l’incubo e la fiaba

CERTO che nelle fiabe i bambini vanno soli nel bosco, anche nella notte gelata di neve, ma la paura è poca poca, perché c’è la voce di mamma e papà, che legge, e racconta. E il freddo dei piedini è solo immaginato sotto il piumone e così pure le ombre degli alberi neri che ogni tanto di scatto liberano un ramo prigioniero del ghiaccio e lo sollevano in alto con un oscillare impaziente. Anche nei peggiori incubi dei genitori i bambini possono perdersi nel bosco, e qui immaginare è proprio vietato, pensieri che non si devono nemmeno far nascere perché ci portano l’inferno nel giorno che viviamo.

Ma chissà com’è il bosco vero nella notte vera, e anche nera, senza neve ma fredda lo stesso, agli occhi di una bambina e di un bambino veri. Cinque anni lui e quattro anni lei. Dodici chilometri hanno percorso i piedini dal giorno prima, e devono ben essere stanchi. Niente voce che racconta, nemmeno voci lontane, e questo può essere un gioco, almeno per un po’. E in due è possibile far molte cose che da soli proprio no. Si può dirsi l’un l’altro “non aver paura”, raccontarsi che di certo mamma e papà arriveranno, e che no, non era del lupo il soffiare troppo vicino che hanno sentito. E poi lui, il fratello “grande”, può aiutare lei a salire sul ramo largo di un albero, quasi un braccio che ripara. E in due c’è sempre la mano dell’altro da prendere se si ha paura. Essere fratelli è una gran bella cosa. E poi ci si può abbracciare, quando si è stanchi stanchi e rimane solo da aspettare.

Aspettare il miracolo che i nomi dei luoghi promettono: Madonna dell’Orso, Acqua del Piccione, Vallepietra. Nomi di fiaba. E poi anche la storia promette miracoli. Sono i boschi di San Benedetto questi. E anche questa notte particolare, fra l’anno che va e il nuovo che arriva, notte piena di promesse e di desideri e speranze. Solo una, per chi cerca questi bambini nel bosco, solo una.

Bambini che alla fine si abbracciano davvero e chissà se conoscere la storia di Hansel e Gretel li aiuta, ricordo di voci vicine che leggono, così vicine che si può sentire il caldo delle parole. Anche il caldo del ricordo può scaldare un pochino. E tante storie che ci hanno letto fanno un bel mucchio di ricordi. Poi c’è la storia di Pollicino, più solo di loro,e anche lui forse ha fame visto che il pane non lo mangia per niente.

Ma gli alberi sono così neri. Non sembravano così nei cartoni e nei film.

Poi arriva tutto insieme. La luce del giorno, le voci tante e si capisce subito che sono amiche. Il miracolo, insomma, di un anno nuovo iniziato così, con una storia lunghissima da raccontare, perché è lunga una notte nel bosco, ed è straordinaria e durerà tutta la vita il coraggio trovato chissà dove, proprio in fondo dentro la paura di bambini. Eppure sono minuscoli, fratello e sorella, fra le braccia di chi li ha trovati.

Incubo e fiaba insieme ma il finale è così lieto, come solo nella vita a volte ci è dato.

Su La Repubblica.it, 2 gennaio 2014.

Dieta mistica

Paradossale nell’età e nelle terre dell’opulenza il tempo speso a parlare di diete, a leggere libri di diete, ad acquistare “cibi senza” (grassi, zuccheri, calorie comunque) che costano più dei “cibi con”. A cercare la più “veloce”, a non temere dolori e allucinazioni. Diete-digiuno che ci seducono, parlano a qualcosa di profondo e insuperabile. Quanto tempo della nostra unica vita se ne va così?

In natura il digiuno non è una scelta. Può essere strategico: il letargo, per non disperdere le energie alla ricerca di cibo che d’inverno non c’è. Oppure necessario: si digiuna se non si trova di che mangiare. Oppure ancora è sintomo: non si mangia quando si sta male, nel corpo e nello spirito. E basta convivere con un animale da compagnia e lo si sa per certo che non solo di noi umani questo si può dire.

Anche se un po’ bisogna intenderci sui termini. Di certo tutti conosciamo l’inappetenza da dolore: inflitto, subito, temuto, pena d’amore. Solo per noi uomini il digiuno può esser scelta. A volte strumento, drammatico, di protesta: dalle suffragette che rifiutavano il cibo per affermare il diritto di voto, ai digiuni per i diritti civili nei nostri anni ancora così segnati dall’ingiustizia. Digiuno con valore politico e culturale e, spesso, strettamente cultuale, legato alla religione: nella forma attenuata dell’astensione da alcuni cibi oppure in forme più radicali che hanno attraversato anche la storia del cristianesimo portandosi appresso un sospetto di patologia.

