Piccolo mondo antico

«Non sento più niente. Sono un sasso» (326). A parlare è Luisa Rigey, la protagonista di Piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro (Rizzoli, Milano 2022). È già capitato tutto. Luisa ha sposato cinque anni prima Franco Maironi, nobile, patriota, diseredato dalla tremenda nonna a causa di questo matrimonio sconveniente sul piano economico e del prestigio sociale. Ha avuto da lui una bellissima amatissima bambina di nome Maria, che la maggior parte di noi ricorda come Ombretta, perché abbiamo visto lo sceneggiato a puntate che la RAI ha realizzato dal romanzo (con Paola Borboni, Giorgio Albertazzi voce narrante), e perché il gioco con il nome c’è nel libro, bello, dolce e ripetuto: Ombretta sdegnosa / del Missipipì / non far la ritrosa / e baciami qui.

E poi, questa sua bambina, Luisa l’ha anche persa, annegata nel lago di Lugano in un momento che i tedeschi chiamerebbero spannung, intraducibile in italiano. Spannung vuol dire tensione, ma viene da spannen, che significa stringere, tendere, tirare. Si sta con il cuore stretto, tirato da un evento che sta capitando inesorabilmente, tremendo, eppure non lo si può evitare. Destinato. Necessario quasi.

Scritto. Molto più della suspense. Non ha a che fare con il giallo, ma con il divino. O così viene presentato in questo romanzo che è straordinario per la capacità d’intrecciare in modo assolutamente naturale la vita personale, sentimentale, famigliare, con le vicende politiche, con le passioni religiose più profonde e con tutto un mondo di umani adattamenti, miserie personali, piccole prepotenze, minuscoli privilegi che costituiscono sempre il tessuto su cui poggia il potere, soprattutto se è potere dispotico, usurpazione e prevaricazione.

La storia si colloca fra il 1854 e il 1859, dopo il fallimento del Quarantotto e appena prima della nuova guerra che la storia ha chiamato d’Indipendenza. Il piccolo mondo è quello della Valsolda, l’estremo confine del Lombardo-Veneto.

Franco Maironi è apertamente liberale e visto con sospetto dal potere austriaco. È poeta, amante dei fiori, che coltiva con dedizione, musicista. Credente. In questo mondo sono tutti più o meno credenti, perché esserlo è parte del gioco fondamentale delle appartenenze. Ma Franco lo è davvero, in modo indistinto dal suo essere patriota, e innamorato di Luisa, e romantico.

È costitutivamente credente, ha «la tranquilla fede di un bambino» (52). Incrollabile, qualsiasi cosa capiti, anche la morte di una figlia. Sua moglie Luisa no. Nel senso che vorrebbe, ma non può. La madre sua amatissima «era vissuta piuttosto per il mondo futuro che per questo, e si era governata in ogni azione, in ogni parola, in ogni pensiero secondo quel fine» (113).

Le idee di Luisa invece «avevano preso un altro corso con la risolutezza vigorosa ch’era nel carattere di lei» e «s’era venuta inclinando a non guardare oltre la vita presente, e insieme a non guardare a sé, a vivere per gli altri, per il bene terreno degli altri, però secondo un forte e fiero senso di giustizia» (113). Giustizia che intorno a lei era in mille modi tradita proprio da chi si professava credente.

La rassegna dei devoti è così tremenda e insieme acuta che potrebbe essere usata ancora oggi come casuistica quasi senza cambiare una parola. La signora marchesa nonna di Franco imponeva quotidianamente la recita del Rosario a chiunque fosse in casa e diceva «le soavi parole Ave Maria, gratia plena con quella flemma e quella untuosità, che sempre (gli) mettevano in corpo una tentazione indiavolata di farsi turco» (53).

Il curato di Puria (paese della Valsolda) era «rubicondo, con una pancia gloriosa, un gran cappello di paglia nera, il sigaro in bocca» (27s) e un’irresistibile inclinazione a farsi invitare a pranzo in compagnie eminenti. Ancora la marchesa la sera stessa della morte della nipotina nel corso di una «conversazione fiorita» (312) catechizza gli ospiti: «Mi rincresce per la creatura, ma per suo padre e sua madre è castigo di Dio», subito confermata dal curato di Cima (altro paese) lì presente: «Evidente» (315).

