il mondo nuovo

«Perché, come tutti sanno, i particolari portano alla virtù e alla felicità; mentre le generalità sono, dal punto di vista intellettuale, dei mali inevitabili. Non i filosofi, ma i taglialegna e i collezionisti di francobolli compongono l’ossatura della società» (22).

Il Direttore del Centro di Incubazione e Condizionatura di Londra Centrale (tutte le maiuscole al posto giusto) conosce bene la natura pericolosa dello sguardo largo sul mondo. Quel che conta è in ogni modo impedirlo, far sì che ci si contenti del proprio orizzonte circoscritto credendo che la vita sia tutta lì: collezionare non più (nemmeno) francobolli, che hanno una loro storica e artistica dignità, ma tristi like sotto una notizia falsa che dissemina frottole a spaglio, pietroni lanciati con traiettoria centrifuga che quando riusciamo a riprendere hanno già contuso mezzo mondo.

Aldous Huxley scrive Il mondo nuovo (Mondadori, Milano 1971) nel 1932 cioè quasi un secolo fa. Prevede un mondo dominato da un governo centrale che pianifica l’umanità attraverso un rigoroso controllo delle nascite secondo principi di eugenetica che portano ad avere individui Alfa e Beta evoluti e intelligenti, ma anche secondo il suo contrario, una precisa dis-genetica, perché altri individui, Gamma, Delta ed Epsilon sono condizionati nello sviluppo a diventare inferiori, variamente servi dei primi.

Il tutto avviene in provetta, si direbbe oggi. Abolita la gestazione naturale considerata primitiva e selvaggia. Un incubo, vien da dire, e del resto le distopie sono incubi. Eppure è un mondo che si pretende «felice», perché al condizionamento genetico segue quello psicologico e comportamentale per cui ciascun individuo è tranquillo al posto suo, non sente il desiderio di essere altro rispetto a quello che è.

E laddove qualche malinconia residua affiori, c’è il soma, una droga che condiziona l’umore e lo riporta con precisione alla «felicità» di tutti. Su questa felicità il controllo sociale e gerarchico è totale. Chi è inquieto è sospetto e va curato col soma.

Huxley sembra averne azzeccate poche di previsioni. Nessun governo centrale pretende di pianificare il nostro bene comune anzi, gli stati si sciolgono per effetto di mille regionalismi, l’eugenetica, se la si può chiamare così, è saldamente nelle mani dei singoli che esercitano semmai il capriccio individuale e non la pianificazione sociale. Ma in questo libro il genio, e anche il diavolo, sta nei dettagli.

Ad esempio il Direttore del Centro di incubazione e condizionamento spiega che gli embrioni vengono condizionati precocemente ad amare il freddo oppure il caldo a seconda della destinazione futura degli individui che diventeranno. «E questo è il segreto della felicità e della virtù: fare in modo che la gente ami la sua inevitabile destinazione sociale» (32).

Oggi se la nostra inevitabile destinazione sociale è poter produrre per poter acquistare quel che si produce e poter continuare a produrre altrimenti tutto implode, bisogna che si ami profondamente il lavoro, anche se tremendo e alienante, e infatti diventa piacere e quasi felicità se la sua mancanza è il male assoluto. Senza lavoro non sono nessuno, non sono socialmente accettabile, sono povero e rifiutato. La mancanza di lavoro come stigma irredimibile. E tutti amiamo la nostra inevitabile destinazione sociale di lavoratori purchessia.

Sempre il Direttore a proposito del condizionamento a odiare la natura: «Le primule e i paesaggi hanno un grave difetto: sono gratuiti. Si decise di abolire l’amore per la natura, almeno nelle classi inferiori» (37). Come si decise di abolire anche i giochi semplici che non aumentano i consumi. Un apposito Controllore è deputato ad approvare solo giochi che abbiano una quantità di accessori almeno uguale a quella del più complicato dei giochi esistenti (43).

Il mondo nuovo ha abolito anche il tempo libero: era stato sperimentato in Irlanda, tre ore libere al giorno, ma queste «furono così lontane dall’essere fonte di felicità, che la gente si vide costretta ad andarsene in vacanza per sfuggirle» (201).

