l’amore carnefice

Donne che non conoscono il loro valore. Uomini che di valore non ne hanno molto. Il mondo che Elizabeth von Arnim racconta nei suoi romanzi è spesso un piccolo, quieto ritaglio della grande società vittoriana, i cui difetti sono letti attraverso un’ironia intelligente che permette di vedere anche il bene di un formalismo che comunque e per vie indirette un poco purtuttavia educa i buoni pensieri.

Di buoni pensieri e di parole ancora più buone strabocca Vera, romanzo che Elizabeth von Arnim scrisse nel 1921 (la 1a traduzione italiana è di Mursia [MI] del 1993; la più recente è di Bollati Boringhieri [TO] del 2006), solo un anno prima di Un incantevole aprile, leggerissimo nell’ironico raccontare il viaggio in Italia di quattro dame inglesi annoiate dalla nebbia e, le due di loro sposate, anche dai rispettivi mariti. In Vera invece non c’è niente di leggero, tranne la scrittura elegantissima dell’autrice. È la storia di Lucy, giovane figlia di un padre che muore d’infarto alla quinta riga del romanzo. Lei ha sempre trascorso la vita con lui, felice di accompagnarlo nei viaggi, di assecondarne l’amore per la lettura, la vita tranquilla, i sentimenti buoni appunto. Il padre «era delicato e lei se ne prendeva cura. Fin da quando riusciva a ricordare, suo padre era stato delicato e lei se ne era presa cura».

Lei è in giardino, stordita, non sa allineare pensieri e sentimenti, come capita quando il mondo esibisce all’improvviso un suo aspetto alieno. E qui, per caso, davanti al cancello del giardino, passa Everard Wemyss che i pensieri li allinea con geometrica orrida precisione. È soprattutto un uomo molto seccato. Sua moglie è morta da poco più di una settimana, c’è un’inchiesta in corso perché è caduta non si sa come dalla finestra di The Willows, la loro casa di campagna, e questa inchiesta gli è molesta alquanto. Poi tutti si aspettano che lui sia affranto e anche questa mancanza di libertà verso i sentimenti che vuol provare gli risulta seccante. Infine è irritato dalla solitudine che il lutto gli impone. Non può giocare a bridgeperché è sconveniente, non può andare al circolo perché è sconveniente. Non può godere della compagnia di una moglie che devotamente lo aspetta a casa perché Vera è sconvenientemente morta.

L’incontro fra Everard e Lucy è casuale, come spesso capita fra vittima e carnefice, ma non c’è niente di causale nella trappola che lui costruisce fin dal primo minuto intorno a lei. Si occupa del funerale del padre, diventa normale presenza nei giorni del dolore, atteso da Lucy come amico prima, familiare poi. E infine amante. Lucy s’innamora e il cielo sa quanto può essere pericoloso innamorarsi.

Tutti noi che leggiamo, tutti, vediamo che lei cade nella trappola, un piano inclinato, un imbuto che porta giù e sempre più giù. Anche Lucy lo sa, troppo intelligente, sottile, troppo fine il suo pensare, lo sa e vede le mille sfumature di nero dell’anima (anima?) di lui. È crudeltà pura quando lui la chiude fuori dalla porta di casa in mezzo alla bufera, il primo giorno del loro rientro dal viaggio di nozze, per un’impalpabile offesa che ritiene di aver subito, e davvero questo è il meno.

È perversione quando le impone la casa, lo studiolo, la camera, il letto di Vera. È cannibalismo quando pretende di possedere tutto di lei, il tempo, i gesti più intimi come quelli del lavarsi, e vuole educare le sue parole, tenendo il broncio o arrabbiandosi od offendendosi o minacciando ambiguamente di offendersi finché lei non dice quella giusta. Fino i pensieri vuole ammaestrare.

E tutto questo lui chiama amore. E anche lei chiama amore il suo trovar giustificazioni al comportamento di lui. Doveva pur essere amore, una forma misteriosa, contorta, a lei sconosciuta di amore. Non poteva essere solo crudeltà distillata ora per ora, parola per parola. E nella assoluta solitudine in cui si trova a The Willows Lucy molto presto finisce con il cercare proprio Vera, ovvero la traccia che Vera ha lasciato in quindici anni di matrimonio, per capire come sia l’amore per lui, perché lui non può essere il Barbablù che le appare.

Insieme alla dolcissima zia Dot, che riesce a venirla a trovare, sia pure una sola volta e poi mai più, perché il potere sadico è perfetto se non ha testimoni, insieme a zia Dot getta lo sguardo nella biblioteca di Vera, poeti malinconici, romanzi pieni di dolore e morte, e poi un’infinità di guide turistiche Baedeker: «I libri che la gente leggeva… c’era qualcos’altro di più rivelatore?».

Perché Lucy vede ma non abbastanza da saper volare via? Vera è volata via nel modo più ingiusto, volata dalla finestra, caduta, buttata o spinta non cambia niente. La morte come soluzione al dolore è sempre maligna.

Una storia che comincia con l’egoismo mostruoso di lui, continua con un’infinita serie di menzogne, condite di perfette parole d’amore perché i seduttori le parole le conoscono eccome, e finisce senza nessuna ironia. Ma poter finalmente vedere quanto orrido, piccolo, spregevole può essere una persona di cui non si sa come ci si innamora è un poco salvifico. Anche questo può fare la letteratura.

Su Il Regno, 15 luglio 2015

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