E su questa morte bambina Fogazzaro scrive i dialoghi più belli e autenticamente teologici del romanzo. Perché la morte di Maria è venuta proprio nel momento in cui la mamma la lascia a casa, sola, per andare dalla marchesa a contestarle una grave vergognosa ingiustizia che l’aristocratica vecchia ha compiuto contro il nipote.

E così agli occhi di tutti la morte della piccola può essere letta come superiore giustizia divina, imperscrutabile disegno che annienta ogni tentativo di giustizia terrena che si compia lontano dal trono di Dio. Così lineari appaiono i fatti, e i tempi s’incastrano quasi come una sentenza. Anche Franco lo crede: «Iddio aveva preso la bambina per toglierla agli errori del mondo, aveva punito Luisa degli errori suoi» (309), ma lui dopo il pianto e la disperazione, sente Dio vicino, «gli parve che il Signore gli dicesse: ti addoloro ma ti amo, aspetta, confida, saprai» (309).

Invece per Luisa è tutto solo buio. Se Dio c’è, è «Onnipotenza malvagia» (310) e basta. Luisa è una figura potente e tragica che non conosce consolazione.

Fogazzaro non pacifica il quadro della storia. La marchesa resta orrenda anche quando la sua cattiva coscienza sembra portarla a un ravvedimento. Luisa resta disperata. È interessante che le due vite, ormai separate, trovino in extremis, proprio nell’ultima pagina, una forse provvisoria ricomposizione sul terreno umanissimo dell’umanissimo amore di Franco per Luisa. Amore che in qualche modo si lascia intuire assoluto. E la vita può continuare.

Il Regno – attualità, 15 aprile 2023.

che cos’è la fede cristiana? La poetica e la fede di Flannery O’Connor

Quando si scrive di Flannery O’Connor si comincia e si continua e poi si finisce con ampie citazioni di Flannery O’Connor stessa, come se di lei potesse parlare solo lei. Una figura per cui mancano categorie e bisogna accogliere quelle con cui lei si consegna, tranchant e libera fino all’impertinenza: «Vedo le cose dal punto di vista dell’ortodossia cristiana. Questo significa che per me il significato della vita è accentrato nella nostra redenzione attraverso Cristo e quello che vedo nel mondo lo vedo in rapporto a questo». Nel suo Diario, a poco più che vent’anni pregava Dio affinché i principi cristiani permeassero la sua scrittura (cf. Regno-att. 10,2016,295).

È raro trovare professioni di poetica così determinate e allora vien naturale cercare nelle sue narrazioni (poche, due romanzi e una manciata di racconti) qualcosa d’intimamente militante, un storia in cui pur nella congestione delle azioni e dei gesti e degli eventi alla fine il male non sia l’ultima parola. Perché, vien da dire, è questa la fede cristiana, giusto? Che il male non è l’ultima parola.

Così seguiamo Hazel Motes, il protagonista de La saggezza nel sangue (Garzanti, Milano 2010) appena rilasciato dall’esercito, mentre viaggia in treno verso Taulkinham, cittadina che alla fine del romanzo ci è entrata dentro come una pece che incolla i piedi ai marciapiedi e la fatica di percorrerli dice tutta l’assurdità di tentare di vivere.

Eppure Hazel li percorre e di volta in volta sceglie le persone e le situazioni che gli arrivano incontro e così s’accompagna a un’orribile prostituta il cui indirizzo ha visto per caso nel bagno della stazione, accolto in casa sua, e  poi insegue un predicatore finto cieco che chiede l’elemosina e lascia che la sua figlia quasi bambina si infili nel suo letto, e acquista un’automobile che vede come materiale promessa di arrivare dritto esattamente ovunque, lancia la sua predicazione della Chiesa della verità senza Gesù Cristo crocefisso dal tetto di questa automobile aspettando i proseliti all’uscita delle sale cinematografiche, distratti luoghi di missione che la modernità gli concede, incrocia il giovane Enoch guardiano dello zoo, segreto adoratore di una mummia di omuncolo custodita in una teca precaria del museo, sicuro come Hazel, sicuro di una missione da compiere, forte di una saggezza che gli dà il suo sangue perché «aveva il sangue che la sapeva lunga» (69).