E oggi? Il tempo libero potrebbe diventare un pericolosissimo spazio di pensiero, consapevolezza di quel che siamo, che davvero desideriamo, perché si sa benissimo, in fondo, che così non va, anche perché il lavoro slegato dalla realizzazione di sé, lavoro per il lavoro, è funzionale alla logica dell’accumulo da parte di pochi che di questo lavoro fanno le pietre squadrate delle loro ziqqurat di potere e denaro. Ma il tempo libero è occupato ad autodistruggersi nel lavoro del divertimento programmato. Un soma raffinato, distrattore permanente.

E poi ci sono i libri, nel libro di Huxley. C’è il condizionamento dolorosissimo (a suon di traumi acustici e di scosse elettriche) a odiare la lettura, necessario a impedire alle «caste inferiori di sprecare tempo della Comunità con i libri, che c’era sempre il rischio che essi leggessero qualcosa capace di alterare in modo non desiderabile uno dei loro riflessi» (36).

I libri sono pericolosi, conoscere la storia è pericoloso, il dolore è pericoloso per cui non si esce di casa al mattino se non con scorte sicure di soma, lo si offre prima che un fastidio possa inquietare chi ci sta vicino, lo si usa per fare l’amore, alla fine del proprio lieto e necessario lavoro, prima che la noia ci sfiori, prima che… «Tutto era agitazione armoniosa e attività ordinata» (26).

Chi ci salva? Una piccola risposta Huxley la dà.

Da Il Regno, 15 dicembre 2017

i racconti della signora Dele

La signora Dele è nata a Vicenza nel 1854 e prima di cominciare a savariare (dir questo e quello in modo confuso), a dimenticare nomi e circostanze, cosa che è capitata più o meno intorno al 1938, ha vissuto, osservato, ascoltato e graziealcielo ha parlato.

Neri Pozza (Una città per la vita, Mondadori 1979) raccoglie i racconti della signora Dele e senza ordine o progetto ci fa attraversare Vicenza, dal quartiere (allora) poveretto dei Carmini, dove la signora Dele è nata, fino alla bella zona di Ponte San Michele, dove va ad abitare già molto «grande» e dove la lasciamo savariare alla fine del libro. E insieme a Vicenza attraversiamo la storia.

Nei racconti della signora Dele ci arriva addosso la viscerale intensità con cui gli eventi che si studiano sui libri stritolano le vite normali, comuni – come se esistesse qualcosa di diverso dalle vite comuni –. Un fronte quotidiano di combattimento a testa bassa e denti stretti, di solito senza cronisti e storici a farne memoria nobile.

La signora Dele ha una parlata bella e viva. E la sua memoria è strepitosa. Ricorda tutto con nome, cognome, soprannome. Son personaggi vicentini che riconosciamo. Ne han combinate di tutti i colori, di belle e di brutte, ma lei racconta dalla posizione di chi ha «persi i veleni» (7). Senza l’urgenza della rabbia o dello sdegno. È una lezione di letteratura.

Quando si può raccontare il vero? Quando l’urgenza dei sentimenti trova la giusta distanza e solo allora la scrittura può essere libera e feroce nel leggere i fatti, belli stagliati contro il confuso delle emozioni passate.

La signora Dele non ha studiato a scuola e «del resto un signor che leze tanto – solo i siori trova il tempo! – altro no’ fa che passare da una confusione all’altra» (12) e però tiene lezioni gratuite di economia delle risorse: «Voialtri (…) siete gente che prende le modernità per la parte buona, mettete in conto quel che guadagnate – e si vede – e mai quel che perdete – e subito magari non si vede» (13).

Ricorda tutto con la precisione di chi sa quel che è importante: gli anni delle epidemie di colera, il numero dei malati e dei morti dell’epidemia che lei aveva visto con i suoi occhi, nel 1886, il costo complessivo per la città; gli scioperi del 1873 e 1896, quando aveva spiegato al padrone delle manifatture per cui lavorava fin da quasi bambina che le ragioni delle lavoratrici erano sacrosante; l’inverno del gelo del 1928/1929.

