stranieri

Vederci di tanto in tanto con occhi stranieri è una grazia.
Vedere l’acqua che esce facile dai rubinetti, acqua benedetta e la buttiamo la santa domenica a lavare i nostri pneumatici insieme alle coscienze sciatte che ci comandano.
E vedere le case che sono nostre, e se la cupidigia non ci divora, sono sicure e non ci schiantano al primo rabbrividire della terra.
Poter poi camminare nelle città, a fronte alta se vogliamo e con un nome pronto da dichiarare. Lo pronunciamo una sola volta, e viene riconosciuto.
E i figli. I nostri figli, che facciamo studiare, come deve essere, e hanno zaini e vestiti, e li portiamo in corsa al conservatorio o in piscina, quanta acqua!, e ci preoccupiamo che scelgano, economia, medicina o archeologia, come deve essere, e non sappiamo lo sgomento e insieme l’orrore di stringerli in braccio leggeri leggeri, quasi stritolati dalla pena di chi non può nulla per loro, che almeno dormano e non sentano la fame, perché non si sa dove cercare il pane.
E poi l’assurdo nostro ridicolo correre strizzati in un tempo che intanto va con il suo bel passo regolare, pronto al ritmo del nostro piacere se solo lo volessimo, e invece dannato al nostro scappare, da tutti, da noi, dalla vita.
Sì, è una grazia essere stranieri per quel che serve a vederci.

Avvenire, 16 giugno 2012

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