri giorni. Poi le scuole sono aulifici e tanto poco prevedono la presenza dei genitori che li riceviamo nei corridoi. Infine i genitori vanno a scuola soprattutto quando hanno paura per i risultati dei figli, che misurano il loro valore di padri e madri. La scuola oggi si trova a dover allargare il proprio ruolo sociale e spesso “adotta” i genitori insieme ai figli, per poter uscire insieme dalla trappola di una conflittualità ormai accettata che alza i toni del conflitto corrodendo la capacità riparativa che ha la parola quando ci si incontra e ci si parla.

Tutto questo richiede un dialogo personale e paziente che spesso è difficilissimo perché le scuole sono spaventosamente sovradimensionate. La norma parla di 900 studenti per scuola al massimo, spesso sono tre volte tanto e i presidi hanno quasi sempre anche una scuola in reggenza con un eccesso di responsabilità da togliere il respiro. Al dialogo servono il tempo e la lentezza dell’ascolto. Bisogna avere scuole più piccole e classi meno numerose, punto. Per non essere inchiodati agli obblighi della “ scuola difensiva”, che si sfibra in adempimenti borbonici mirati a evitare i contenziosi.

E poi all’immaginario di scuola servirebbe tanto una moderna narrativa e filmografia che parlasse di scuola in modo tale da far emozionare, da permettere a chi legge di identificarsi con i docenti ed essere con loro sgomenti e affaticati e entusiasti di fronte alla complessità dei comportamenti dei loro figli. Perché anche i genitori non sanno niente dei loro figli e quando li convochiamo per raccontarglieli si arrabbiano o si disperano. Non hanno tempo, dicono, ma spesso li vedono con gli occhi del loro desiderio, occhi narcisistici: mio figlio è mio, mio figlio sono io. Libri che parlano di scuola ne escono tre al giorno, ma quando si tratta di romanzi i professori sono sempre diversamente bravi rispetto al loro compito: sono detective, psicologi o assistenti sociali. E infatti, spesso, questo i genitori chiedono alla scuola e non va bene.

La Repubblica, 24 aprile 2018