C’è da dire che ci si dimentica subito di cercare tracce di principi cristiani perché le non-avventure di Hazel sono così bizzarre che pagina dopo pagina le si insegue trascinati senza pensieri e senza quasi attese, portati solo a vedere dove va a finire. E finisce che Hazel ucciderà l’uomo che aveva trasformato in business il suo sincero predicare dal tetto dell’auto. Falso nell’assurdo vestito azzurro che aveva copiato da Hazel, e nel predicare funzionale solo a truffare gli ascoltatori. Lo investirà con l’auto sacramento di salvezza, con determinazione, passando e ripassando sul suo corpo.

Tutto ciò che di esplicitamente religioso troviamo nel libro è tremendo e insopportabile. Il religioso si sottrae completamente al racconto e lascia esistere un mondo che si agita violento o miserabile senza che niente, ciascuno si agita truffaldino o sincero per arrivare alla fine di una giornata senza promessa.

Ma quando Hazel Motes uccide il profeta impostore che aveva sfruttato commercialmente la sua autentica furia predicatoria e ci sembra un mostro, allora viene in mente il suo incontro, nelle prime pagine del romanzo, con l’orribile signora Wally Bee Hitchcock che, seduta di fronte a lui nello spazio angusto del compartimento a cuccette, lo soffoca di ovvietà infilate in sequenza feroce: le prime luci della sera sono «il momento più carino» del giorno (11); «il tetto natio è il paradiso in terra» (13) e siamo sicuri che è quella signora sicuramente devota e perbene a cui Hazel Motes dice «sicuramente si crede d’esser stata redenta» il vero mostro.

Una vita di devozioni, sacre riunioni, quelle giuste non una di più, e niente nessun pensiero e nessuna azione è stata redenta, è diventata libera. Divina e quindi libera. E insieme a lei migliaia di cristiani che hanno pensieri banali disseminati in copia conforme a quelli di tutti, intorno.

In che cosa è cristiano questo romanzo di Flannery O’Connor? Ce lo dobbiamo chiedere perché lei questo voleva scrivere, romanzi cristiani. Forse nella perfetta operazione di lasciare intatto il mistero di un mondo che in nessuna sua parte appare redento. Gesù nasce e gli innocenti sono passati di spada dagli uomini di Erode. La notizia non è che il male è finito. Il mondo è quello che è. Non si crede e allora la propria vita viene consolata.

Non si crede sperando che la propria vita venga consolata. Non si crede per eliminare il male dal mondo. Si crede e la vita è quella che è, piena di oscurità, non senso, violenza. Credere non apre la porta del paradiso in terra. Si è cristiani proprio malgrado, incollati a Cristo. Come Hazel Motes che passa le giornate e le notti inseparabile dal Cristo che deve continuamente chiamare in causa nel suo ossessivo predicare la Chiesa della verità senza Gesù Cristo crocefisso, Chiesa nemmeno nominabile senza Cristo nel nome.

Da Il Regno, 15 maggio 2018.

Dieta mistica

Paradossale nell’età e nelle terre dell’opulenza il tempo speso a parlare di diete, a leggere libri di diete, ad acquistare “cibi senza” (grassi, zuccheri, calorie comunque) che costano più dei “cibi con”. A cercare la più “veloce”, a non temere dolori e allucinazioni. Diete-digiuno che ci seducono, parlano a qualcosa di profondo e insuperabile. Quanto tempo della nostra unica vita se ne va così?

In natura il digiuno non è una scelta. Può essere strategico: il letargo, per non disperdere le energie alla ricerca di cibo che d’inverno non c’è. Oppure necessario: si digiuna se non si trova di che mangiare. Oppure ancora è sintomo: non si mangia quando si sta male, nel corpo e nello spirito. E basta convivere con un animale da compagnia e lo si sa per certo che non solo di noi umani questo si può dire.