La signora Dele è una donna che vuole essere vera: «Le pareva giusto vivere intonata nella società dei poveri, difendendo con orgoglio il suo istinto di giustizia. In sostanza trattava con la medesima naturalezza parenti e amici, il parroco della parrocchia, il senatore Cavalli (uno dei Mille di Garibaldi), che abitava a cento passi da casa sua, Giacomo Zanella e suo compare Artemio» (9).

È impressionante il numero e la qualità di nomi che vivono nelle sue parole, Giacomo Zanella, Antonio Fogazzaro, il conte Angarano, Paolo Lioy, per dire.

E poi ci sono i preti. I preti di Vicenza sono buoni e cattivi ma soprattutto ci sono. La signora Dele racconta per filo e per segno quelli che contano, cioè quelli che sono stati vicini ai poveri. Come don Roberti, della parrocchia dei Carmini, arrivato all’ordinazione con una dote grande e ricca come quella «di una fiola che sposa un principe» (40), dote che con discrezione e umiltà ha distribuito ai poveri lungo tutta la vita.

Nella sua parrocchia c’erano le reverendissime suore Canossiane, tutte dedite all’apostolato delle fanciulle ricche della Vicenza impaludata, e anche un «casin», nella contrà Corpus Domini, quando si dice il destino dei luoghi e dei nomi.

Il «casin» lo faceva disperare, ma anche le suore e però anche se non poteva fare nulla contro le «badrasse» del «casin», almeno «era sicuro che il nobile collegio delle Canossiane si sarebbe messo al passo coi tempi e la madre superiora avrebbe abbassato la cresta delle sue grandessate» (40).

Invece no, la madre superiora gli fa trovare un qualsiasi pretino a celebrare la messa al posto suo la domenica, nelle beghe viene coinvolto il vescovo ma quando questo chiama don Roberti «il prete non ebbe paura. Disse quel che doveva dire del collegio e della educatrice e tornò in parrocchia muto» (42).

Da Natale a Pasqua non capita niente e don Roberti non parla. Con la Pasqua tutto si «s-ciara» (si schiarisce) e si pensa che i due abbiano fatto pace. Va a benedire le case della parrocchia, si strugge di non poter benedire il «casin» come ogni anno e si arriva a Pentecoste. Alla predica di Pentecoste, misteriosissimo evento di fuoco parola.

E durante la predica, dopo aver «dato una tiratina alla pianeta, che gli cascasse bene davanti» e aver detto che «questo è un grande anniversario, il giorno in cui il Signore manda ai suoi apostoli lo Spirito, cioè il fogo, che sarìaquello che cambia la testa ai òmeni» (il fuoco che cambia la testa agli uomini), don Roberti si libera da un gropo(nodo) in gola «che bisogna che me lo cava prima che “l me sofega”. Quest’anno in due posti non son entrà a benedire le case: dalle putane in casin via Corpus Domini e dalle Canossiane» (43).

E poi via con la predica di Pentecoste: «El fogo dello Spirito Santo, sui apostoli per insegnargli che il mondo è grande e devono partire per predicare alle genti la buona novella» (44). Ecco. E la siora Dele sorrideva soddisfatta.

Da Il Regno15 ottobre 2017

il chierico provvisorio

Virgilio Scapin è stato scrittore, libraio, gran maestro e priore della Venerabile confraternita del bacalà alla vicentina, fine e impertinente osservatore della sua città e della campagna che la circondava e che raccontava nei suoi libri con ironia divertita, senza malevolenza o giudizio. Alla storia bastava la sua messa in scena. Il chierico provvisorio (Longanesi, Milano 1983) racconta la sua vocazione mancata. Siamo a Vicenza, il fascismo guida con decisione la rovina dell’Italia, la piccola borghesia operosa che ci ha creduto troppo, ma senza entusiasmi particolari, si attorciglia per sfangarla fra cambiali e topi che rosicchiano la roba.

