la lotta quotidiana degli studenti timidi tra i banchi di scuola

Sono fuori moda i timidi, eppure ne vorremmo un bel po’ distribuiti a spaglio fra i ministeri, gli uffici,i negozi,i campi da calcioe anche le strade, perché no. A scuola li troviamo ancora. È quel rispondere in silenzio, come un batter le mani nel vuoto assoluto, senza onde e timpani che ci restituiscano voce. A scuola l’esser timidi è un camminar leggero solo agli occhi degli altri. La pesantezza è tutta nostra. Un grandinare di emozioni che ci lascia ogni momento contusi. A sentir la gravità dell’universo tutta addosso. Intenti solo a noi stessi, nostro malgrado, senza egoismo. Ad ascoltare il cuore che scoppia, a sorvegliare il respiro che ci manca. Pieni di dottrina che non si sa dire, di risposte che volano talmente veloci e lontane da sembrare mai state.

E questo abbassare il viso e non saper cosa sperare. Che non mi chiami, non mi veda, non senta, il maestro o la professoressa, il suono del desiderio sotto il mio mantello dell’ invisibilità. Desiderio di dire. Di esserci. Oppure invece sperare che lo senta. Infine sono qui. Esisto. E infatti capita. Il mio nome arriva un’ora o l’altra. Dev’essere così. Una lotta: che ne sanno quelli che parlano senza arrossire, visi eternamente pallidi o abbronzati, anche facce di bronzo qualche volta, che le date le ricordano, o le inventano, senza decenza, scaltri e abili, e vanno alla lavagna con l’andatura di un lanzo in vista del villaggio, che prendono a prestito senza resa le parole di tutti, suggerite, ricostruite, carpite, o anche solo studiate. Anch’io le ho studiate, ma non si vede.

La scuola attenta li vede bene i timidi e sa il loro diritto a voler diventare quel che sognano. Non promette quel che non può, ma certo può dar loro la parola per dirsi e una passione, felice dimenticarsi di sé perché finalmente altro ci ha innamorato e possiamo afferrare non qualsiasi possibilità, ma questa sì, è nostra. Un risorgere senza miracolo o magia, fatto di giusti spazi di attesa, di accanito rispetto, anche questo fuori moda, per la bella varietà di caratteri e personalità. Di attenzione a non umiliare. Di riconoscere e appunto chiamar per nome. Fuori dalla scuola i timidi spariscono. Perennemente assenti agli appelli, se per rispondere si deve gridare. Ma poi: timidi rispetto a chi? Rispetto al dominante, ovvio, spadroneggiare, gazzarra ipnotica che chiamiamo normalità? Non c’è colpa né virtù ad essere timidi. Ma non c’ è scampo, se intorno abbiamo sciami di arroganti, prevaricatori, esibizionisti, compiaciuti e noncuranti. Oppure solo distratti. Anche questi li abbiamo a scuola, prima. Nel nostro bel laboratorio di convivenza possiamo un po’ sdipanare la loro furia d’esserci alla faccia del mondo tutto. Trasformare la devozione per l’apparire in devozione per la vita. Ma ci servono tanti tanti alleati. Impiegati, commessi, guidatori, arbitri e giocatori. E ministri. Perché no.

Da La Repubblica, 11 febbraio 2012

Perché la scuola pubblica è pagata dalle famiglie?

I CONTI DELLA SCUOLA PUBBLICA

Gentile ministro Francesco Profumo, si può far finta di niente. E lo stiamo facendo. C´è talmente tanto a cui pensare. Le parole di una crisi tremenda come questa si affollano in una gara cupa di drammaticità: disoccupazione, fallimento, crollo della Borsa, della capacità di lottare, della fiducia. Fine. La scuola qui non c´è. Orizzonte lontano dalla politica. Numeri di bilancio da tagliare.

E infatti la scuola pubblica la pagano ormai in grandissima parte le famiglie. Soprattutto, ma non solo, quella dell´istruzione obbligatoria, elementari e medie, le cui risorse sono state strangolate senza pudore a partire dalla legge 133 del 2008, Legge Brunetta, che, inconsapevole capolavoro di burocratese borbonico e antifrastico, suonava così: “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica, la perequazione tributaria”. L’articolo 64 dettava le cifre dei tagli, in tre anni. Il ministro Gelmini li ha chiamati “riforma” e le famiglie hanno pagato. Stanno pagando. Il “contributo delle famiglie” è una voce di bilancio senza la quale non si farebbe quasi nulla a scuola: vale almeno la metà delle entrate, spesso di più. Permette il funzionamento puro e obbligatorio. Ma non può continuare così, perché la crisi c´è anche per le famiglie. Il governo deve sapere che la scuola esiste.

