Ma la scuola non si ferma

Non è una decisione che si può prendere facilmente quella di chiudere le scuole. Anche solo un giorno.

Quando i giornali pubblicano titoli del tipo: “Sciopero dei docenti. Scuole chiuse”, non è mai vero. I presidi sono tenuti a mettere in atto tutte le misure organizzative possibili per assicurare la sorveglianza degli studenti senza chiudere le scuole. Solo quando l’adesione di docenti o collaboratori è così massiccia che in nessun modo si può assicurare l’incolumità dei ragazzi dentro le aule, è possibile chiudere, ma solo i plessi scoperti. Il preside deve fare una determina motivata, in cui indica come e perché è costretto a sospendere le lezioni. Le scuole chiuse rappresentano quindi nella realtà e nel simbolo l’eccezionalità del momento, anche perché in questi giorni non solo sono sospese le lezioni, ma sono chiuse anche le segreterie. A memoria di chi sta nella scuola, non è mai capitato, nemmeno con le nevicate eccezionali del 1985.

Finora si è trattato di due (primo ciclo) o tre giorni (superiori e università). Praticamente un ponte con le vacanze di Carnevale. Ora per Veneto, Emilia-Romagna e Lombardia si tratta di una settimana intera. È un periodo significativo che ha un impatto importante sul piano della riorganizzazione familiare e, per la novità, anche sull’organizzazione della didattica e della scuola stessa. Una settimana o due non rappresentano una tragedia per i programmi purché la scuola riesca a mantenere il legame con il processo di apprendimento. “Lasciar cadere” questi giorni vuol dire perdere l’opportunità di verificare quanto le scuole si sanno attrezzare per una didattica che possa dare continuità all’apprendimento, anche a distanza, con modalità e strumenti che ci sono già e che sono conosciuti e apprezzati dagli studenti. Si può fare. Per situazioni particolari come la malattia prolungata di uno studente, più o meno tutte le scuole sono in grado di farlo, anche perché si ingaggiano i docenti su base volontaria e di solito si prestano i tecnologicamente più attrezzati. Un tempo non era così, adesso invece sì.

Ora però si tratta di organizzare una didattica a distanza strutturata, coinvolgendo in modo sistematico e ordinario tutti i docenti e gli studenti. Le scuole che hanno già messo a regime modalità di didattica a distanza stanno lavorando senza difficoltà. Sembrano meglio attrezzate le università.

Gli altri livelli di scuola si muovono a spot. Il Miur ha organizzato un gruppo di supporto per le scuole che vogliono sperimentarla, in corsa, vista l’emergenza, invitando a collaborare “i produttori di hardware e software che desiderano rendere disponibili a titolo gratuito i propri prodotti”. In realtà è qualcosa che non si può improvvisare e che non potrà essere senza costi, come chiede il ministero, ma la strada sarà questa e i giorni particolari che stiamo vivendo ci dicono che si deve percorrerla con saggezza.

Da La Repubblica, 1 marzo 2020.

il ragazzo dalle treccine blu

La notizia è che a Napoli la preside dell’Istituto comprensivo Ilaria Alpi- Carlo Levi di Scampia non ha ammesso in classe un ragazzino di 13 anni che si è presentato a scuola con un grappolo di treccine blu elettrico sulla testa e una chiostra di rasatura intorno.

Una furia di reazioni da social. Facile facile il linciaggio: è un minore, il diritto allo studio, il diritto alla libertà di espressione, la scuola non è un lager, la preside è questo e quest’altro. Reato di lesa libertà.

La preside si chiama Rosalba Rotondo, lavora a Scampia da 26 anni, prima come docente e poi come preside. Vuol dire che ha scelto di lavorare a Scampia.

Nel suo curriculum ha progetti di inclusione, contro la dispersione, ha coinvolto la sua scuola in ogni programma di recupero rivolto a ragazzi borderline, è stata coordinatrice per la sua scuola del Progetto Chance, quello dei Maestri di strada, creato dal maestro Marco Rossi Doria e da Carla Melazzini. Decine di ragazzi cui è stata data la possibilità di salvarsi da destini altrimenti segnati.

Di lei colpisce il registro linguistico, nelle interviste: parla insieme da preside, da educatrice, da rappresentante di un’istituzione che sente soprattutto come presenza etica per il quartiere e gli studenti. Conosce il ragazzo e la sua storia e difende il suo diritto a un futuro desiderato.

Del ragazzino sappiamo che viene da una realtà complicata come può capitare, che ha talento per la musica e per la matematica e che proprio per questo è inserito in una masterclass che gli permette di valorizzare le proprie capacità. C’è un mondo scolastico positivo intorno a lui, che ne ha visto e valorizzato le capacità.

