quelle domande impossibili ai ragazzi di terza media

Qualcosa di minuscolo. Minuscolo rispetto alla battaglia che si combatte ormai ogni anno prima-durante-dopo le prove Invalsi, soprattutto quelle di terza media, la cosiddetta quarta prova (Prova nazionale per l’Esame di stato della scuola secondaria di primo grado: un po’ borboniche e spagnoleggianti le parole dell’ufficialità, forse su questo si può essere tutti d’accordo).

Non si parla qui dell’opportunità: è davvero difficile sostenere che non sia opportuna, utile, assolutamente necessaria una valutazione nazionale, condivisa, degli apprendimenti che ci restituisca un’immagine di quel che la scuola fa. Valutazione e non giudizio. Che tenga conto dei contesti, dei mezzi, del valore aggiunto, che serva a portare risorse al posto giusto, ovvero dove ci son maestre e professori che fanno miracoli col nulla che hanno a disposizione, e non dove i risultati sono già garantiti dal contesto sociale degli studenti.

Non si parla quindi di prove Invalsi in generale. Solo delle parole. Quelle che i ragazzi di terza media hanno trovato sulla loro prova Invalsi di italiano lunedì scorso. Un racconto di Carlo Castellaneta: bello, malinconico, drammatico, tragico. Un signore “vecchio” e solissimo, “senza moglie né figli né fratelli” pensa di voler vendere la sua collezione di francobolli, una raccolta accumulata con pazienza nel suo esistere solitario.

Mette un’inserzione. Improvvisamente tante persone, nella forma di tante telefonate di potenziali acquirenti, irrompono nel suo appartamento silenzioso. Scopre di non voler vendere la collezione, ma di volere invece quel mondo di bizzarri rapporti che somigliano alla vita che non ha vissuto. Così dopo un po’ mette un’altra inserzione e poi un’altra, per oggetti che non ha e che quindi non potrà vendere. Ma non importa, perché le telefonate arrivano e gli fanno compagnia. Sorride anche, qualche volta. Finché il silenzio ritorna improvviso nell’appartamento. Quando la polizia entra, chiamata dai vicini, lo trova senza vita. La casa sottosopra. “Vendo brillante di inestimabile valore…” è stata la sua ultima inserzione. Le domande della prova Invalsi verificano la comprensione del testo. Certo le domande sembrano “neutre”. Però.

Una chiede se il protagonista nel passato era stato “solo” o “indifferente” verso i suoi colleghi di lavoro, oppure se “rimpiange” quei rapporti, oppure se erano rapporti “conflittuali”. Poiché nel testo “indifferenti” sono detti i suoi colleghi, si deve stare attenti a non cadere nel trabocchetto delle parole. Non conta che nella vita l’indifferenza sia spesso risposta a indifferenza. Il conflitto a conflitto.
Un’altra domanda chiede se il tema centrale del testo sia “la solitudine” oppure “la fragilità umana” oppure “la noia” oppure “l’avarizia”. “La solitudine” è la risposta corretta. Anche la fragilità, verrebbe da dire. E forse la noia di una vita vuota gioca un ruolo anche lei. Sappiamo di cosa è capace un adolescente annoiato. La cronaca ce lo racconta.

Un’altra domanda chiede di che cosa è davvero vittima il protagonista: della “cattiveria del prossimo” oppure del “meccanismo che lui stesso ha messo in atto”? Del meccanismo, è la risposta corretta secondo la “maschera” Invalsi (si chiama proprio così, è la schermata su cui si caricano a video le risposte di ciascun ragazzo sul sito). E nella logica interna del racconto può certo essere vero. Ma se questa è una storia “verosimile”, come ci dice la risposta corretta a un’altra domanda appena sotto, allora di certo non c’è paragone fra il piccolo male di far perdere un po’ di tempo al prossimo con inserzioni bugiarde, e l’immenso male di una vita uccisa per denaro.

C’è un’ellissi non colmata, nel racconto, ovvero qualcosa che non è scritto e i ragazzi devono intuire. E infatti c’è la domanda: cosa non viene raccontato? “Furto” e “uccisione” sono le parole che permettono di considerare la risposta corretta.