È un mondo: quasi nove milioni di ragazzi che nello studio cercano di sciogliere quel groviglio di desideri e paure che segnano la loro vita in costruzione e che provano a diventare quel che desiderano. È un mondo che ha ancora, lo dice l´ultimo rapporto Istat, miracolosamente, la fiducia delle persone. E questo vuol dire che le famiglie sono più sagge dei governi. Sanno che in tempo di crisi i soldi meglio spesi sono quelli per l´istruzione. Vuol dire che le famiglie credono nel futuro ancora. E che hanno visto e fatta propria la civilissima resistenza vissuta dalla scuola in questi anni di assalti. Fino ad oggi i governi hanno dissipato in modo irresponsabile questo patrimonio di fiducia. Ma c´è un´attesa, una bella attesa sulla scuola.

E ci vuole un atto di coraggio. Qualcosa, a livello statale, che somigli a quello che in Trentino si chiama Fondo qualità e che nemmeno la crisi economica ha messo in discussione. È un investimento che va all’incremento dello studio delle lingua, all’integrazione degli stranieri, ai ragazzi con bisogni educativi speciali, agli interventi che migliorano la qualità, appunto. Proprio ora si investe sull’equità e sulla cultura. E in Trentino i libri sono del tutto gratuiti fino alle medie, e alle superiori possono essere dati in comodato d´uso.

La crisi la si deve intaccare da molti lati. Quello della scuola non può essere lasciato alle famiglie. Una scuola che moltiplica l’iniquità non è solo indegna, è anche pericolosa, perché prepara l´esplosione della società. Coltivare la scuola vuol dire coltivare qualcosa che ci serve ora e sempre: la speranza che la via d´uscita dal presente buio sia ancora nelle nostre mani. Che il futuro ci appartenga ancora.

da La Repubblica, 18 gennaio 2012

una favola adulta: la bambina di neve

Esce in Italia il romanzo della scrittrice Eowyn Ivey, scelto come miglior esordio per la narrativa da Barnes & Noble. Il racconto è ispirato a una fiaba russa tradizionale e si svolge negli anni Venti tra i ghiacci. I protagonisti incontrano una bimba che cambia il loro rapporto con la felicità. 

Come si sopravvive all’inverno dei desideri? Quando non abbiamo più il cuore di avvicinarci nemmeno ai contorni di certi pensieri? E tutto fa così male che l’unica salvezza sembra essere l’immobilità? Gelo benedetto capace di rallentare la vita che non ci riguarda più. C’è tanta luce in questo libro dal titolo di fiaba, La bambina di neve (Einaudi Stile libero, traduzione di Monica Pareschi, pagg. 414, euro 19). L’ha scritto Eowyn Ivey: è una ragazza cresciuta in Alaska, lavora in una libreria indipendente e questo suo romanzo che uscirà in America solo nel 2012 è stato scelto come miglior esordio letterario da Barnes & Noble. Ha un sito, ha fondato un blog di scrittori della sua terra e nel libro, ispirato a una fiaba russa tradizionale, racconta la vita – il ritorno della vita – dopo un grande dolore.

C’è tanta luce in questa storia, eppure non è un paradiso il mondo in cui vivono Jack e Mabel, i due protagonisti. Sono scappati in Alaska, estenuati dall’attesa di un figlio che non arriva, annientati dal dolore di averlo perso proprio quando ormai sembrava aver già trovato spazio nelle loro vite. Cercano il silenzio, che promette forse una forma di pace. Non più la paura che un qualsiasi suono di bimbo li trapassi piegandoli in due di dolore e nostalgia e perdita assoluta, irrimediabile: vita promessa, solo intravista, già amata e già perduta, prima che quel loro bimbo, o forse bimba, nato senza un suono, senza una voce da ricordare, almeno quella, e senza calore, finisse sepolto in una terra appena meno fredda di quella che ora abitano.

E invece la paura prende forme improvvise e anche l’incanto assoluto di un tramonto rosa trasparente sulle montagne coperte di neve, azzurro non ancora cupo sul fiume, già scuro sulla foresta di abeti e sui boschi di pioppi, può diventare bellezza che squarcia l’anima, se si è ancora vivi e se un sogno impossibile ancora ci abita. E allora la morte diventa l’unica vera promessa di pace.

Ma il desiderio è potente. Ed ecco, una neve perfetta scende su un crepuscolo triste come tutti gli altri e alleggerisce i pensieri e i gesti. Le mani che hanno rinunciato alle carezze lavorano in armonia a creare una bambina di neve, gioco infantile e insieme compimento struggente ed effimero dell’immenso desiderio.

