occhi color del mare

Rileggere Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway (Mondadori, Milano 1975) da grandi, molto grandi, è una sorpresa. Si apre il libro sapendo sostanzialmente tutto. I personaggi sono due, il vecchio pescatore Santiago che non riesce a portare a riva un pesce da 84 giorni e il giovane suo ex apprendista Manolin, tre con il pescespada, quattro con il mare, se si vuole.

Il resto è un contorno di umanità normale, circoscritta nello spazio, il villaggio di pescatori, e nei pensieri comuni. Ci sono i giovani leggeri e inconsapevoli che canzonano Santiago per la sfortuna che gli si è incollata addosso, i più vecchi consapevoli che invece lo guardano e «si sentono tristi» (5), i ragionevoli genitori del ragazzo che lo costringono a lavorare per un pescatore più fortunato, Martin il padrone del locale la Terrazza che continua a mandargli la cena anche se il vecchio Santiago non può pagare, i pescatori che raccontano «con garbo» (5) della corrente e della profondità a cui avevano calato le lenze.

Si comincia a leggere in qualche modo avvolti da un preciso residuo mnestico (scolastico?) di lettura simbolica: il mare metafora della vita, la lunga pesca solitaria metafora della lotta per la sopravvivenza, o della eterna ricerca del senso, l’immenso pescespada conquistato e poi però perduto metafora della fortuna (felicità?) che si lascia afferrare ma non possedere eccetera eccetera.

E invece. Invece in qualche modo arriva una lettura completamente diversa. Gli occhi «allegri» di Santiago, dello «stesso colore del mare» (4) sono un’immagine talmente potente che ci accompagna lungo tutto il racconto, per cui anche il lungo buio reale (le notti) e metaforico (la solitudine, lo sfinimento, l’incertezza) non è mai davvero buio, perché si sa che questi occhi azzurri in ogni momento una luce ce l’hanno e la notte non è davvero nera.

Le cicatrici delle mani, «ma nessuna di queste era fresca. Erano tutte erosioni di un deserto senza pesci» (4), ci fanno sentire i tagli, le lacerazioni della sua lotta contro il pescespada come benedizioni, la vita senza ferita non è vita benedetta perché non conosce il suo limite e la ferita non è il male da evitare ma il normale respiro di giorni vissuti. Non c’è niente da imparare, solo da accogliere.

Il ragazzo Manolin, «che gli voleva bene», accompagna il vecchio Santiago esattamente con la sua assenza e l’amicizia è insieme presenza e assenza dentro la vita del vecchio Santiago, assimilata come assimila in mare la carne dei pesci crudi che mastica con metodo perché gli diano la forza della lotta. L’assenza non è tradimento, nemmeno tradimento della fiducia di chi ha voluto il giovane Manolin lontano da lui, perché ogni relazione, l’amicizia come l’amore, vive più di assenza che di presenza. Vivere attaccati come patelle non è amicizia, è simbiosi parassitaria o mutualistica, in ogni caso non c’è libertà.

Qui questa amicizia è piena di precise perfezioni. Manolin non fa pesare a Santiago le attenzioni che gli rivolge e gli offre birra e cibo come per caso, en passant. Asseconda le sue pudiche bugie e declina con cortesia l’invito di Santiago a mangiare riso giallo e pesci che in realtà il vecchio pescatore non ha sul fuoco, perché è povero, estremamente povero. Lo forza ad avere cura di sé.

La perfezione sta nei dettagli di una spontanea, semplice, cristallina umanità che Santiago accoglie ringraziando: «Era troppo semplice per chiedersi quando avesse raggiunto l’umiltà» (8).

È tutto nelle prime pagine, il resto scivola come la barca sul mare, come una poesia di parole perfette e gesti assoluti perché sono perfettamente normali. Quel che tiene il tutto è che tutto capita senza che venga mai in mente un possibile giudizio.