Più avanti ci sono le parole dell’analisi grammaticale e linguistica, più neutre forse: “Se questa mattina non ci fosse così tanto traffico andrei a scuola in bicicletta” e ancora “Giovanni, correndo in bicicletta su una strada dissestata è caduto perché si è fatto molto male”. In questo secondo caso si deve trovare la parola sbagliata, che, naturalmente è “perché”. Anche “strada dissestata”, verrebbe da dire. E, non era richiesto, ma anche il “traffico” della frase precedente è sbagliato, nella vita.

Ma qui “si verificano abilità linguistiche”. Sarà importante sapere cosa hanno risposto i ragazzi alla domanda sul protagonista del racconto di Castellaneta. Se il bon ton involontariamente compiacente verso quel che ci si aspetta da loro li ha portati a dire che il male che abbiamo ce lo cerchiamo, con l’uscir di notte a passeggiare, o i con i vestiti troppo stretti, o con un malinconico gioco di vecchiaia, oppure se a quattordici anni ha per un momento prevalso la vita desiderata e hanno risposto una risposta non corretta, cioè che è la cattiveria, la cattiveria umana il vero problema. E questa va combattuta, perché si può fare, bisogna dirlo, anche grazie a parole che a noi e a loro ricordino che la vita non è tutta così, che si può cambiare. Loro certamente la possono cambiare.

L’ultima domanda della prova Invalsi era una voce di dizionario da analizzare. Quest’anno la parola scelta è stata “guerra”.

Da La Repubblica, 20 giugno 2012

quelle isole felici che il mondo ancora ci invidia, gli asili nido

PARLARE di bambini un poco si rischia e più son piccoli più si rischia perché basta una parola, una sfumatura?, e ci si trova crocifissi. Proviamo, con prudenza. Mandare i bambini all’asilo nido sembra proprio che faccia bene. Al netto dalle malattie e dalle ansie dei parenti stretti, se il nido è buono fa bene ai bambini, ai genitori, alla società. I bambini si trovano al centro di un’attenzione pedagogica che li espone a esperienze sensoriali, comunicative, di apprendimento importanti, che favoriscono un atteggiamento di apertura al mondo, di curiosità e di interesse che dell’apprendimento sono l’anima. Un’indagine della Fondazione Agnelli di qualche anno fa dice chiaramente che i bambini e le bambine che hanno frequentato il nido hanno risultati scolastici migliori.

E poi c’è l’aspetto della socializzazione, l’educazione alla diversità, l’integrazione. Una società di figli unici come la nostra deve preoccuparsi di farci precocemente sperimentare che non siamo dio.

L’Italia ha conosciuto una stagione abbastanza felice in cui per un’amministrazione comunale realizzare l’asilo nido era motivo di orgoglio, significava corrispondere a una richiesta di civiltà perché c’era un bisogno delle famiglie che veniva soddisfatto, e insieme significava assecondare la vocazione all’equità che è la ragion d’essere di ciò che è pubblico: amministrazione pubblica, scuola pubblica, servizio pubblico in generale. I ricchi sanno sempre come sortirne, rubando la bella espressione a don Milani, i poveri van tutelati dal politico, il pubblico appunto.

Dei nidi erano belle anche le strutture, nuove nuove, venute da un pensiero pedagogico anche loro, e non aulifici ereditati da due secoli prima, come ancora sono le nostre scuole medie e superiori.

Non del tutto felice nemmeno quella stagione, perché complessivamente siamo sempre stati lontani dal 33% di posti nido garantiti che era l’obiettivo dell’Unione europea per il 2010 (nei Paesi scandinavi i bambini che vanno al nido sono intorno al 70%, e anche lì i risultati dei test internazionali sono elevati) e perché la forbice delle risorse ha riprodotto in Italia la geografia della disuguaglianza economica e sociale che conosciamo: pochissimi nidi al sud e insieme scarsa occupazione femminile (causa o effetto, il dato c’è), di più e di eccellenza nelle regioni del nord, che l’obiettivo del 33% lo hanno raggiunto e che registrano un’occupazione femminile anche doppia. Anche se le liste d’attesa sono un dato presente in tutta Italia.

