Oggi c’è scuola

il nuovo libro

La scuola è stata a lungo capro espiatorio per ogni genere di problema e laboratorio di riforme ampiamente peggiorative ed è tempo di cambiare registro. Di darle risorse, per migliorare gli edifici e motivare gli insegnanti. Di darle spazio, portandola nei parchi, nei musei, nei centri delle città. Di darle tempo, quello di un dialogo con le istituzioni, con le famiglie, con i ragazzi, dialogo che era mancato o si era interrotto da ben prima della pandemia.

Mariapia Veladiano scrive pagine alla scuola più ancora che sulla scuola: in questo libro critico ma affettuoso la chiama a ritrovare una dimensione più egualitaria, più efficiente, più giusta. Disegna con proposte concrete un possibile percorso e una filosofia della ricostruzione per un’istituzione che può rinascere. Perché quest’anno non basta cominciare la scuola. Bisogna ricominciare dalla scuola.

La scuola riparte. Ma migliorarla è una necessità
Due saggi di Mariapia Veladiano e delle docenti universitarie Porro e Lomiento
Roberto Carnero

Che anno scolastico sarà quello che sta per cominciare? La risposta non è scontata. Aleggia soprattutto una speranza: che possa essere un anno il più possibile ‘normale’. Si sta provando a ricominciare la scuola così come deve essere, cioè tutti in presenza. Non c’è dubbio, tuttavia, che la pandemia abbia segnato in profondità il mondo scolastico, e che molte cose in futuro verranno fatte in modo diverso da come si facevano prima.

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Pensiamo anche solo al tema del digitale applicato alla didattica. Si è fatta di necessità virtù, sulla spinta dell’emergenza, ma i docenti hanno imparato nuove modalità di insegnamento, che rimarranno preziose, anche solo in vista di una migliore capacità di inclusione. Un pensiero per tornare, ricostruire, cambiare: è il sottotitolo del nuovo saggio di Mariapia Veladiano, da oggi in libreria: Oggi c’è scuola (Solferino, pagine 160, euro 12,90).

Scrive l’autrice: «Il Covid ha rovesciato dal trono dell’inconsapevolezza i privilegiati e ha scaraventato ancora più in basso i già poveri. Più poveri di lavoro, di denaro, di cultura. La scuola non può aggiustare il mondo ma può assumersi almeno due compiti molto precisi. Il primo, prendere in carico la nuova disuguaglianza che si è creata nella preparazione a causa del Covid. Il secondo, sostenere nei ragazzi questa nuova consapevolezza e fornire chiavi di lettura e strumenti culturali per poter riparare la parte di mondo che governeranno, in cui abiteranno, in un tempo non così lontano».

Ma la pandemia che ha costretto alla didattica a distanza ci ha fatto riscoprire l’assoluta necessità delle scuole e la loro bellezza. ‘Bellezza’, dice Veladiano, anche se l’edilizia scolastica spesso è brutta e fatiscente. Da donna innamorata della scuola (prima insegnante, poi preside) per il suo ruolo culturale, ma soprattutto per quello sociale e civile (che sono poi la stessa cosa), con dati e numeri alla mano, Veladiano traccia la sua idea di scuola: democratica e al tempo stesso rigorosa, centrata sulle cose fondamentali, aliena da quella burocrazia che oggi invece molte volte tende a soffocarla. Nelle ultime pagine del volume, l’autrice propone un suo ‘cahier de doléances’ con l’elenco delle cose da fare per una «(non)riforma» della scuola italiana. Dice «(non)riforma» perché di riforme di facciata, spesso a costo zero, negli anni ne abbiamo avute troppe. Dunque bisogna provare a ripensare la scuola in un altro modo: più concreto, meno velleitario, coinvolgendo chi la scuola la fa, cioè gli insegnanti, e valorizzando finalmente la loro professionalità trascurata e mortificata.

«Serve una scuola di altissimo livello, ma non elitaria», scrive ancora Veladiano. Accusa, quella di elitarismo, a volte mossa (non da lei) a una scuola in particolare, il liceo classico. Un pregiudizio smentito invece da Liana Lomiento e Antonietta Porro, entrambe docenti di Lingua e letteratura greca (la prima all’Università di Urbino, la seconda alla Cattolica di Milano) nel loro libro Liceo classico, un futuro per tutti (Carocci, pagine 112, euro 12), che esce anch’esso oggi e in cui sono raccolte 20 interviste ad altrettanti «ex alunni eccellenti» appartenenti ai mondi più vari: tra gli altri, Stefano Boeri, monsignor Mario Enrico Delpini, Nadia Fusini, Massimo Gramellini, Enrico Letta, Giuseppe Lupo, Paola Mastrocola, Luca Ricolfi, Luciano Violante.