Anche se un po’ bisogna intenderci sui termini. Di certo tutti conosciamo l’inappetenza da dolore: inflitto, subito, temuto, pena d’amore. Solo per noi uomini il digiuno può esser scelta. A volte strumento, drammatico, di protesta: dalle suffragette che rifiutavano il cibo per affermare il diritto di voto, ai digiuni per i diritti civili nei nostri anni ancora così segnati dall’ingiustizia. Digiuno con valore politico e culturale e, spesso, strettamente cultuale, legato alla religione: nella forma attenuata dell’astensione da alcuni cibi oppure in forme più radicali che hanno attraversato anche la storia del cristianesimo portandosi appresso un sospetto di patologia.

Sì, perché il cibo è vita, benedizione, salute, ospitalità, allegria condivisa, dono di Dio, Dio stesso addirittura. Il profeta Ezechiele che mangia il rotolo della Parola è sia realtà dell’ uomo che assimila quel che Dio gli dà sia, visto dalla parte di Dio, un consegnarsi senza trattenere nulla di sé. Per questo gli ordini monastici e la tradizione della chiesa sono sempre stati prudenti sul digiuno. Gli eccessi erano sospettati di autocompiacimento, di un voler accampar meriti davanti a Dio. Oggi molte di quelle che chiamano diete somigliano a un laico, ostinato digiunare. Certo che la dieta non è un digiuno, in senso stretto. O almeno non dovrebbe esserlo. È un mangiar corretto. Come un mangiar corretto doveva essere quello di Adamo ed Eva. Tutto tranne il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Dieta di salute spirituale, molto prudente.

In realtà esercizio di fiducia in Dio: tutto bene è stato fatto nella creazione, possiamo fidarci di un divieto dal senso oscuro? La Bibbia è attraversata da cibi fatali. Se il frutto di Adamo ed Eva e il piatto di lenticchie di Esaù sono stati infausti, i pani e i pesci del Vangelo o la meravigliosa manna dell’ Antico Testamento, che si trovava al mattino nella misura giusta e non si poteva conservare per il giorno dopo, ci raccontano invece la bontà del cibo, vero e metaforico. La libertà di saper vivere il giorno che ci è dato nella fiducia di un pane che viene.

La dieta di oggi sembra il contrario, un digiuno appunto che è un giocar d’ anticipo per la paura del pane che non verrà. Forse perché non è venuto e temo che non verrà. Ho paurae allora lo rifiuto. Non verrà e allora non mi serve, angelo divento. Certo che nel parlare di cibo oggi si deve essere prudenti, perché anoressia e bulimia sono malattie vere, che devastano il corpo e lo spirito, se stessi e gli altri. Eppure, tutto intorno a questi abissi della malattia, c’è un collettivo “giocare con il pane” che, ci è stato detto fin da piccoli a tavola, non si fa, non si dovrebbe fare. Ma quale pane? Il pane-cibo o il pane-affetto? Se il primo affetto per tutti noi passa attraverso la cura del corpo, e attraverso il cibo che lo fa vivere, quando questo manca allora il rifiuto del cibo diventa insieme rifiuto del corpo e protesta, potere con cui punire chi il cibo non ha dato. O non abbastanza, senza colpa, o non nel momento giusto, per incapacità o impossibilità.