La crisi economica ha corroso questa realtà, come molte altre. I comuni hanno esternalizzato i servizi, gli appalti al ribasso hanno avuto ricadute sulla qualità dell’offerta e anche sulla qualità del lavoro degli educatori, costretti a condizioni più difficili. Il contributo chiesto alle famiglie, sempre più alto. Non nascono nuovi asili nido. Le “Sezioni primavera”, classi di bimbi di norma aggregate alla scuola d’infanzia e create per accogliere almeno una parte di chi non riesce ad entrare nei nidi, vengono finanziate di anno in anno e in numero sempre minore.

Oggi i nidi sono in crisi. Sono affiancati da una polverizzazione di esperienze nate dal bisogno e molto disomogenee. La scuola d’infanzia è a sua volta nata dal bisogno e per accumulo di supplenze alle inadempienze dello Stato. Il 60% è statale, il 12% è comunale, il 28% è privata. La privata per sopravvivere ha bisogno dei contestatissimi contributi statali ma lo stesso non riesce ad assicurare l’integrazione dei bambini con difficoltà. Bel paradosso dal momento che nella scuola d’infanzia il privato è soprattutto cattolico, parrocchiale.

Una legge che disegni una politica dell’infanzia in termini di equità sociale, inclusione e formazione e non di risparmio è assolutamente un bene in questi giorni schiacciati sulla paura del presente. E la lezione che ci lascia una certa buona storia è che il pubblico funziona se scatta un senso di appartenenza forte, cioè se rimane ben saldato alla dimensione locale, relazionale, familiare. A dispetto del nome, che registra forse la resistenza tutta italiana a far uscire i bambini dalla famiglia, ad affidarli alla vita loro, la storia (felice) dei nostri asili nido di eccellenza è una storia di fiducia sociale realizzata.

La Repubblica, 24 febbraio 2015

la lotta quotidiana degli studenti timidi tra i banchi di scuola

Sono fuori moda i timidi, eppure ne vorremmo un bel po’ distribuiti a spaglio fra i ministeri, gli uffici,i negozi,i campi da calcioe anche le strade, perché no. A scuola li troviamo ancora. È quel rispondere in silenzio, come un batter le mani nel vuoto assoluto, senza onde e timpani che ci restituiscano voce. A scuola l’esser timidi è un camminar leggero solo agli occhi degli altri. La pesantezza è tutta nostra. Un grandinare di emozioni che ci lascia ogni momento contusi. A sentir la gravità dell’universo tutta addosso. Intenti solo a noi stessi, nostro malgrado, senza egoismo. Ad ascoltare il cuore che scoppia, a sorvegliare il respiro che ci manca. Pieni di dottrina che non si sa dire, di risposte che volano talmente veloci e lontane da sembrare mai state.

E questo abbassare il viso e non saper cosa sperare. Che non mi chiami, non mi veda, non senta, il maestro o la professoressa, il suono del desiderio sotto il mio mantello dell’ invisibilità. Desiderio di dire. Di esserci. Oppure invece sperare che lo senta. Infine sono qui. Esisto. E infatti capita. Il mio nome arriva un’ora o l’altra. Dev’essere così. Una lotta: che ne sanno quelli che parlano senza arrossire, visi eternamente pallidi o abbronzati, anche facce di bronzo qualche volta, che le date le ricordano, o le inventano, senza decenza, scaltri e abili, e vanno alla lavagna con l’andatura di un lanzo in vista del villaggio, che prendono a prestito senza resa le parole di tutti, suggerite, ricostruite, carpite, o anche solo studiate. Anch’io le ho studiate, ma non si vede.