Le diverse risposte convergono nell’affermare l’attualità di questo indirizzo di studi apparentemente vòlto al passato, ma insuperabile nel favorire nei ragazzi lo sviluppo di una capacità di analisi e di uno spirito critico che tornano poi utilissimi in qualsiasi àmbito di studi e in qualsivoglia campo professionale. Tutto rose e fiori, dunque? Neanche per sogno. Nella loro bella, appassionata introduzione le curatrici del volume riconoscono le ‘virtù’ ma anche i ‘vizi’ del liceo classico. E propongono alcune linee di miglioramento della sua offerta formativa. Per esempio bisognerebbe comprendere come l’esercizio della traduzione non sia il fine ultimo, ma uno strumento. Ma anche che non ha senso contrapporre lo studio della grammatica delle lingue classiche a quello delle relative civiltà.

Per utilizzare le lucide parole dell’arcivescovo di Milano, monsignor Delpini, «gli studi classici, e il liceo classico in particolare, possono rivelare al meglio la loro attualità se diventa più evidente e condiviso il loro contributo alla cultura, all’educazione degli adolescenti, alla resistenza critica alle seduzioni del paradigma tecnocratico, denunciato da papa Francesco nella Laudato si’».

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Da Avvenire, 9 settembre 2021

“Oltre le aule ci sono il quartiere, la città e poi il mondo intero”
Famiglia cristiana, 2 settembre 2021

La scuola è fatta di relazioni. E la pandemia ce l’ha detto
Giornale di Vicenza, 7 settembre 2021

Come stanno i ragazzi?
Corriere della Sera, 9 settembre 2021

Tempo di uccidere

Un solo, tragico, ipnotico, bellissimo romanzo. Tempo di uccidere, di Ennio Flaiano (Adelphi, Milano 2020), nasce così: nel dicembre del 1946, Leo Longanesi, che ha appena fondato la sua casa editrice, chiede a Ennio Flaiano di scrivere un romanzo. Entro marzo, perché c’è la prima edizione del Premio Strega e si tratta di partecipare. Il 1o marzo il romanzo viene consegnato, qualche mese dopo vince lo Strega, e Flaiano non ne scriverà mai altri. Peccato.

Tempo di uccidere racconta le azioni insensate di un ufficiale italiano in Etiopia, durante la guerra coloniale del 1935-1936. Non sappiamo il suo nome, forse non ne merita uno. Lo troviamo che si è appena salvato da un incidente: l’autocarro che lo portava in città si è rovesciato. Andava a cercare un dentista per un dolore lancinante che lo tormenta. Invece di aspettare i soccorsi lascia da solo il soldato che guidava l’autocarro e si mette in cammino verso il fiume, forse spera di perdere meno tempo, ha solo 4 giorni di permesso per risolvere il suo problema.

E parte, a piedi, avvolto, immerso nel caldo quasi solido di una natura esagerata, ogni seme germogliava in ogni luogo, ma fissa, seccata, gli alberi come «animali impagliati» (11). Dopo un po’ un camaleonte gli attraversa il sentiero: «Brava bestiola», «calmo, onestamente spaventato da quell’Africa piena di insidie, metteva una zampetta dietro l’altra con delicatezza» (16). In modo del tutto insensato gli infila una sigaretta accesa in bocca e lo vede allontanarsi fumando. Si perde. Per indolenza.

È come se non gli interessasse davvero trovare un nuovo passaggio, arrivare dove il dente può essere curato. Gli interessa, ma non abbastanza. Per tutto il romanzo le cose gli interessano ma non abbastanza. Vede quel che dovrebbe fare, ad esempio tornare indietro quando capisce di non sapere dove si trova, ma non lo fa, un po’ per orgoglio un po’ per indolenza, appunto.

Comunque invece incontra dei cadaveri, un abissino seduto che sembra guardare proprio lui con l’occhio fisso della morte. E poi un altro, disteso, con la mano che indica il cielo. E un terzo, con la testa poggiata agli avambracci. Di loro ha sentito prima il fetore. Pensava fosse uno dei muli. Morivano frequentemente i muli della Sussistenza su quei sentieri. Invece sono esseri umani.