È un romanzo che ci restituisce un mondo. Dopo un incidente in cui si è maciullato i piedi e distrutto la spina dorsale mentre era fuochista alle Tramvie vicentine, il padre del protagonista è liquidato «con una manciata di castagne» (14) e faticosamente diventa proprietario di un magazzino di generi alimentari: «Nel mezzo del primo stanzone (il magazzino ne aveva due contigui) campeggiava con le zampe poggiate su quattro mastelli di crauti, un enorme coccodrillo di cartapesta, il dorso trafitto da una lancia. Qui era appeso un cartello: “prodotti coloniali”» (13).

È il 1935 e il coccodrillo fa il suo ingresso quando i soldati italiani sbarcano in Eritrea e Somalia e «a dar credito alle autorità, c’era solo da allargare le botteghe e da arruffianarsi gli importatori» (13). Poi arrivano le sanzioni internazionali, di prodotti nemmeno l’ombra e il coccodrillo finisce preso a calci dal padre furioso.

Il piccolo Beato Serafini, si chiama proprio così, va alla scuola privata del patronato, dai padri Giuseppini. Costa e quindi è frequentata dai figli dei ricchi e proprio perciò il padre lo iscrive lì, perché «dai ricchi c’è sempre qualcosa da imparare» (22). Solo che a frequentare i ricchi può capitare che si finisca col vergognarsi delle dita sporche di unto con cui il padre firma i bei voti e dell’odore che resta attaccato ai quaderni. La ribellione necessaria dell’adolescenza si manifesta attraverso il violento rifiuto degli odori legati al lavoro del padre: baccalà bagnato, salamoia, formaggio, orina di gatto, aringa, sudore. Beato non riesce a stargli vicino, vomita, lo credono ammalato e così si rifugia nella chiesa del patronato, dove fra profumo di cera, lino, incenso lascia passare il tempo finché dalla finestra entra il colore della sera.

Così lo nota padre Silvio dalla pelle chiara e dalle mani magre «ma piene di dolcezza, fatte per toccare l’ostia consacrata» (57). Nello spazio di un breve colloquio fra padre Silvio e suo padre, durante il quale la madre scappa e la nonna gli promette di comprargli la tonaca, il piccolo Beato si convince «davvero di essere votato a Dio» (65).

Per qualche anno la vita di collegio, nelle campagne vicentine, è solo sfiorata dalla guerra. Per Beato la guerra arriva prima attraverso le visite del padre: «Povero papà! Era diventato magro, la giacca gli cadeva sulle spalle e i suoi occhi avidi e curiosi s’erano fatti spiritati… Lavorava come una bestia per tirare avanti e io avrei dovuto aiutarlo» (75). Poi attraverso la fuga precipitosa dal collegio, di notte, quando il pericolo non arriva ormai più dai tedeschi in fuga che ignorano quel gruppo di ragazzotti in tonaca, ma da un gruppo di partigiani che invece qualche tentazione anticlericale ce l’avrebbero.

Finita la guerra la formazione riprende. La vita di collegio piena di disciplina e di fame, fra superiori pieni di umanità oppure solo accomodati in un mestiere. Si parla di una certa avidità dei padri che tenevano nascosto ogni ben di dio mentre i novizi si ammalavano d’inedia, oppure di due compagni di vocazione sorpresi, loro stessi sorpresi, da emozioni cui non sanno dare il nome e allontanati in gran segreto. Non c’è giudizio su nessuno. Così è il cuore dell’uomo.

Irresistibile (da insegnante leggevo ad alta voce a scuola queste pagine quando arrivavo al 1948 in storia) è il racconto di come i novizi hanno vissuto le prime elezioni dell’Italia repubblicana. La sera prima delle elezioni i novizi sono convocati dal padre direttore: «Domani figlioli sarà un giorno difficile per la nostra madre patria. Si svolgeranno le elezioni politiche e noi dovremo pregare intensamente perché gli anticristi non vincano e scatenino la rivoluzione. Estote parati. Pregate nel vostro cuore perché se necessario, Dio vi infonda la fortezza dei martiri e salvi la Chiesa» (232).

Il giovane Beato Serafini la mattina del 18 aprile si lava, si cambia e mette abiti nuovi adatti al martirio, scrive due testamenti, uno materiale e uno spirituale e aspetta, lo sguardo rivolto al cancello che dà sulla campagna perché certamente da là gli ugonotti sarebbero arrivati a infilzare i chierici.