La bambina c’è anche in una favola che Mabel ascoltava da piccola, una vecchia favola scritta in una lingua a lei sconosciuta, sconosciuta come la felicità che cerca, dal finale tristissimo. Ma forse è possibile inventare finali nuovi alle storie, e “scegliere la felicità invece del dolore”. La felicità inattesa e impensata è ora una bambina vera, che mangia, parla e ha un nome bellissimo: Pruina, “luce dopo il tramonto”.

Ma non rimane. Ma ritorna. Ma poi riparte. Forse non è la felicità sognata, però l’attesa non è più vuota e la vita ha un’allegria nuova che permette di alzare gli occhi su quel che sta intorno e non più vedere solo la terra gelata da lavorare. E arrivano anche relazioni nuove, prima prudenti e poi indispensabili. La turbinosa Esther, (quasi) vicina di casa, madre ferrea di tanti maschi, non lascerà che Mabel scappi ancora dalle sue paure.

Siamo nel 1920, in Alaska, la terra della scrittrice, appunto. Un altro secolo, un altro mondo. Eppure meravigliosamente nostro, lo stesso corpo a corpo con la vita, piena di incanti e di crepe. Accanto al bianco della neve che tutto copre e regala una perfezione che non dura c’è improvviso ma non inatteso, necessario, il rosso del sangue reale, feroce, di tanti meravigliosi animali: l’alce immenso la cui carne assicura la sopravvivenza fino a primavera, la volpe rossa, l’ermellino, l’orso, il gulo gulo, e anche un cigno bianco. Cielo divino, si può uccidere un cigno bianco? Macchiarne il candore immacolato? Due volte immacolato nella neve appena scesa sul mondo, miracolo di una creazione rinnovata? Si deve se l’alternativa è la morte, il non esserci di questa vita insieme voluta e tremenda, piena di bellezza, delusione, desiderio, fallimento, allegria, passione.

È un romanzo dell’anima, questo primo bellissimo libro di Eowyn Ivey, autrice dal nome parlante: Eowyn come la principessa di Rohan, nel Signore degli anelli.

È costruito con immagini potenti che si fanno abitare da chi legge, e non si sa quale scegliere: la pattinata notturna sul ghiaccio del fiume Wolverine; oppure ancora il ghiaccio che non vuole cedere al desiderio di morte di Mabel. Nel dolore è facile sprofondare. Nel fiume gelato a volte no. Non si muore quando si vuole.

Ed è pieno insieme di piccole, nascoste vertigini in cui ci si trova a sospendere il respiro: lei che non ha voluto vedere, abbracciare e salutare la sua creatura nata già morta e in anni di fantasticherie colpevoli ha immaginato sempre che fosse una bambina, da entrambi vergognosamente abbandonata senza cura in una qualche fossa, e invece scopre, quando finalmente chiede, che era un bambino, che suo marito l’aveva battezzato, con un nome importante e pieno di personalità. Potenza della parola finalmente detta. E può a sua volta salutarlo per sempre. Lo spazio per la bambina di neve ora c¿è. E anche per una felicità nuova, si è appresa l’arte di lasciar partire, di non volere più trattenere.

È anche un romanzo di donne forti di una forza che si deve avere, e di uomini che resistono fin che possono, forse non sempre capiscono, ma ci sono.

Ci si chiede dove sia qui il divino che Jack invoca ogni giorno prima di consumare il cibo conquistato nel rischio più estremo. Forse nella capacità di accogliere la felicità quando viene, senza sospendere la vita nell’attesa, senza paura di perderla.

Perché non rimani? chiedono a Pruina. Perché la felicità non rimane? Perché non posso tenerla, afferrarla, accudirla? Perché forse è come la luce del tramonto raccontata dal nome di Pruina: c’è stata, l’abbiamo avuta e goduta, non può essere afferrata. Ma tornerà. E una storia prende vita, una lunga bella storia dal finale inatteso, nel caso della bambina di neve.

“Sono qui”. Ecco le parole del miracolo assoluto, incomprensibile ogni volta: l’incanto dell’esserci. Per sé. Per chi si ama. “Sono qui”, dice Pruina quando torna.

Un entrare e uscire dal sogno di felicità. E non bisogna chiedere di più. Forse non bisogna chiedere e basta.