Non c’è determinazione precisa in quello che fa, nemmeno quando subito dopo incontra una giovane donna dal turbante bianco che raccoglie i capelli. È nuda, «accosciata come un buon animale domestico» (23). Si lava, raccoglie con le mani l’acqua dalla pozza e se la versa sulle braccia e sul resto del corpo con movimenti di grazia inconsapevole. Immagine primordiale, bella e nuova come il primo giorno della creazione. In realtà anche questo agli occhi senza passione dell’ufficiale non è così particolare e interessante: «Era uno spettacolo comunissimo, ma migliore degli altri che mi si erano offerti sinora. Poiché il giuoco non accennava a finire, accesi una sigaretta e intanto mi sarei riposato» (24).

Tutto qui. L’ufficiale tenta un approccio. Lei lo respinge, ma senza convinzione vera. Una schermaglia blanda e il rapporto avviene e i due passano la notte insieme, fuori nella natura, ma ci sono i pericoli, forse una bestia nel folto, e l’ufficiale gli spara e per errore ferisce anche lei, che è grave e morirà e allora la uccide, per pietà o per finire la storia malnata. È solo l’incipit. Quel che segue è da un lato l’irresoluto altalenare della volontà dell’ufficiale che decide di uccidersi, ma non ci riesce, poi di costituirsi, ma non ci riesce, poi di scappare, ma non ci riesce. E del resto assolutamente nessuna di queste decisioni lo convince.

C’è tutto l’altalenare di tutte le nostre vite toccate dalla colpa, in qualche modo nessuno scampa dalla colpa, in questo romanzo davvero straordinario. E c’è lo sguardo occidentale, coloniale, pigramente superiore, indolente e sciatto sulle persone indigene. I nobilissimi abissini. Dopo un errare inconcludente e disastroso l’ufficiale torna sul luogo dell’incontro, che è il luogo del delitto, e lì rimane anche se ogni giorno si ripromette di andarsene.

C’è un vecchio in quel luogo, che ha a lungo cercato la giovane donna assassinata, un vecchio che parla l’italiano, vive di azioni incomprensibili, prepara pali per una qualche capanna che non costruisce mai, assiste l’ufficiale quando si ammala, tenta di ucciderlo e poi lo salva. E c’è un bambino che va e viene e impara il mestiere marpione dei bianchi, l’arte di far commerci di tutto. Bravo, più bravo dei conquistatori perché ne conosce le debolezze.

Hanno nomi biblici in Abissinia. Lei si chiama Mariam, come quasi tutte le donne. Il bambino si chiama Elias. Il vecchio Johannes. Nomi biblici ma niente funziona. È un balletto sgraziato il tentativo di capirsi. Rapporto impossibile fra vittime e conquistatori.

È tutto primordiale. La vita, il sesso, la morte. Un Eden rovesciato dove prevale la malattia, anche la bellissima natura è malata, anche la donna, forse ha la lebbra, forse prima di morire ha infettato l’ufficiale. Forse il vecchio lo ha però guarito. Confessare la storia può assolvere dalla colpa? O almeno dare un poco di riposo.

C’è un fetore che lo coglie a sorpresa continuamente. Un mulo morto. Un uomo morto. Un ricordo, il ricordo di una morte. Ci prova l’ufficiale a confessare ogni cosa, ma chi riceve la confessione, il suo superiore, è un filosofo: «Il prossimo è troppo occupato coi propri delitti per accorgersi dei nostri» (279). Lo lascia andare. E allora non resta che vivere. Una vita di cui l’ufficiale in qualche momento ha sentito l’assoluto: «Non posso lasciare il cielo, anche se è un cielo di piombo non posso lasciare nulla, nemmeno questo cespuglio, nemmeno i giorni più mediocri e le notti più cupe, o le persone che odio: nulla» (176).

Intanto Johannes ha finito di preparare pali e li pianta come tettoia, riparo, memoria perenne sul posto in cui l’ufficiale ha sepolto Mariam, e non si sa come il vecchio abbia saputo. Il vecchio che è il padre, che ha salvato l’assassino, perché l’umanità è una, ma non può andare oltre. Nessuno salva l’assassino da sé stesso: «Affrettai il passo, ma la scia di quel fetore mi precedeva» (280).

Su Il Regno, 15 luglio 2021.

