Dieta mistica

Paradossale nell’età e nelle terre dell’opulenza il tempo speso a parlare di diete, a leggere libri di diete, ad acquistare “cibi senza” (grassi, zuccheri, calorie comunque) che costano più dei “cibi con”. A cercare la più “veloce”, a non temere dolori e allucinazioni. Diete-digiuno che ci seducono, parlano a qualcosa di profondo e insuperabile. Quanto tempo della nostra unica vita se ne va così?

In natura il digiuno non è una scelta. Può essere strategico: il letargo, per non disperdere le energie alla ricerca di cibo che d’inverno non c’è. Oppure necessario: si digiuna se non si trova di che mangiare. Oppure ancora è sintomo: non si mangia quando si sta male, nel corpo e nello spirito. E basta convivere con un animale da compagnia e lo si sa per certo che non solo di noi umani questo si può dire.

Anche se un po’ bisogna intenderci sui termini. Di certo tutti conosciamo l’inappetenza da dolore: inflitto, subito, temuto, pena d’amore. Solo per noi uomini il digiuno può esser scelta. A volte strumento, drammatico, di protesta: dalle suffragette che rifiutavano il cibo per affermare il diritto di voto, ai digiuni per i diritti civili nei nostri anni ancora così segnati dall’ingiustizia. Digiuno con valore politico e culturale e, spesso, strettamente cultuale, legato alla religione: nella forma attenuata dell’astensione da alcuni cibi oppure in forme più radicali che hanno attraversato anche la storia del cristianesimo portandosi appresso un sospetto di patologia.

Sì, perché il cibo è vita, benedizione, salute, ospitalità, allegria condivisa, dono di Dio, Dio stesso addirittura. Il profeta Ezechiele che mangia il rotolo della Parola è sia realtà dell’ uomo che assimila quel che Dio gli dà sia, visto dalla parte di Dio, un consegnarsi senza trattenere nulla di sé. Per questo gli ordini monastici e la tradizione della chiesa sono sempre stati prudenti sul digiuno. Gli eccessi erano sospettati di autocompiacimento, di un voler accampar meriti davanti a Dio. Oggi molte di quelle che chiamano diete somigliano a un laico, ostinato digiunare. Certo che la dieta non è un digiuno, in senso stretto. O almeno non dovrebbe esserlo. È un mangiar corretto. Come un mangiar corretto doveva essere quello di Adamo ed Eva. Tutto tranne il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Dieta di salute spirituale, molto prudente.

In realtà esercizio di fiducia in Dio: tutto bene è stato fatto nella creazione, possiamo fidarci di un divieto dal senso oscuro? La Bibbia è attraversata da cibi fatali. Se il frutto di Adamo ed Eva e il piatto di lenticchie di Esaù sono stati infausti, i pani e i pesci del Vangelo o la meravigliosa manna dell’ Antico Testamento, che si trovava al mattino nella misura giusta e non si poteva conservare per il giorno dopo, ci raccontano invece la bontà del cibo, vero e metaforico. La libertà di saper vivere il giorno che ci è dato nella fiducia di un pane che viene.

La dieta di oggi sembra il contrario, un digiuno appunto che è un giocar d’ anticipo per la paura del pane che non verrà. Forse perché non è venuto e temo che non verrà. Ho paurae allora lo rifiuto. Non verrà e allora non mi serve, angelo divento. Certo che nel parlare di cibo oggi si deve essere prudenti, perché anoressia e bulimia sono malattie vere, che devastano il corpo e lo spirito, se stessi e gli altri. Eppure, tutto intorno a questi abissi della malattia, c’è un collettivo “giocare con il pane” che, ci è stato detto fin da piccoli a tavola, non si fa, non si dovrebbe fare. Ma quale pane? Il pane-cibo o il pane-affetto? Se il primo affetto per tutti noi passa attraverso la cura del corpo, e attraverso il cibo che lo fa vivere, quando questo manca allora il rifiuto del cibo diventa insieme rifiuto del corpo e protesta, potere con cui punire chi il cibo non ha dato. O non abbastanza, senza colpa, o non nel momento giusto, per incapacità o impossibilità.