È chiaro che in astratto ciascuno può pettinarsi come vuole, anche a scuola. Ma non esiste niente di astratto quando si parla di scuola e di educare. C’entrano il luogo, la storia, la persona. Si può immaginare che la percezione di un cambiamento rispetto a una realtà sociale e culturale che fa fatica a offrire una speranza di futuro, o anche solo molto complessa, passi anche attraverso l’esperienza di un ambiente positivamente diverso, definito, in cui le regole sono non più strette, ma più visibili e che questa visibilità vada preservata come parte del progetto educativo, faciliti un senso di appartenenza positivo.

D’altro canto si tratta di regole discusse con i genitori e condivise, tanto che i capelli blu sono stati notati dai genitori degli altri bambini prima che dalla preside. Un patto che sta funzionando se i genitori stessi lo sentono proprio, e che certo non viene rotto da un incidente. E infatti la preside ha convocato la mamma del ragazzo e insieme hanno concordato un percorso: il ragazzo viene a scuola, non è quindi escluso, fa le prove con l’orchestra, frequenta i corsi di eccellenza di matematica, ma rientrerà in classe quando si sarà riappropriato, insieme alla famiglia, della regola già condivisa e sottoscritta, che disciplina anche i capelli: niente creste, shatush o treccine.

È pensabile che il progetto educativo di quel ragazzo richieda un tipo di contenimento diverso rispetto a quello di un altro. Lo facciamo continuamente a scuola. A volte per non andare a scontri frontali che chiuderebbero il rapporto, abbiamo due, tre, dieci, trenta pesi e trenta misure nell’intervenire in classe. Uno lo richiamiamo, l’altro facciamo finta di non vederlo per un po’ di volte. L’altro lo riprendiamo solo in colloquio riservato e così via. Dipende.

Anche qua, dipende. In ogni ambiente il look manda messaggi. Le scuole d’Italia sono abitate da teste di ogni colore, e non solo dei ragazzi e delle ragazze: anche docenti e presidi portano la libertà del mondo dentro le aule. La scuola è un mondo in cui tutto è segno ma lo è per quell’ambiente e per quella scuola. In un contesto che all’interno di un patto educativo ha accettato un dress code condiviso una inosservanza gridata può essere una sfida. Ad esempio proprio all’autorevolezza della scuola rappresentata dalla preside.

Probabilmente tutto si sarebbe sciolto in qualche giorno di dialogo e di progressivo rientro del ragazzo in classe. Chi ha preferito interessare del caso la politica e il Miur sapeva che ci sarebbe stata una bufera. Adesso è tutto un po’ più complicato. Bisogna evitare di strumentalizzare il fatto e favorire la ricomposizione del rapporto di fiducia fra una scuola e una preside che tutti i giorni tengono il punto di una realtà educativa in cui la forma è anche sostanza di rottura rispetto a contesti esterni difficili. Questo chiaramente vale per tutte le scuole del regno, non solo per quella di Scampia.

Fuori da scuola Lino, 13 anni, all’ingresso della scuola Levi-Alpi di Scampia. Oggi ci tornerà con sua mamma: finché avrà le treccine seguirà i laboratori ma non entrerà in classe.

Da La Repubblica,16 settembre 2019.

Si può dire di no

L’esame di stato può regalare molte RiLetture. Non sempre, non tutti gli anni. Ci sono professori che hanno paura a dare un libro intero da leggere in quinta. In un’Italia che non legge, un libro intero è quasi un’irresponsabile pretesa, con tutto quel che c’è da studiare per l’esame (qui bisognerebbe aprire una riflessione sullo spezzatino di testi filosofici e letterari che noi impartiamo ai ragazzi a scuola, e anche forse su sant’Ignazio di Loyola e il suo Non multa, sed multum ma, come si dice, sarebbe un fuoritema. O un «OT», secondo la lingua mondiale dei social).

Quest’anno è andata bene, benissimo. Una classe ha portato la lettura integrale de L’Agnese va a morire, di Roberta Viganò (Einaudi, Milano 2014). Un colpo al cuore in tempi di leggi (ingiuste?) e di disobbedienze civili canzonate, offese, messe al muro o frullate dentro l’infido gioco di convenienze in cui tutte le azioni sono sospette e tutte le intenzioni sono inconfessabili.

L’Agnese un giorno si trova a essere partigiana senza intenzione ma non per caso. Per caso vuol dire senza volontà. Lei invece ha voluto, ha voluto fermamente seguire l’elementare semplice senso di giustizia di cui si ha bisogno come l’aria se si vuole continuare a vivere una vita decente. E nell’Italia del settembre del 1943, pericolosa e confusa ma non così confusa da non poter distinguere la parte giusta, l’Agnese sceglie.

