pazzi

C’è stato un tempo in cui i pazzi eran tutti indemoniati. Un bel massimalismo che ci semplificava, un piccolo esorcismo e qualche volta funzionava.
Adesso graziealcielo abbiamo studiato e fra una riga e l’altra del giornale che ci porta il nostro male, troviamo tante definizioni, che sono anche assoluzioni: c’è chi ha violentato, ma era stressato, chi ha deriso, fatto il bullo e anche ucciso, ma era un narciso, ed è una malattia, e lo sappiamo già dal mito, che può anche portarci via.
Poi c’è chi ha le allucinazioni, oppure le visioni, i disturbi dell’umore e le millemila fobie, e oggi, con tutto che siamo, stipati di informazioni, si moltiplicano le ipocondrie.
Finché un giorno, ad occhi bene aperti, ci si scopre un poco umani nello specchio di chi vediamo, e allora un sussulto da notizia ci fa pensare che certamente le infermità ci possono rubare, ma che il male è male e si deve credere che la terra in cui si nasce la si può infine bonificare: il disprezzo del diverso, che si può volendo chiamare fratello, il nostro solitario arrampicare, e il voler brillare, e l’aver paura. Di chiamare peccato quello che ci divide e ci divora. Peccato contro l’uomo e contro Dio che vi dimora.

Avvenire, 14 giugno 2012

angeli

L’esser di moda li ha turbati. Tirati ora di qua e ora di là, quasi spiumati come margherite a cui si chiede mi ama o mi amerà.
Tutto il chiasso che si fa quaggiù, chissà se li ha distratti un po’ da chi li ha voluti, lassù. Voce di cura, che non si lascia certo confondere, ma se si vuol credere che ci si somigli, è meglio evitare il troppo interrogare.
Vanno e vengono come le nuvole chiare, senza mappa in cielo come in terra. Il loro è un far la ronda, con in fondo al cuore un piccolo, sospeso, fulgore. Affetto che brucia e non può restar segreto, come gli amori, come i nostri amori.
A bene ascoltare, li si sente vegliare, e a volte anche correre in grande affanno. E se non arrivano in tempo, anche un po’ singhiozzare. Chissà. Troppo stanchi per volare. Forse qualcuno è in ritardo perché aveva bisogno di dormire.
C’è chi non ci crede, anche fra quelli che li appendono ai muri e li collezionano in ceramica.
Ma senza di loro niente Annunciazione, né salvezza in Egitto per la famiglia divina, e chi avrebbe mangiato sotto l’albero con Abramo?
Siamo certo liberi di dubitare, ma come si legge nel libro di Tobia, sarà bello poi scoprire, fosse solo alla fine della vita, che uno degli arcangeli ci ha accompagnati, e che anche noi per gli altri un po’ arcangeli siamo stati.

Avvenire, 13 giugno 2012

nomi

Nessun nome nostro è solo nostro.
Alcuni nomi portano naturalmente e con grazia la memoria di un nonno, a volte uno stormo intero di antenati, e insieme l’eredità di un corpo che è stato: gli occhi blu malandrino di un bisavolo, le dita eleganti di un nonno, il ciuffo ostinato di uno zio.
Altri nomi tengono il capo di un filo di storie che non si lasciano dimenticare. Una santa poverella fatta grande dal suo credere e qualcosa di quel mistero sentiamo di portarlo. Oppure un re col suo corteo di guerre, e forse il nostro arco sempre teso è un ricordo del suo combattere. O sono storie di famiglia, un bisavolo impettito nel ritratto della leva, una nonna di cui sappiamo la grafia limpida come la traccia di una cometa e vien voglia di riordinare il mondo.
Altri nomi ancora portano un dolore dentro e a volte lo curano come un regalo che non si aspetta. Un nostro affetto è partito troppo presto, una vita nuova ci fa rinascere al domani e il nome è il tempo che si mescola all’eterno.
Certo veniamo da lontano e non è strano sentirsi un po’ abitati, forse anche accompagnati. Ma quando oggi il nostro nome viene chiamato, siamo noi che rispondiamo.
Ogni nostro nome è solo nostro per quel frammento di eternità nel quale ci appartiene.

Avvenire, 12 giugno 2012

specchi

Forse conoscono le nostre brame, ma di certo sono più esperti di paure.
Sono dappertutto: in camera, e ci sta, in bagno, e ancora va bene, in atrio, in salotto, dentro l’anta dell’armadio, dietro la porta del garage, in ascensore, in auto sul tergisole e quasi ci si scaravolta, negli astucci delle ragazze a scuola, e dei ragazzi per equità, e poi in borsa, in corsa sul tram dell’università, e nel cassetto del lavoro, e poi smilzo e stretto sul retro del rossetto, e della copertina dura di un diario, ancora di scuola, e nello zainetto, dove spenzola al passo, riflettendo a volte il cielo a volte la terra. Tutti lì a guardarsi, un vedersi senza gioia. Pauroso moltiplicarsi di un sé giovane e adulto e sempre più adulto e poi vecchio che non trova pace.
Un guardar solo se stessi. Il mondo intorno scorre, entra ed esce dal nostro vedere riflesso, ora un passante, talvolta un amante, più a lungo un figlio se viene. A tutto dar le spalle, senza parer di volere e come fosse normale.
E quel che appare e scompare alla fine è solo virtuale. È per me infine lo specchio, per la mia vita così curata, evitata, detestata, solo in frammento sentita.
Se gli specchi si rompono si parla di maledizione. Ma è più vero che si tratta di una liberazione. Cadono in terra e così finalmente il cielo lo vediamo.

Avvenire, 10 giugno 2012