La vita si accompagna alla morte in ogni istante del racconto e non esiste bene e male nella vita accettata come viene e però insieme affrontata, soli come Santiago, o in compagnia del ragazzo, che certo sarebbe meglio, ma se non c’è con le sue mani giovani c’è nella forza di una relazione che rimane. Niente magia, Santiago può soccombere ogni momento, ma stavolta non soccombe anche se non vince perché il meraviglioso immenso pescespada viene spolpato dai pescecani e non gli darà il nutrimento sperato. Per un mese intero avrebbe mangiato Santiago, ma non sarà così.

Il pescespada è «fratello» (91), «più nobile e capace» (59) degli uomini, e in quel punto di smisurata intensità in cui la vita li fa incontrare niente più li può separare: «Pesce, resterò con te fino alla morte. Anche lui resterà con me, pensò il vecchio, e aspettò che sorgesse la luce» (48). E a Santiago, che lo ha arpionato e lo sta uccidendo lentamente, spiace che il pesce non abbia nulla da mangiare (71), come lui del resto.

C’è una poesia delle parole, dei pensieri, dei gesti, delle ferite, dei suoni, anche il suono tremendo della cartilagine che si apre tra le vertebre e il cervello dei pescecani che Santiago uccide per salvare la sua pesca. C’è una dimensione di totale assenza di peccato in un evento, la pesca di un grande bello sensibile pesce, che la sensibilità moderna (e anche quella personale di chi scrive) sente violento in modo insopportabile: «Forse è stato un peccato uccidere il pesce… Ma allora tutto è un peccato. Non pensare ai peccati… Tu sei nato per fare il pescatore e il pesce è nato per fare il pesce. San Pedro era un pescatore, e anche il padre del grande Di Maggio» (102).

Uccidere non è un diritto di posizione, è necessità e natura. O lo era.

Comunque è una sorprendente innocenza, per nulla irenica e paradisiaca, ma innocenza infine pacificante, il regalo di questa narrazione perfetta, riletta attraverso gli occhi «allegri» di Santiago.

Da Il Regno, 15 marzo 2017

vivere, anche se non ci si capisce niente

Si rilegge lo splendido cocktail creato da Bruce Chatwin già malato e però come sempre scatenato di storie (Che ci faccio qui?, Adelphi, Milano 1990) come presi in un capogiro da eccesso di mondo. Intanto perché ce lo ricordiamo come un groviglio di emozioni più che di fatti.

Impossibile ricordare tutte le storie, di sicuro però sì la paura e il senso di irrealtà di Assunta, donna delle pulizie nell’ospedale inglese in cui Chatwin è ricoverato, che parla dell’enorme pitone o boa constrictor che la sua vicina tiene in casa, ma scappa continuamente, e ha anche fatto riprodurre con la fecondazione artificiale così che la follia umana ha follemente raddoppiato il pericolo.

Oppure il senso d’impotenza dentro l’assurdo colpo di stato in Benin in cui Chatwin è incarcerato e scambiato per un mercenario e la sua penna stilografica per una pistola, è picchiato da un caporale che immaginiamo governativo, salvato da un colonnello che immaginiamo prima governativo poi rivoluzionario e che è il vincitore per qualche ora o almeno lo pensa lui, il colonnello, ma forse no, poi viene di nuovo incarcerato dal caporale perché intanto i governativi hanno forse rivinto ma poi arriva un nuovo colonnello questa volta donna e così di minuto in minuto non si sa chi fa il gioco di chi e l’unica cosa è stare calmi perché, come dice il  primo colonnello prima di darsi alla fuga, «in questo paese non si capisce niente» (37).

C’è tutta la bellezza scomposta della vita vista dagli occhi trasparenti di lui che ci guarda dalla copertina con gli scarponi appesi al collo, e che ricordiamo in mille foto che il mito della sua figura ci ha consegnato. Impossibile rileggere se non dentro a questo «dopo» che ci accompagna mescolato alle emozioni della prima lettura.

Ma qual è il fascino di questo libro?