Sceglie di portarsi a casa un soldato giovane, sbandato e allegro per la fine della guerra, di farlo mangiare, di proteggere il suo sonno, di farlo scappare per tempo quando arrivano i tedeschi a cercarlo. La tragedia arriva per la delazione delle figlie della vicina di casa, la Minghina, più stupide che davvero cattive ma si sa che la stupidità è pericolosissima.

I tedeschi non trovano il soldato ma si portano via il marito dell’Agnese, il Palita, fragile e amato, tutt’uno con lei, non hanno avuto figli e hanno costruito un’unità semplice, intesa di poche parole e tutta sostanza.

E la sera il mondo senza di lui le pare un altro, estraneo. «Ma non malediceva il ragazzo disperso che cercava la via di casa, né si rammaricava di averlo aiutato. Lui non aveva colpa: soffriva della guerra, aveva fame e sonno, era giusto dargli da mangiare e da dormire. Nasceva invece in lei un odio adulto, composto ma spietato, verso i
tedeschi che facevano da padroni, verso i fascisti servi, nemici essi stessi fra loro, e nemici uniti contro povere vite come la sua, di fatica, inermi, indifese» (20).

Palita morirà prima di arrivare in Germania e lei prende il suo posto fra i compagni. Porta messaggi ed esplosivi, in bicicletta, nascosti fra la biancheria lavata. Una grossa quasi vecchia lavandaia di paese è invisibile. E quando un tedesco ubriaco le uccide la gatta per gioco, la gatta di Palita, che lui le aveva affidato nel partire verso la morte, e ancora una volta c’è di mezzo la Minghina, lei uccide con un colpo in testa il tedesco, un’azione che la sorprende, «che le somigliava tanto poco, che era venuta dal di fuori, come un comando estraneo» (54). E si unisce ai partigiani.

C’è un dialogo fra Agnese e la Minghina. Le figlie se la intendono con i fascisti e ne ricavano soldi e regali. «Le mie figlie vanno là per lavorare. Sono stati loro a chiamarle. Quando loro comandano lo sapete che non si può dire di no. – Hanno chiamato anche me e ho detto di no, – disse l’Agnese» (42).

Si può dire di no. Quando i fascisti le chiedono di lavare le cose dei tedeschi lei si dà ammalata. Si può dire in molti modi di no. Resistenza passiva. Resistenza attiva, militante. Agnese passa dall’una all’altra, non la sfiora nemmeno la tentazione della connivenza. «Il suo contributo alla lotta clandestina prese il carattere di un lavoro costante, eseguito con semplicità, con disciplina, come fosse sprovvisto di pericolo» (43).

Ci sono due immagini. All’inizio della storia verso sera Agnese raccoglie il bucato «già secco, odoroso di sapone: sganciava le mollette, tirava giù svelta un capo dietro l’altro, se li buttava sulla spalla… sembrava che portasse in braccio una piccola montagna di neve» (23).

Alla fine, quando il maresciallo le spara «da vicino negli occhi, sulla bocca, sulla fronte, uno, due, quattro colpi» e lei cade a terra con il viso fracassato e tutti intorno scappano «l’Agnese restò sola, stranamente piccola, un mucchio di stracci sulla neve» (239).

La poesia del lavoro, che può essere duro, ma pieno di dignità e bellezza. L’orrore assoluto della morte violenta, un trionfo sguaiato del male che ha la forza delle cose realmente accadute e impensabili se non si fossero imposte con il loro accadere. In mezzo, fra le due immagini, c’è la resistenza di Agnese, storia di violenza che non le piace mai, la rende piena di stanchezza, come si dice in tante parti del romanzo.

Vittime tutti della guerra e di troppe azioni servili e più ancora di omissioni colpevoli. Agnese grandissima che dice di no resta un’immagine di eroismo semplice, l’elementare adesione al bene che ci rende umani.

Da
’Agnese va a morire, di Roberta Viganò (Einaudi, Milano 2014). Un colpo al cuore in tempi di leggi (ingiuste?) e di disobbedienze civili canzonate, , 15 luglio 2019.

Piccola storia di scuola, presidi e reggenze

E’ vero che quando si scrive si scrive sempre un poco anche di sé.

Stavolta tocca farlo un poco di più. Ieri ho chiamato in giudizio il MIUR e l’Ufficio scolastico regionale del Veneto. Faccio la preside, trovo che la scuola sia il luogo del dialogo per vocazione. A scuola si costruisce la pace sociale attraverso la cultura e la reciproca conoscenza. Trovo che il contenzioso sia la malattia sociale più grave e contagiosa dei nostri tempi. La scuola deve esserne preservata. Ogni volta che con il dialogo, il riconoscimento reciproco e talvolta anche con le scuse, perché così deve essere, un contenzioso è stato evitato, è stata una vittoria di tutti. Eppure.