Adesso che sei qui

Incontriamo zia Camilla sulla piazza di un piccolo paese non lontano dal lago di Garda e dal corso dell’Adige. Per le borsette e i cappellini tutti la chiamano la Regina, e in effetti nel portamento assomiglia alla regina d’Inghilterra, con qualche stranezza in più. Qualcuno l’ha fatta sedere sulle pietre della fontana dove la raggiunge la nipote Andreina, e un pezzo di realtà di zia Camilla si ricompone.

È l’esordio, così lo chiamano, di una malattia che si è manifestata a poco a poco, a giorni alterni, finché il mondo fuori l’ha vista e da quel momento è esistita per tutti, anche per lei. Zia Camilla è sempre vissuta in campagna tra fiori, galline e gli amati orologi, nella grande casa dove la nipote è cresciuta con lei e con zio Guidangelo.

Ora Andreina, che è moglie e madre mentre la zia di figli non ne ha avuti, l’assiste affettuosamente e intanto racconta in prima persona il presente e il passato delle loro vite.

Una narrazione viva ed energica, come zia Camilla è sempre stata e continua a essere. Intorno e insieme a loro, parenti, amiche, altre zie, donne ­venute da lontano che hanno un dono unico nel prendersi cura, tutte insieme per fronteggiare questo ospite ineludibile, il «signor Alzheimer», senza perdere mai l’allegria.

Perché zia Camilla riesce a regalare a tutte loro la vita come dovrebbe ­essere, giorni felici, fatti di quel tempo ­presente che ormai nessuno ha più, e per questo ricchi di senso.

Le sere in cui arrivo tardi, entro nel lettone grande di zia Camilla e lei subito mi cerca la mano. “Sono Andreina, zia Camilla. Sono qua”, dico. “Che bello. Ah che bello che sei qua”, risponde. “Come stai zia Camilla?”. “Adesso che sei qui, il mondo comincia per me”.

La memoria malata pesca i ricordi
di Ermanno Paccagnini

A tutta prima, questo Adesso che sei qui di Mariapia Veladiano lo diresti un romanzo «dentro l’Alzheimer». E si va poi sempre più configurando come romanzo nel quale l’Alzheimer riveste un ruolo da coprotagonista insieme alla persona che lo sta vivendo e a chi ha deciso di assisterla.

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Ma la realtà è che Adesso che sei qui è il romanzo di una vita «vissuta nonostante l’Alzheimer». Ed è la vita, in un paesino alle primissime propaggini del Monte Bondone, degli zii Camilla e Guidangelo, «un uomo buonissimo» che adorava la moglie, «il suo cuore»: una coppia con i quali stavano pure il cane Pedro, nonna Maria e zio Leandro, «un uomo gentile» dagli «occhi azzurrissimi. Uomo quasi invisibile, nella casa». Una Camilla «minuta e dritta come una canna», con un «fisico poco contadino eppure robusto, capace di governare casa, campi e stalla senza fatica. Era un tratto della sua originalità, così come la passione bizzarra per alcune cose kitsch», e una passione per la fotografia. Il suo «grande dispiacere era stato non avere avuto figli. Dispiacer e di tutta la vita, eterno presente di un vuoto».

Un vuoto colmato da Andreina, una bimba «nata di troppo», perché dopo due femmine i genitori desideravano «un figlio maschio che continuasse la campagna», tanto da trovarsi battezzata «Andrea per dispetto» da una mamma già colpita da depressione post-partum dopo la nascita della seconda figlia, che cede alle istanze della sorella Camilla di affidargliela, rompendo quasi del tutto ogni rapporto con loro. Una «quasi figlia» che gli zii amano «incondizionatamente».

Ma la Andreina che qui racconta è «un a signora di mezza età nata e cresciuta in paese», con due figli ormai grandi avuti con Teo, laureato in legge ma che alla professione forense ha preferito il lavoro di traslocatore: grazie a questo ha incontrato una giovane Andreina scappata di casa, riportandocela, e sposandola tre mesi dopo. Ad Andreina un’inconscia paura fa rubricare come semplici distrazioni i «primissimi segni» dell’Alzheimer della zia, anche perché «Camilla aveva la tranquilla indistruttibilità di chi era stato molto amato».