Forse qualcosa di quel che è capitato alle “sante anoressiche”, secondo l’ espressione di Rudolph Bell, può raccontarci un pezzo di noi. Il digiuno da “preghiera del corpo”, come era inteso dalla tradizione cristiana sia occidentale che orientale, diventa in loro un mezzo per esercitare il “potere attraverso il corpo”. Il controllo del corpo era una delle pochissime forme di potere in mano anche alle donne in un tempo di guerre sante e santi poteri maschili. E infatti sono soprattutto le donne a praticare l’ascesi del cibo nella storia passata, e anche recente: da S. Caterina da Siena (muore nel 1380) a Teresa Neumann (muore nel 1962, dopo aver vissuto per 35 anni di solo pane eucaristico). Una scelta che sfiora il sogno di anticipare, nel corpo fatto sottile quasi come l’ anima, la sua stessa incorruttibilità. Forse le donne lo conoscono per natura il potere del corpo. Che possono esser mangiate lo sanno da sempre. Esser cibo senza che sia una metafora. Lo sanno ben prima che il corpo lo insegni con la maternità. Il trattenersi dal cibo le sottraeva a questa storia scritta, sia nella realtà che nella metafora.

Anche oggi un sogno anoressico accompagna consapevolmente tanti giovanissimi e inconsapevolmente un po’ tutti, senza più guardare al genere. Le diete-digiuno che ammiccano dalle classifiche dei libri, dai reparti light dei supermercati, dalle vetrine tutte taglie-mini dei negozi, ci raccontano un desiderio ormai nostro. Forse ancora c’ entra il potere, che non sappiamo ben più dove risieda, ma certo non in noi. E c’ entra anche la fiducia, che non coltiviamo più, per paura. E certamente il corpo. Assillo presente oggi come nel medioevo. Una diversa, strumentale, malata, costruita e bugiarda devozione del corpo ci obbliga ancora. Corpo esibito, giudicato, rifatto, perfetto sennò rifiutato. Un’ossessione che ci rende giudicati e infelici. E allora forse proprio il corpo che ci occupa, invade l’ esistenza fino all’ ultimo interstizio, conquista il pensiero, ci impedisce la vita sociale, sempre visto con gli occhi degli altri e soppesato, non nostro, non alleato in quel che desideriamo, e noi a percepire ogni centimetro che deborda dalla cintura, dai pantaloni che pure vogliamo mettere stretti come tutti, proprio il corpo è il nemico. Un altro paradosso, e non solo del nostro oggi ma della vita tutta che è corpo in noi, di certo. Quale che sia la nostra speranza che ci porta oltre.

Così il tempo della dieta in forma di digiuno diventa un tempo del bisogno dei bisogni, quello dell’ affetto in forma di cibo, sentito potentemente e negato, per non sentirlo più un giorno. Fame d’ amore, di esser visti, amati, riconosciuti. Di potersi fidare e affidare a un futuro di pane che c’ è. La manna del credere. Ma se prevale la paura, ci resta allora il potere sul corpo. Pieni del proprio essere vuoti, nemici a se stessi per diventare forse finalmente amici, un giorno. Nella forma di una leggerezza sognata. E così, angeli diventiamo. Come le sante mistiche anoressiche. Leggerissimi da volare via.

Su La Repubblica.it, 28 giugno 2012

fede

Come si racconta il sentirsi avvolti da un bene nascosto che non dà spettacolo, non si mostra, si trova a sorpresa dietro l’angolo della solitudine più totale, sa l’arte insolita di ascoltare anche se non ci sono risposte da dare, perché proprio non ci sono, non perché non le si sa dire, e si è appagati, quel che basta per non vivere di bufere e si sente che, anche se non ci capita, si può essere una cosa sola, e così si scioglie la paura in un fare prudente e anche potente perché di questo credere insieme ha bisogno chi è nel bisogno e in nessun caso l’esser scettici li aiuta, ci aiuta, e allora con la schiena dritta in fronte al cielo si è travolti di gratitudine per chi, qui sulla terra, ci ha amato di un amore che ci ha voluto oltre ogni ragionevole conteggio del bene e del male, ci ha tenuto nell’errore e nella passione, ha creduto che una vita screpolata, arroccata sopra strade come gironi, porta una promessa senza misura, così grande che riaffiora e riaffiora malgrado il nostro costruir macerie di cemento e di parole e si può, grazie a questo, dir di sì a tanto, non a tutto, ma a molto: al fallimento, perché so che può non essere finita, alla slavina del tempo e anche alla morte, perché sotto, sopra e intorno ho visto che c’è sempre vita.
Avvenire, 20 aprile 2012