La Repubblica, 30 novembre 2011

un nuovo studio della storica Frugoni dedicato ai santi di Assisi

Per amore si torna ancora e poi ancora e poi di nuovo a frequentare la stessa persona, a ripercorrere luoghi di cui sappiamo colori e ombre, a riascoltare parole che potremmo ripetere a memoria più di una preghiera cara dell’infanzia, alla ricerca di quel nucleo di luce che promette ogni volta uno stupore diverso.
Qualcosa di molto simile all’amore sembra portare Chiara Frugoni a regalarci ora un nuovo libro, tessuto con passione intorno a quella storia straordinaria che ha visto insieme San Francesco e Santa Chiara in un’avventura spirituale che non finisce di parlare alla nostra vita di uomini e donne. Storia di Chiara e Francesco, uscito in questi giorni da Einaudi, viene dopo una quantità di saggi, interventi, studi che Chiara Frugoni ha già dedicato sia a San Francesco e Santa Chiara, sia al “tempo del pressappoco” come ama chiamare nel testo il Medioevo, in cui un anno può anche essere quello prima o quello dopo, quasi un anticipo dell’unico tempo eterno che San Francesco sapeva essere la promessa di Dio al mondo.
E così con la spigliatezza che le arriva da una conoscenza meravigliosa di documenti, fatti, luoghi e persone, l’autrice segue le strade di Chiara e Francesco non ancora santi (ma per poco, saranno santi subito, entrambi due anni dopo la morte). Lui in spontanea e precocissima lotta contro i “chiusi pensieri di profitto e guadagni” del suo ambiente familiare, dentro un clima cittadino di pesante lotta fra la sua classe, quella degli homines populi, e la classe dei boni homines, nobili, potenti e inaccessibili, “da odiare ma anche da ammirare”. E ancora segue Francesco dopo la battaglia di Collestrada, rinchiuso nell’atroce prigione di Perugia, circondato da feriti per i quali “la morte non riesce a venire”. E poi nei molti scontri tremendi e necessari: con il padre, con i concittadini, con se stesso, in una tormenta di umanissimi slanci e abbandoni e ritorni, fino alla solitudine nella quale incontra insieme Dio e l’uomo. Dio per l’uomo.
E una nuova storia nasce, e nulla è più come prima, e Francesco, ora in buona compagnia del suo Signore, mostra con la sua bizzarra e mai vista comunità di laici e chierici e nobili e colti e illetterati, che il Vangelo può essere messo in pratica davvero. Intanto Chiara bambina cresce e le fonti dicono che prestissimo si interessò a quel che capitava intorno a Francesco, fino agli incontri con lui, alla vocazione, alla fuga e alla nascita della sua comunità a San Damiano. In tutto simile a quella di Francesco: povera, a servizio degli uomini, con la straordinaria novità delle sorores extra monasterium servientes, sorelle attive fra gli uomini e le donne del mondo, testimoni del Vangelo come i frati di Francesco, con la stessa libertà.
È libertà la parola che Chiara Frugoni ci consegna come sigla di questa storia. In una società costretta nella lotta per il potere e per il denaro i fratelli di Francesco e le sorelle di Chiara rifiutavano ogni onore, avevano in odio il potere, supplicavano il pontefice per conservare il “privilegio della povertà”. Una purezza implacabile arrivava loro dal Vangelo e diventava volontà fermissima di costruire “un modello di comportamento che pacificamente si contrapponesse a quello in auge e che pacificamente lo scardinasse”. Pacificamente, rinunciando anche alla violenza implicita in ogni giudizio, liberi anche dalle sante attese: “E nel Signore amali. E non pretendere che siano cristiani migliori”, scrive Francesco a un ministro suo confratello turbato da chi lo accusava ingiustamente. Fu la stagione degli inizi, alleanza inimmaginabile fra terra e cielo. Prestissimo venne il tempo degli accomodamenti a cui la storia sempre obbliga.
Certo la lettura insieme rigorosa e combattente di Chiara Frugoni può fare nascere qualche critica, come accade sempre quando l’amore per una persona o una storia è condiviso con molti. Perché l’amore è spesso geloso.
È forse vero che l’esito della vicenda di Chiara, la clausura stretta decretata nel 1263 da Urbano IV, somiglia molto a un umano fallimento. Ma non sempre gli esiti diversi da quelli attesi son fallimenti. Chi crede può ben riconoscere nella vita nascosta delle clarisse la potenza carsica di una beatitudine ugualmente profetica.
È invece difficile negare che la battaglia per la povertà sia stata un vero fallimento, visto lo scandalo che ancora oggi la ricchezza della chiesa rappresenta agli occhi del mondo. Eppure anche qui la fede salva dall’amarezza pur nella determinazione della verità da affermare. Ecco quel che scrive Santa Chiara ad Agnese di Boemia, a capo del monastero di Praga, a proposito della loro comune lotta con le autorità religiose per la difesa del privilegio di essere povere: “Con corsa spedita, passo leggero, piede sicuro, in modo che i tuoi passi non sollevino polvere, avanza sicura, gioiosa e vivace, sul sentiero di una pensosa felicità”.
La Repubblica, 14 novembre 2011