E Andreina si rende conto che deve «imparare» non solo a gestire i «progressivi deficit di memoria» e il «deterioramento di funzioni esecutive» attraverso certi approcci (evitare espressioni quale «ti ricordi quella volta che…»), ma pure a difendere la zia dai tentativi d’isolarla in un «ospizio», sostituendo al «vedere solo la perduta normalità» la volontà di vivere questa «diversa normalità, perché comunque c’è una vita possibile per chi è malato, bella e piena, anche se diversa».

Ne viene anche un autentico, tenerissimo vademecum in forma narrativa (il collante sta nei corsivi tra i capitoli narrativi e in quelli di riflessione), che porta l’autrice a disegnare altre figure memorabili, grazie alle quali – e nonostante gli interventi del buffo quanto disastroso zio Alfonso, il fratello cappuccino di Camilla – Camilla «ha vissuto anche nella malattia. E ha distribuito allegria e gioia». Dalle due «governanti»: Merhawit , tanto ossessionata dal naufragio dei barconi, da spingersi sempre più a nord, lontana da ogni tipo di acqua; e l’algerina Naima con i due suoi figlioli, liberatasi da un marito padrone; alle «ragazze» del Progetto Alzheimer, che attraverso un rapporto osmotico con la zia giungono ad abolire ogni ricorso ai farmaci, dando spazio a una Camilla «sveglia, non lucida, ma sveglia, e si potevano fare le cose. Tutte le cose che lei era ancora in grado di fare».

Certo, «una donna fragile piena di emozioni e si vedeva», anche nel trasmettere «tutto il suo sgomento, la paura, il bisogno di riconoscimento, la necessità di entrare in relazione, il desiderio di parlare». E però sempre «bellissima, il corpo sottile, i piedi ben calzati nelle scarpe basse di vernice o di pelle scamosciata, i capelli a caschetto eleganti».

Ne viene allora anche un romanzo sulla memoria, in prospettiva inedita: una memoria affettiva che «inselvatichiva il presente ma coccolava il passato»; che, nel pescare una fotografia, «se ricordava qualcosa, raccontava; oppure la metteva da parte, senza preoccupazione», recuperando solo ricordi belli: e dove questo suo riscrivere la realtà diveniva «una specie di lezione di vita».

E così non solo «la zia Camilla viveva», ma con lei «tante persone si scoprirono vive e amabili», permettendo «di diventare tutti migliori». A partire dalle sorelle: l’estrosa zia Lauretta, ben gestita nel suo morbido riavvicinamento a Camilla; ma pure la madre di Andreina, anche se ha un poco da «finale in gloria» il suo porre termine ad anni di astiose incomprensioni e silenzi. Interessante anche la prospettiva della Andreina insegnante (come l’autrice): richiamata nel frequente parallelo tra Camilla e i suoi alunni a proposito dell’imparare a leggere incertezze e sgomenti del vivere.

Una narrazione affettuosa, con una scrittura comunicativa che, salvo qualche espressione o tratto edulcorati, sa ben dosare i passaggi dal dramma alla malinconia, al sorriso, all’allegrezza e persino al comico nel delineare il percorso dalla fragilità alla ripresa del possesso di sé, quale che sia il presente, grazie agli altri.


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Da La Lettura – Corriere della sera, 17 gennaio 2021, 23.

Veladiano, l’arte di riparare con l’amore
di Fulvio Panzeri

Il nostro tempo ha sempre più bisogno di “romanzi di formazione”, in grado di applicare, in modo creativo e nuovo, il senso che questo genere di narrativa ha avuto nella grande tradizione del romanzo e che considerava “formazione” solo il passaggio dalla giovinezza all’età adulta. È possibile, ma anche necessario, estendere l’accezione e lo dimostra Mariapia Veladiano, che si assesta così tra le voci narrative più sicure e intense, ma anche umanamente vive nella tensione della scrittura, della narrativa italiana di oggi.

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Infatti con il nuovo romanzo Adesso che sei qui (Guanda) ci racconta il senso che può avere la “formazione” nei confronti delle persone più amate, degli affetti sicuri, quando si manifesta quel senso della fragilità che li porta a un disorientamento della percezione di sé, della memoria, della cognizione dei gesti più quotidiani, quando “il signor Alzheimer” fa il suo esordio nelle loro vite e diventa un ospite inatteso e sconosciuto, che destabilizza le vite, non solo di coloro con cui sceglie di convivere, ma anche del contesto familiare e sociale che gli sta intorno.