Forse qualcosa di quel che è capitato alle “sante anoressiche”, secondo l’ espressione di Rudolph Bell, può raccontarci un pezzo di noi. Il digiuno da “preghiera del corpo”, come era inteso dalla tradizione cristiana sia occidentale che orientale, diventa in loro un mezzo per esercitare il “potere attraverso il corpo”. Il controllo del corpo era una delle pochissime forme di potere in mano anche alle donne in un tempo di guerre sante e santi poteri maschili. E infatti sono soprattutto le donne a praticare l’ascesi del cibo nella storia passata, e anche recente: da S. Caterina da Siena (muore nel 1380) a Teresa Neumann (muore nel 1962, dopo aver vissuto per 35 anni di solo pane eucaristico). Una scelta che sfiora il sogno di anticipare, nel corpo fatto sottile quasi come l’ anima, la sua stessa incorruttibilità. Forse le donne lo conoscono per natura il potere del corpo. Che possono esser mangiate lo sanno da sempre. Esser cibo senza che sia una metafora. Lo sanno ben prima che il corpo lo insegni con la maternità. Il trattenersi dal cibo le sottraeva a questa storia scritta, sia nella realtà che nella metafora.

Anche oggi un sogno anoressico accompagna consapevolmente tanti giovanissimi e inconsapevolmente un po’ tutti, senza più guardare al genere. Le diete-digiuno che ammiccano dalle classifiche dei libri, dai reparti light dei supermercati, dalle vetrine tutte taglie-mini dei negozi, ci raccontano un desiderio ormai nostro. Forse ancora c’ entra il potere, che non sappiamo ben più dove risieda, ma certo non in noi. E c’ entra anche la fiducia, che non coltiviamo più, per paura. E certamente il corpo. Assillo presente oggi come nel medioevo. Una diversa, strumentale, malata, costruita e bugiarda devozione del corpo ci obbliga ancora. Corpo esibito, giudicato, rifatto, perfetto sennò rifiutato. Un’ossessione che ci rende giudicati e infelici. E allora forse proprio il corpo che ci occupa, invade l’ esistenza fino all’ ultimo interstizio, conquista il pensiero, ci impedisce la vita sociale, sempre visto con gli occhi degli altri e soppesato, non nostro, non alleato in quel che desideriamo, e noi a percepire ogni centimetro che deborda dalla cintura, dai pantaloni che pure vogliamo mettere stretti come tutti, proprio il corpo è il nemico. Un altro paradosso, e non solo del nostro oggi ma della vita tutta che è corpo in noi, di certo. Quale che sia la nostra speranza che ci porta oltre.

Così il tempo della dieta in forma di digiuno diventa un tempo del bisogno dei bisogni, quello dell’ affetto in forma di cibo, sentito potentemente e negato, per non sentirlo più un giorno. Fame d’ amore, di esser visti, amati, riconosciuti. Di potersi fidare e affidare a un futuro di pane che c’ è. La manna del credere. Ma se prevale la paura, ci resta allora il potere sul corpo. Pieni del proprio essere vuoti, nemici a se stessi per diventare forse finalmente amici, un giorno. Nella forma di una leggerezza sognata. E così, angeli diventiamo. Come le sante mistiche anoressiche. Leggerissimi da volare via.

Su La Repubblica.it, 28 giugno 2012

le ragazze dello specchio

11Non sanno il loro valore queste giovanissime donne degli specchi che abitano le aule di scuola. Ci sono stati giorni in cui per un insegnante, in classe, i concorrenti da sconfiggere erano i diari. Personali o scolastici, i diari trovavano il modo di riempirsi proprio negli interstizi misteriosi che il tempo lungo delle ore di lezione a sorpresa sempre regalava. Oggi la battaglia è con gli specchi, distrattori per nulla fragili, meravigliosamente polimorfi: tondi, lunghi, stretti, a orologio, ad anello. Lo specchio è la conferma di un istante: sono bella? Forse no, anzi no. Ma forse la prossima volta che mi guardo sì. E allora riprovo, e ancora e ancora. Perché, se alla fine sono bella, allora esisto. Flusso incerto di sguardi dati e ricevuti ma dagli stessi propri occhi esigenti. Esigenti perché la bellezza delle donne oggi è stretta in un canone feroce, fatto di forme, colori, misure, accessori, lusso anche.