Sì, perché il cibo è vita, benedizione, salute, ospitalità, allegria condivisa, dono di Dio, Dio stesso addirittura. Il profeta Ezechiele che mangia il rotolo della Parola è sia realtà dell’ uomo che assimila quel che Dio gli dà sia, visto dalla parte di Dio, un consegnarsi senza trattenere nulla di sé. Per questo gli ordini monastici e la tradizione della chiesa sono sempre stati prudenti sul digiuno. Gli eccessi erano sospettati di autocompiacimento, di un voler accampar meriti davanti a Dio. Oggi molte di quelle che chiamano diete somigliano a un laico, ostinato digiunare. Certo che la dieta non è un digiuno, in senso stretto. O almeno non dovrebbe esserlo. È un mangiar corretto. Come un mangiar corretto doveva essere quello di Adamo ed Eva. Tutto tranne il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Dieta di salute spirituale, molto prudente.

In realtà esercizio di fiducia in Dio: tutto bene è stato fatto nella creazione, possiamo fidarci di un divieto dal senso oscuro? La Bibbia è attraversata da cibi fatali. Se il frutto di Adamo ed Eva e il piatto di lenticchie di Esaù sono stati infausti, i pani e i pesci del Vangelo o la meravigliosa manna dell’ Antico Testamento, che si trovava al mattino nella misura giusta e non si poteva conservare per il giorno dopo, ci raccontano invece la bontà del cibo, vero e metaforico. La libertà di saper vivere il giorno che ci è dato nella fiducia di un pane che viene.

La dieta di oggi sembra il contrario, un digiuno appunto che è un giocar d’ anticipo per la paura del pane che non verrà. Forse perché non è venuto e temo che non verrà. Ho paurae allora lo rifiuto. Non verrà e allora non mi serve, angelo divento. Certo che nel parlare di cibo oggi si deve essere prudenti, perché anoressia e bulimia sono malattie vere, che devastano il corpo e lo spirito, se stessi e gli altri. Eppure, tutto intorno a questi abissi della malattia, c’è un collettivo “giocare con il pane” che, ci è stato detto fin da piccoli a tavola, non si fa, non si dovrebbe fare. Ma quale pane? Il pane-cibo o il pane-affetto? Se il primo affetto per tutti noi passa attraverso la cura del corpo, e attraverso il cibo che lo fa vivere, quando questo manca allora il rifiuto del cibo diventa insieme rifiuto del corpo e protesta, potere con cui punire chi il cibo non ha dato. O non abbastanza, senza colpa, o non nel momento giusto, per incapacità o impossibilità.

Forse qualcosa di quel che è capitato alle “sante anoressiche”, secondo l’ espressione di Rudolph Bell, può raccontarci un pezzo di noi. Il digiuno da “preghiera del corpo”, come era inteso dalla tradizione cristiana sia occidentale che orientale, diventa in loro un mezzo per esercitare il “potere attraverso il corpo”. Il controllo del corpo era una delle pochissime forme di potere in mano anche alle donne in un tempo di guerre sante e santi poteri maschili. E infatti sono soprattutto le donne a praticare l’ascesi del cibo nella storia passata, e anche recente: da S. Caterina da Siena (muore nel 1380) a Teresa Neumann (muore nel 1962, dopo aver vissuto per 35 anni di solo pane eucaristico). Una scelta che sfiora il sogno di anticipare, nel corpo fatto sottile quasi come l’ anima, la sua stessa incorruttibilità. Forse le donne lo conoscono per natura il potere del corpo. Che possono esser mangiate lo sanno da sempre. Esser cibo senza che sia una metafora. Lo sanno ben prima che il corpo lo insegni con la maternità. Il trattenersi dal cibo le sottraeva a questa storia scritta, sia nella realtà che nella metafora.

Anche oggi un sogno anoressico accompagna consapevolmente tanti giovanissimi e inconsapevolmente un po’ tutti, senza più guardare al genere. Le diete-digiuno che ammiccano dalle classifiche dei libri, dai reparti light dei supermercati, dalle vetrine tutte taglie-mini dei negozi, ci raccontano un desiderio ormai nostro. Forse ancora c’ entra il potere, che non sappiamo ben più dove risieda, ma certo non in noi. E c’ entra anche la fiducia, che non coltiviamo più, per paura. E certamente il corpo. Assillo presente oggi come nel medioevo. Una diversa, strumentale, malata, costruita e bugiarda devozione del corpo ci obbliga ancora. Corpo esibito, giudicato, rifatto, perfetto sennò rifiutato. Un’ossessione che ci rende giudicati e infelici. E allora forse proprio il corpo che ci occupa, invade l’ esistenza fino all’ ultimo interstizio, conquista il pensiero, ci impedisce la vita sociale, sempre visto con gli occhi degli altri e soppesato, non nostro, non alleato in quel che desideriamo, e noi a percepire ogni centimetro che deborda dalla cintura, dai pantaloni che pure vogliamo mettere stretti come tutti, proprio il corpo è il nemico. Un altro paradosso, e non solo del nostro oggi ma della vita tutta che è corpo in noi, di certo. Quale che sia la nostra speranza che ci porta oltre.