La Veladiano ci racconta una “formazione”, in grado di trasformare il disorientamento e la paura di fronte a una malattia considerata difficile da gestire al di fuori delle “strutture protette” o come vengono chiamate oggi, delle “residenze” per anziani, che è la soluzione che prospetta una riunione dei parenti, poco tempo dopo che la presenza del “signor Alzheimer” si è dimostrata palese a tutto il paese, non lontano dal lago di Garda, in Trentino. Zia Camilla che vive sola dopo la morte del marito, manifesta un disorientamento proprio sulla piazza del borgo. Di lei si prende cura la nipote Andreina, che è diventata la figlia che zia Camilla ha sempre desiderato e mai avuto, avendola presa con sé e cresciuta fin da piccola, quando un momento buio e di malessere della madre naturale ha fatto sì che lei trovasse, all’interno del gruppo familiare, un luogo sicuro di affetti che ne garantisse una crescita serena e felice.

È lei, Andreina, insegnante con molti anni d’esperienza, che sceglierà una strada diversa, quella di stare vicino alla zia, di “riparare” i primi guasti della malattia, con un atteggiamento sereno, lucido, dove anche le bugie hanno la loro forza nel mantenere quel che resta dell’equilibrio interiore profondo di questa straordinaria figura di donna che è zia Camilla, minuta e generosa, da sempre chiamata “la Regina” perché alla regnante d’Inghilterra un po’ assomiglia.

Anziché assistere all’inevitabile assedio dell’“ospite” e alla conseguente fase degenerativa, sceglie di “riparare”, di riportare in una diversa dimensione i nuovi giorni della zia, creandole intorno una piccola comunità che riempe lo scorrere del tempo, la porta a gestire, pur nel nuovo passo lento che le situazioni richiedono, una propria autonomia, puntando tutto sullo svelamento di quella parte affettiva, che è la vera ricchezza di questa donna. Un aspetto che, riportato vivo nell’esperienza quotidiana, è in grado di restituirle momenti di serenità e di quiete: non si dimenticano la forza degli abbracci che zia Camilla sa ancora dare, prima alla donna venuta dall’Eritrea, ospitata dal prete del paese, che aiuta Andreina quando va a scuola; poi al figlio della ragazza giovanissima, algerina, ma già con due figli piccoli, che è fuggita da una relazione sbagliata, tutti e tre ospitati in casa della zia e infine al cane che le ha portato Andreina, molto somigliante al suo amato Pedro, che un giorno era scomparso e mai più ritornato. Insieme a loro troviamo anche le “ragazze” del “Progetto Alzheimer”, ognuna con una loro specificità, che arrivano a una confidenza tale da infrangere le regole del progetto, senza per questo, inficiare il loro lavoro e l’esito dell’intervento.

Ciò che Andreina riesce a costruire intorno alla malattia della zia, in termini di relazioni umane, più che di medicinali (utili, ma non indispensabili e inefficaci senza la presenza dell’aspetto relazionale), porta a una visione nuova, al rispetto di ciò che è ancora vivo nel profondo, anche se la memoria, per certi versi si è guastata. Allora è necessario trovare una diversa possibilità di sguardo, capire come sia possibile arrivare a una “formazione” che tenga conto delle “fragilità” e non le consideri solo da un punto di vista pratico: si tratta di formulare per la zia una vita diversa, dove lei possa riprendere confidenza con ciò che la memoria le riporta: le canzoni che ascoltava, la generosità dei suoi abbracci, il senso puro del suo mondo contadino.

Il senso di questo romanzo, la sua serena e aperta disponibilità alla speranza, resa ancor più tesa dalla lucidità ferma della scrittura della Veladiano, sta nella possibilità che pone di far sì che lo sguardo sia aperto e non cerchi una infida cecità: “C’è questa idea, mito, folle autoconvinzione che la vita sia vita solo se si riesce a ignorare la sua fragilità. Ma la fragilità, con tutto il suo disordine, è la verità delle nostre vite. La vita è sempre fragile e disordinata. Ecco la verità”.

Così la scrittrice scrive un canto d’amore assoluto, che riporta alla tensione delle parole di san Paolo, affidando la voce narrante a una nipote che è diventata figlia e restituisce alla zia, che riconosce come madre, la dignità di tutto l’affetto e di quella benedizione naturale che ha ricevuto, compiendo, con la stessa intensità naturale, quella “riparazione” d’amore che da piccola ha avuto dalla zia-Regina.