Quest’anno quasi il 50% delle scuole in Italia ha un preside in reggenza, quasi il 90% nel Veneto e Friuli, quasi il 100% nella provincia di Vicenza dove lavoro. L’ultimo anno che ha visto più o meno un preside per ogni scuola è stato il 2008. L’ultimo concorso per dirigenti scolastici è del 2011 e non ha coperto i posti vacanti. Da allora i presidi sono andati in pensione, si sono ammalati. Nel frattempo le scuole hanno raddoppiato o triplicato le dimensioni per effetto delle “razionalizzazioni”, potere delle parole. L’amministrazione ha “razionalizzato” scuole di indirizzi fra loro diversi, gli Istituti di istruzione superiore. Tecnico più Professionale, va bene, se si somigliano. Liceo classico, linguistico, scientifico. Ci sono Istituti che accorpano Licei artistici e istituti tecnici. Piccole città. Mondi. Ma anche così i presidi non bastavano e allora la pratica della “reggenza”, ovvero l’affidare due istituti a un unico preside, è diventata da pratica straordinaria a ordinaria. L’attuale concorso prevede 2.416 nuovi dirigenti probabilmente in ruolo per il 2020. Secondo uno studio della Fondazione Agnelli ne servirebbero almeno 3.600. Si tratta di un conto semplice: numero di studenti, numero di scuole, età dei presidi, pensionamenti. E’ una cronica incapacità previsionale dell’Amministrazione che crea un’emergenza senza giustificazioni. Con un bel vantaggio per le finanze: un dirigente scolastico costa allo Stato mediamente 50.000 euro l’anno (lordi, al netto sono 2.500 euro al mese per una scuola di media complessità), una reggenza ne costa meno di 5.000 (350 euro al mese).

Il dirigente dell’Istituto Selvatico di Padova è reggente a Venezia, otto plessi fra le calli, uno all’isola della Giudecca. La dirigente di un comprensivo di Puos d’Alpago nel Bellunese è reggente a Cortina, un polo di 7 scuole superiori, 70 chilometri di distanza. La domanda è: c’era una soluzione migliore, provvisoria? Sì, gli incarichi di presidenza. Ovvero docenti esperti, quelli che da anni collaborano a governare le scuole, che facciano domanda di incarico. La scuola li ha avuti fino al 2012.

C’è una retorica infelice sui presidi sceriffi che una interpretazione scioccamente dirigistica della buona scuola ha favorito. I presidi possono essere bravi oppure no, vale per ogni persona che lavori e abbia responsabilità. I cattivi presidi esistono come esistono i cattivi insegnanti, ma questo non vuol dire che gli insegnanti siano in sé come categoria inutili e nocivi. E così i presidi che oggi sono investiti di ogni tipo di responsabilità. Oggi le scuole hanno adempimenti che riguardano la sicurezza, la privacy, la trasparenza, la rendicontazione, la responsabilità civile verso l’utenza del tutto simili a quelli previsti dalle aziende. Bisogna occuparsene necessariamente. Essere presidi con una reggenza vuol dire doversi occupare soprattutto o solo degli adempimenti minimi obbligatori. Difficile esserci per i genitori che chiedono ascolto e di ricomporre una relazione difficile con un docente, per gli studenti ai quali dobbiamo assolutamente dare la possibilità di sperimentare una comunità che condivide le scelte e gli orientamenti, per gli insegnanti presi d’assalto dall’aggressività sociale che non risparmia nessuno.

Come si fa?

Il mio istituto conta 1350 ragazzi, è un liceo artistico con 5 indirizzi (multimediale, architettura, design, scenografia, plastico-pittorico) e un tecnico tecnologico con 2 indirizzi, ha 29 laboratori, ha organizzato l’alternanza scuola lavoro per 645 studenti, 68.000 ore. Quando ho saputo di avere la reggenza in un comprensivo a 60 chilometri di distanza, otto plessi di montagna e contrada, un mare di bellezza e di bisogni, ci ho pensato, ho valutato e infine ho fatto ricorso. Ho aperto un contenzioso con una parte del mio mondo.

Ma non ho fatto ricorso al giudice del lavoro per principio o per protesta. L’ho fatto per impossibilità. A fare bene il lavoro di cura, di gestione, di governo, che mi viene affidato. E l’ho fatto anche per dignità. La dignità di tutti i presidi che amano il proprio lavoro.

La Repubblica, 18 settembre 2018