Così il tempo della dieta in forma di digiuno diventa un tempo del bisogno dei bisogni, quello dell’ affetto in forma di cibo, sentito potentemente e negato, per non sentirlo più un giorno. Fame d’ amore, di esser visti, amati, riconosciuti. Di potersi fidare e affidare a un futuro di pane che c’ è. La manna del credere. Ma se prevale la paura, ci resta allora il potere sul corpo. Pieni del proprio essere vuoti, nemici a se stessi per diventare forse finalmente amici, un giorno. Nella forma di una leggerezza sognata. E così, angeli diventiamo. Come le sante mistiche anoressiche. Leggerissimi da volare via.

Su La Repubblica.it, 28 giugno 2012

paura

Per paura la vita diventa un camminare sghembo. Scarto improvviso per non sfiorare il prossimo che rimane sconosciuto.
E scappare di sguardi con la paura al centro e tutto il mondo a confine. Incrociarsi in difesa senza incontrarsi.
Rinunciare al nuovo. Quiete che si cerca con affanno, a testa bassa, in un pensare inconsapevole e perpetuo a tessere fughe, da loro, da noi, da quel che potremmo avere e da quel che abbiamo.
Forse non perderemo un amore, perché non ci siamo fermati a viverlo. Forse l’unico incontro che ci raggiunge, e a cui scegliamo di non dedicarci, ci lascia graffi che fanno poco male e così scansiamo qualche ferita in questo calcare pesante il mondo. In fuga.
Serrare il pensiero senza la leggerezza curiosa degli occhi che vedono. Non sentire lo sciame dei sentimenti che ci moltiplica nelle vite di tanti. E le vite che ci toccano quel che basta per sentirle un po’ nostre. Meravigliosa umanità comune che la paura lascia per noi molesta e stridente.
Per paura si abbandona la battaglia buona del nostro bene. La relazione che ci fa persone, viste e riconosciute.
Si rinuncia a capire. Ci si separa. Si uccide. Ci si uccide.
Per paura si muore di paura.
Non aver paura ce lo deve dire un altro.
Insieme è nulla la paura.
Avvenire, 6 aprile 2012

la lotta quotidiana degli studenti timidi tra i banchi di scuola

Sono fuori moda i timidi, eppure ne vorremmo un bel po’ distribuiti a spaglio fra i ministeri, gli uffici,i negozi,i campi da calcioe anche le strade, perché no. A scuola li troviamo ancora. È quel rispondere in silenzio, come un batter le mani nel vuoto assoluto, senza onde e timpani che ci restituiscano voce. A scuola l’esser timidi è un camminar leggero solo agli occhi degli altri. La pesantezza è tutta nostra. Un grandinare di emozioni che ci lascia ogni momento contusi. A sentir la gravità dell’universo tutta addosso. Intenti solo a noi stessi, nostro malgrado, senza egoismo. Ad ascoltare il cuore che scoppia, a sorvegliare il respiro che ci manca. Pieni di dottrina che non si sa dire, di risposte che volano talmente veloci e lontane da sembrare mai state.

E questo abbassare il viso e non saper cosa sperare. Che non mi chiami, non mi veda, non senta, il maestro o la professoressa, il suono del desiderio sotto il mio mantello dell’ invisibilità. Desiderio di dire. Di esserci. Oppure invece sperare che lo senta. Infine sono qui. Esisto. E infatti capita. Il mio nome arriva un’ora o l’altra. Dev’essere così. Una lotta: che ne sanno quelli che parlano senza arrossire, visi eternamente pallidi o abbronzati, anche facce di bronzo qualche volta, che le date le ricordano, o le inventano, senza decenza, scaltri e abili, e vanno alla lavagna con l’andatura di un lanzo in vista del villaggio, che prendono a prestito senza resa le parole di tutti, suggerite, ricostruite, carpite, o anche solo studiate. Anch’io le ho studiate, ma non si vede.

La scuola attenta li vede bene i timidi e sa il loro diritto a voler diventare quel che sognano. Non promette quel che non può, ma certo può dar loro la parola per dirsi e una passione, felice dimenticarsi di sé perché finalmente altro ci ha innamorato e possiamo afferrare non qualsiasi possibilità, ma questa sì, è nostra. Un risorgere senza miracolo o magia, fatto di giusti spazi di attesa, di accanito rispetto, anche questo fuori moda, per la bella varietà di caratteri e personalità. Di attenzione a non umiliare. Di riconoscere e appunto chiamar per nome. Fuori dalla scuola i timidi spariscono. Perennemente assenti agli appelli, se per rispondere si deve gridare. Ma poi: timidi rispetto a chi? Rispetto al dominante, ovvio, spadroneggiare, gazzarra ipnotica che chiamiamo normalità? Non c’è colpa né virtù ad essere timidi. Ma non c’ è scampo, se intorno abbiamo sciami di arroganti, prevaricatori, esibizionisti, compiaciuti e noncuranti. Oppure solo distratti. Anche questi li abbiamo a scuola, prima. Nel nostro bel laboratorio di convivenza possiamo un po’ sdipanare la loro furia d’esserci alla faccia del mondo tutto. Trasformare la devozione per l’apparire in devozione per la vita. Ma ci servono tanti tanti alleati. Impiegati, commessi, guidatori, arbitri e giocatori. E ministri. Perché no.

Da La Repubblica, 11 febbraio 2012