Allora. Prendiamo Madame Madeleine Vionnet. Chi non si occupa di moda, di storia della moda e non è una donna alta almeno un metro e ottanta (madame Vionnet non sopportava le donne basse, lei era piccola) e cioè quasi tutti noi, non ne sa niente. Ecco.

Dopo aver letto il racconto di Chatwin che incontra questa signora di allora 89 anni a Parigi, esattamente 34 anni dopo che la sua casa di mode ha chiuso i battenti, abbiamo l’esatta impressione di sapere qualcosa di più della vita e semplicemente siamo più contenti, un poco riconciliati. Lei non ha militato a trecentosessanta gradi.

Le sue clienti erano ricche, fosse stato per lei avrebbero dovuto esse anche tutte alte e belle, si capisce che era ruvida e che non aveva problemi di autostima: «Io sono la migliore sarta del mondo, e so di poterlo dire!» (110). Però ha liberato le donne dalla tirannia del busto e ha «insistito perché le donne rimanessero donne mentre altri couturiers facevano somigliare le loro clienti a ragazzi o a macchine» (111). Drappeggiava la stoffa sui corpi «come un grande scultore che intuisce le possibilità latenti in un blocco di marmo» (ivi). Riconosceva la vita.

Un racconto è un puro omaggio di un narratore di viaggi verso un altro narratore di viaggi. Si parla di Robert Byron che nel primi decenni del Novecento viaggia fino alla Cina e al Tibet. Chatwin lo sente fratello in quell’arte di capire attraverso gli occhi del viaggiatore che si muove fra i secoli e la storia.

Scrive Byron: «L’esistenza di Santa Sofia è atmosferica; quella di San Pietro, concreta in modo incombente, soverchiante. L’una è una chiesa per Dio; l’altra un salotto per i suoi rappresentanti. L’una è consacrata alla realtà, l’altra all’illusione. Perché Santa Sofia è grande, San Pietro è spregevolmente, tragicamente piccolo» (351). Tranchant e quindi provocatorio.

Si può leggere da offesi oppure si può chiedersi se uno sguardo laico militante di un «arcinemico di ogni compromesso con Hitler» (355) non ci dica davvero qualcosa che può somigliare a un avvertimento: la Chiesa che tutto vuole abbracciare e comprendere è Chiesa solo se tutto consegna al cielo che ci si regala e ci aspetta. Cristiani non trattenete ma affidate.

Poi Byron raccontato da Chatwin è andato in Afghanistan e leggere del loro salire sulla testa del Buddha di Bamiyan, oggi polverizzato dalla furia talebana, ci consegna in un attimo la nostra limpidamente ottusa capacità di distruzione e di morte e ci si chiede chi ci salverà da noi stessi e dalla nostra libertà.

Poi si legge il piccolissimo racconto L’albatro (411), che incrocia Samuel Taylor Coleridge e La ballata del vecchio marinaio, Charles Darwin e gli indios fuegini, un viaggio all’isola di Steepholm nel Canale di Bristol in cerca di una peonia portata come erba medicinale da alcuni monaci provenienti dal Mediterraneo, un indio dell’isola di Navarino incontrato per caso e del quale Chatwin conosce lo zio non si sa come, e la bellezza appena immaginata di un misterioso albatro femmina di colore nero arrivato dal Cile a Hermaness nell’arcipelago delle Shetland, a nidificare fra le candide sule. Un giro del mondo in cento righe. Cosa c’è di più vivo?

Si torna allora all’impressione lasciata dalla storia del colpo di stato in Benin e anche se non si può ricordare l’ordine dei fatti e anche se non si capisce niente di chi fa cosa e malgrado l’assurdità del tutto che fa disperare dell’umanità, si finisce di leggere e vien voglia di vivere e ancora vivere.