Riprodotto uguale sulla carta, in televisione, nelle passeggiate del sabato. E anche a scuola: gli insegnanti conoscono il tremendo colpo d’occhio del “colore di moda” quando si entra in classe. Il male presente è un’omologazione che costringe dentro schemi anche l’essere contro: cyber, emo, truzzo, goth. E così la splendida incertezza tutta adolescenziale, che si culla fra il bisogno di essere visti e quello di non esserlo troppo, e che dovrebbe portare a quelle forme di maldestra scomposta originalità che rende a volte goffi, primo tratto incerto della propria personalità, diventa un impossibile esistere sospesi tra il desiderio di essere originali e il non poterlo essere, perché ogni tentativo ha già un codice che lo comprime. Si deve evitare un’esposizione che non si sa sopportare e quindi l’omologazione protegge, ma si deve anche essere visti per la persona unica che siamo. Per cui capita che le ragazze vivano una intollerabile esistenza d’ombra in cui la possibilità di essere originali è paradossalmente affidata alla perfezione dell’omologazione: la bellezza del canone.

E lo specchio allora non restituisce conferme ma paure. Di non essere conformi a un’immagine che non possono raggiungere, di non esistere.

E il dramma abita a volte incomprensibilmente dentro la loro oggettiva strepitosa bellezza, che non basta a salvarle. Così è stato la settimana scorsa per Domynika Synoviec, 17 anni, che ha lasciato la vita proprio nel bagno della sua scuola. Così perfetta da aver vinto a Capodanno un concorso di bellezza: era miss Starlight.

Si ha bisogno dello sguardo che abbraccia e tiene il tessuto della vita. Lo conosce bene la sapienza biblica fin dalle sue prime pagine quando Dio vede che il mondo è buono e l’essere umano è molto buono. E poi nello splendido Salmo 139: “Tu mi scruti e mi conosci… hai fatto di me una meraviglia stupenda… ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi”. E nel Vangelo, dove lo sguardo del Messia vede i desideri di ciascuno, anche quelli che ancora non sappiamo di avere, come capita a Matteo o a Zaccheo. È lo sguardo dell’altro che conosce e riconosce. Anche il diario era a suo modo uno specchio, ma alleato. La distanza della scrittura chiedeva silenzio e pensiero. L’elaborazione di un sé reale chiede lo spazio di un silenzio che oggi non c’è quasi mai. Cellulari e social network assicurano la connessione permanente, il cordone vitale col mondo che alimenta queste esistenze in bilico. Se la rassicurazione di sé non è interna ma viene da fuori, deve essere continua, può venir meno in ogni momento, va verificata sempre. Non si ha mai una rendita di sicurezza con cui vivere lo spazio dell’assenza. Ma è l’assenza che tiene il nostro essere e anche i nostri rapporti. Per quanto si stia insieme, in un rapporto il tempo in cui si è soli supera quello in cui si è insieme all’altro. La perenne connessione è eterna dipendenza. Espone a una fragilità irrimediabile, in cui ogni piccolissimo movimento imprevisto della vita diventa una frana.

Le ragazze sono oggi molto più esposte al pericolo di non poter costruire un’immagine di sé autonoma dallo sguardo giudicante del mondo, perché i modelli di donna proposti dall’orgia visiva che le assedia sono a una dimensione. Se non c’è la bellezza del canone, misurata pezzo per pezzo come sul lettino di un anatomopatologo, temono che non contino né l’intelligenza, né la preparazione, né la personalità.

In fondo desiderano che non sia così, ma la malerba della paura di illudersi può sospendere le loro energie. E gli adulti spesso lasciano che questo capiti, per una deriva in gran parte inconsapevole della loro volontà, che non crede più di poter cambiare il mondo. Per cui amano di un amore che sentono vero ma che è talvolta impotente e a scuola, nelle riunioni, si dicono l’un l’altro che non sanno cosa fare per le loro figlie meravigliose che si vedono perennemente brutte.

È possibile che queste giovanissime donne degli specchi trovino la forza di reagire alla signoria dell’immagine. Accade quando la loro età confusa conosce il dimenticarsi buono che può venire dalle passioni e dalla cultura, e non solo il dimenticarsi vuoto offerto dallo stordimento del sabato, atteso dal lunedì. E anche quando trovano l’adulto che sa corrispondere al desiderio, umanissimo e originario, di essere visti e importanti per qualcuno. L’esperienza di essere amate per quel che si è.

da La Repubblica, 11 febbraio 2011