La scuola attenta li vede bene i timidi e sa il loro diritto a voler diventare quel che sognano. Non promette quel che non può, ma certo può dar loro la parola per dirsi e una passione, felice dimenticarsi di sé perché finalmente altro ci ha innamorato e possiamo afferrare non qualsiasi possibilità, ma questa sì, è nostra. Un risorgere senza miracolo o magia, fatto di giusti spazi di attesa, di accanito rispetto, anche questo fuori moda, per la bella varietà di caratteri e personalità. Di attenzione a non umiliare. Di riconoscere e appunto chiamar per nome. Fuori dalla scuola i timidi spariscono. Perennemente assenti agli appelli, se per rispondere si deve gridare. Ma poi: timidi rispetto a chi? Rispetto al dominante, ovvio, spadroneggiare, gazzarra ipnotica che chiamiamo normalità? Non c’è colpa né virtù ad essere timidi. Ma non c’ è scampo, se intorno abbiamo sciami di arroganti, prevaricatori, esibizionisti, compiaciuti e noncuranti. Oppure solo distratti. Anche questi li abbiamo a scuola, prima. Nel nostro bel laboratorio di convivenza possiamo un po’ sdipanare la loro furia d’esserci alla faccia del mondo tutto. Trasformare la devozione per l’apparire in devozione per la vita. Ma ci servono tanti tanti alleati. Impiegati, commessi, guidatori, arbitri e giocatori. E ministri. Perché no.

Da La Repubblica, 11 febbraio 2012

Perché la scuola pubblica è pagata dalle famiglie?

I CONTI DELLA SCUOLA PUBBLICA

Gentile ministro Francesco Profumo, si può far finta di niente. E lo stiamo facendo. C´è talmente tanto a cui pensare. Le parole di una crisi tremenda come questa si affollano in una gara cupa di drammaticità: disoccupazione, fallimento, crollo della Borsa, della capacità di lottare, della fiducia. Fine. La scuola qui non c´è. Orizzonte lontano dalla politica. Numeri di bilancio da tagliare.

E infatti la scuola pubblica la pagano ormai in grandissima parte le famiglie. Soprattutto, ma non solo, quella dell´istruzione obbligatoria, elementari e medie, le cui risorse sono state strangolate senza pudore a partire dalla legge 133 del 2008, Legge Brunetta, che, inconsapevole capolavoro di burocratese borbonico e antifrastico, suonava così: “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica, la perequazione tributaria”. L’articolo 64 dettava le cifre dei tagli, in tre anni. Il ministro Gelmini li ha chiamati “riforma” e le famiglie hanno pagato. Stanno pagando. Il “contributo delle famiglie” è una voce di bilancio senza la quale non si farebbe quasi nulla a scuola: vale almeno la metà delle entrate, spesso di più. Permette il funzionamento puro e obbligatorio. Ma non può continuare così, perché la crisi c´è anche per le famiglie. Il governo deve sapere che la scuola esiste.

È un mondo: quasi nove milioni di ragazzi che nello studio cercano di sciogliere quel groviglio di desideri e paure che segnano la loro vita in costruzione e che provano a diventare quel che desiderano. È un mondo che ha ancora, lo dice l´ultimo rapporto Istat, miracolosamente, la fiducia delle persone. E questo vuol dire che le famiglie sono più sagge dei governi. Sanno che in tempo di crisi i soldi meglio spesi sono quelli per l´istruzione. Vuol dire che le famiglie credono nel futuro ancora. E che hanno visto e fatta propria la civilissima resistenza vissuta dalla scuola in questi anni di assalti. Fino ad oggi i governi hanno dissipato in modo irresponsabile questo patrimonio di fiducia. Ma c´è un´attesa, una bella attesa sulla scuola.

E ci vuole un atto di coraggio. Qualcosa, a livello statale, che somigli a quello che in Trentino si chiama Fondo qualità e che nemmeno la crisi economica ha messo in discussione. È un investimento che va all’incremento dello studio delle lingua, all’integrazione degli stranieri, ai ragazzi con bisogni educativi speciali, agli interventi che migliorano la qualità, appunto. Proprio ora si investe sull’equità e sulla cultura. E in Trentino i libri sono del tutto gratuiti fino alle medie, e alle superiori possono essere dati in comodato d´uso.

La crisi la si deve intaccare da molti lati. Quello della scuola non può essere lasciato alle famiglie. Una scuola che moltiplica l’iniquità non è solo indegna, è anche pericolosa, perché prepara l´esplosione della società. Coltivare la scuola vuol dire coltivare qualcosa che ci serve ora e sempre: la speranza che la via d´uscita dal presente buio sia ancora nelle nostre mani. Che il futuro ci appartenga ancora.

da La Repubblica, 18 gennaio 2012