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Da Avvenire, 22 gennaio 2021, “Agorà”, 2.

Romanzo d’amore, famiglia e malattia nel tratto delicato di Veladiano
Corriere delle Alpi, 20 gennaio 2021

Il mondo di zia Camilla
Corriere del Veneto, 20 gennaio 2021

La coscienza e l’Alzheimer
Il Giornale di Vicenza, 20 gennaio 2021

“Racconto mister Alzheimer”
L’Eco di Bergamo, 24 gennaio 2021

L’Alzheimer una “coccola” per il passato
BresciaOggi, 25 gennaio 2021

Affrontare la vita “fragile”
L’Adige, 3 febbraio 2021

Cari professori, usate la grazia

Finalmente i ragazzi tornano a scuola. A gennaio le superiori riaprono con addosso gli occhi del mondo. E le attese del mondo. C’è chi si aspetta soprattutto che venga recuperato il “tempo perduto”. Una corsa da riprendere, dopo l’interruzione, doppia, della pandemia.  Possono essere i genitori più orientati al risultato, come si dice, che cercano nel successo scolastico una protezione dal futuro incerto e difficilmente prevedibile e governabile in questo mondo impensato in cui ci troviamo a vivere ormai da quasi un anno. Oppure possono essere quei docenti che si sono trovati più in sofferenza con la didattica a distanza, perché sono mancati i mezzi, o non avevano competenze mai richieste prima d’ora, oppure perché la disciplina si adattava con oggettiva difficoltà al nuovo modo di insegnare. Se si aggiunge che qualche scuola rientrerà con il primo quadrimestre non ancora chiuso, il rischio, magari nella buonafede di tutti, è un’orgia di compiti e interrogazioni.

Ecco, non si può.  A tornare saranno gli adolescenti che il virus ha compresso in casa in compagnia di tutte le belle e tremende ribellioni dell’età inquieta. In ogni caso si torna in classe in un tempo ancora sospeso. Senza la certezza di poter restare. Se ci sarà una terza ondata, come si dice.  C’è chi torna toccato dal lutto, oppure dalla malattia sua o dei suoi cari, oppure sfiorato dalla paura o devastato da una sofferenza psichica nuova. Ragazzi che non vogliono più uscire di casa, per non parlare di andare a scuola. Ogni passaggio di questo anno scolastico può costruire o distruggere e molto dipende da quanto gli adulti, i docenti, sapranno valorizzare la nuova prossimità con i ragazzi. Non esiste nessun tempo perduto se ogni esperienza diventa valore. E non è un tema, come dire, solo da specialisti. Non si tratta di moltiplicare gli psicologi a scuola. Si tratta di attivare la capacità riparativa di una buona vita di classe e civile.

Uscendo da casa i ragazzi riprendono quel movimento di autonomia dalle famiglie che è una componente fondamentale della crescita e i docenti sono chiamati a riconoscere le ferite, le fragilità con cui si presentano. Che somigliano probabilmente a quelle che viviamo in tanti, ma gli adulti siamo noi e sta a noi attivare attitudini di ascolto e riparazione. Un compito educativo, umano e civico che chiede libertà dall’ansia del fare.

“Fare” molte cose  visibili e universalmente riconosciute come “cose di scuola” è rassicurante per tutti. Ci rassicura anche rispetto al desiderio di un ritorno alla normalità, alla scuola com’era. Ma non sarà più com’era e va anche bene così, visto che da anni non riusciva a riparare le disuguaglianze. L’ombra della fragilità la accompagnerà. Non si potrà ripartire da dove si era interrotta. C’è da costruire una scuola pronta a mille forme diverse di prossimità.  A volte resistere è assecondare il tempo nuovo che viene.

La scuola che riapre riattiva processi di equità. La possibilità della didattica a casa è legata a quelle condizioni socio, economiche e culturali che determinano, secondo tutte le indagini sugli apprendimenti, i risultati scolastici. E la crisi economica è stata subito crisi scolastica. Questi ragazzi che abbiamo perso torneranno a scuola più diseguali e dobbiamo trovare insieme ai compagni di classe modi di recupero di intensità nuova, con l’aiuto della società civile. Capita già  in tanti posti, da Milano (l’associazione Non uno di meno, di ex docenti e presidi, che affianca le scuole) a Palermo (le Comunità educanti). Si può davvero fare.

Da La Repubblica, 4 dicembre 2020.