Sappiamo com’è andata. Beato Serafini non muore martire ma con un movimento lento di progressivo sbiadirsi del fervore, perde la vocazione e torna a casa, a piedi, con la sua valigia pesante. Lungo la strada si ferma in un’osteria di campagna e mangia pane intinto nel vino bianco. Una piccola ebbrezza. La vita è una e tutto si tiene. La campagna intorno è diventata come un mare verde. Beato immagina di poterla «percorrere in lungo e in largo, disteso sull’erba, all’ombra dei gelsi» (319).

Da Il Regno, 15 giugno 2017

il digiuno culturale. Perché quella del tempo è una scusa che non regge

«BEATA TE che hai tempo di leggere, andare a teatro e al cinema». Doppia bugia. Leggere non è questione di tempo. Un moderno romanzo sul tempo perduto (o solo perso?) occuperebbe più dei sette volumi della Recherche. Vagabondari su internet e tv dal far del giorno a notte fonda, in treno, sul bus, a piedi, in macchina. E farfugliamenti immortalati su WhatsApp: Dove sei? alla fermata, sei in ritardo, la vedo arrivare, cosa? la metro, ah, sì, bene, non c’è più campo, uffa, ecco adesso è tornato, cosa? Il campo.

Il report annuale 2015 di We are social racconta che mediamente gli italiani passano quattro ore e 28 minuti su internet, due ore e 30 minuti su piattaforme social, due ore e 39 minuti davanti alla tv. I più teledrogati d’Europa. Dentro a questo oceano di ore un libro all’anno o uno spettacolo teatrale non sono questione di tempo. Ed è una bugia anche la faccenda dell’esser beati. Fosse vero, qualche lettore in più ci sarebbe. Chi pronuncia quella frase mente non sapendo di mentire. Perché confusamente, in fondo, crede abbastanza che la cultura sia una cosa buona e infatti chi non legge non fa campagne contro quello stravagante fenomeno per cui esistono persone che leggono, mentre si può vivere anche senza farlo risparmiando così tempo e soldi.

Cultura e potere hanno viaggiato insieme a lungo e chi non frequenta libri e giornali soffre ancora di un moderato disagio. Poco poco, perché il potere si sta emancipando con fiera baldanza dalla cultura e da Tremonti in poi si sa che «con la cultura non si mangia» e ormai non esser laureati è quasi un requisito per far carriera politica.

E allora se non è questione di tempo, è questione di scelta non leggere, non andare a teatro, al cinema, al museo? Si fa altro semplicemente perché altro ci rende più felici? Fosse vero. Quanta parte della nostra vita è uno scivolare inconsapevole portati dall’aria che tira e da infiniti concorsi di colpa. A parte la scuola, e infatti l’Istat ci dice che sono proprio i bambini e i ragazzi i principali fruitori culturali, non c’è molto del nostro ordinario mondo quotidiano che racconti che la cultura è importante. Librerie intasate da libracci che gli editori pubblicano alla ricerca del botto che salva i bilanci di un semestre invece di coltivare il gusto e la passione di lettori fedeli, biblioteche e teatri che chiudono per i tagli che sulla cultura, pazienza, si possono fare, politici che un libro in mano mai e la cultura è solo la sera della prima alla Scala. C’è una simbolica dei gesti, delle parole, degli spazi e delle azioni che racconta quel che davvero interessa a una società. Le parole sono inganno senza questa materialità che dice il loro valore. L’amore per la cultura non nasce nel deserto della cultura. Ci sono strade istituzionali già percorse e sperimentate. In Francia, Gran Bretagna, Usa, chi vuole scrivere un libro può chiedere una borsa di studio o accedere a una residenza per scrittori, a Praga la metro è tappezzata di pubblicità di libri e gli studenti vanno a teatro e ai concerti con abbonamenti dal costo simbolico. Ogni Paese ha le sue storie. La nostra dice che libri, musei e teatro sono per ora cose di scuola. Non basta, ma graziealcielo c’è la scuola.

Su La Repubblica.it, 13 gennaio 2016.