Da Il Regno, 15 maggio 2017

ma come tu resisti, vita

ma-come-tu-resisti-vitaPer paura la vita diventa un camminare sghembo. Scarto improvviso per non sfiorare il prossimo che rimane sconosciuto.
E scappare di sguardi con la paura al centro e tutto il mondo a confine. Incrociarsi in difesa senza incontrarsi.
Rinunciare al nuovo. Quiete che si cerca con affanno, a testa bassa, in un perpetuo e inconsapevole pensare a tessere fughe, da loro, da noi, da quel che potremmo avere e da quel che abbiamo.
Forse non perderemo un amore, perché non ci siamo fermati a viverlo. Forse l’unico incontro che ci raggiunge, e a cui scegliamo di non dedicarci, ci lascia graffi che fanno poco male e così scansiamo qualche ferita in questo calcare pesante il mondo. In fuga.
Serrare il pensiero senza la leggerezza curiosa degli occhi che vedono. Non sentire lo sciame dei sentimenti che ci moltiplica nelle vite di tanti. E le vite che ci toccano quel che basta per sentirle un po’ nostre. Meravigliosa umanità comune che la paura ci rende molesta e stridente.
Per paura si abbandona la battaglia buona del nostro bene. La relazione che ci fa persone, viste e riconosciute.
Si rinuncia a capire. Ci si separa. Si uccide. Ci si uccide.
Per paura si muore di paura.
Non aver paura ce lo deve dire un altro.
Insieme è nulla la paura.

a life apart

An ugly woman has no vantage point from which to tell her story,” announces Rebecca, the sympathetic, intellectual narrator of this subtle, impressively candid Calvino Prize-winning first novel from Italy. In describing her tale as one “told from the corner in which life had pushed us, through the crack left open by fear and shame”, leaving just enough “for us to breathe, just enough for us not to die”, Rebecca stresses that she is “really ugly”. Although often noting her ugliness, she seldom complains; her tone instead is factual and politely detached, though with less authorial irony than might be expected.

A suggestion of the traditional fairytale shrouds the plot. Rebecca is the daughter of beautiful parents: her gynaecologist father is black-eyed and handsome, her mother lovely. Their great romance – which brought together the doctor as a prince, the poor peasant girl as a princess, despite the opposition of her parents – is doomed. Both families have had medical tragedies, but the doctor concealed his. Therein lies the curse, the “taint”. Rebecca’s entry into the world forces her mother to abandon ordinary existence. Instead she sits in a darkened room overlooking the river. The lovingly decorated palazzo she had restored in various shades of blue and pale yellow for her husband and baby becomes an imprisoning tower.

Rebecca recalls how her mother had taken to wearing mourning dress soon after her birth. Elsewhere there is a reference to the dwarf princess and the dramatic fate of her dwarf minders. More mundane is the experience of the long procession of childminders interviewed to tend Rebecca. Few of them prove suitable and one, who stayed briefly, left, remarking: “There is too much sorrow in this house.”

The distracted father, persistently conversing with his wife who no longer speaks, does manage to secure help in the despairing form of Maddalena, a woman who has lost her two sons and her husband in an accident. Maddalena weeps all the time; it is a narrative device that Veladiano uses far too often. Yet this is a minor quibble.

Frequent visits to this grieving household are made by the glamorous and forceful Erminia, the twin sister of Rebecca’s father. Erminia is a musician whose career has been stifled because her talent never quite matched her striking appearance. She is theatrical and given to opinionated statements, an ambivalent combination of fairy godmother and gorgeous wicked witch. Men pursue her, but none linger, and she appears far too interested in her brother to care. She does detect that Rebecca has a gift for music, but the child’s mother refuses to allow her daughter to attend school. When Rebecca ventures out at all, it is only by night, wearing a hat and scarf.

Eventually the narrator wins the chance to go to school. Her father weakens and is unable to bring her, so she is accompanied on her momentous first day by Maddalena. The teacher, Miss Albertina, places her beside “a blonde, fair-skinned, hugely fat girl” who whispers that her name is “Lu-cil-la”. This child, the teacher’s niece, also has problems in that she and her mother are desperately poor because Lucilla’s father has run off with a young girl. Rebecca is delighted to have found a friend.

The ongoing tragedy of the mother reaches its climax. Erminia moves in and declares her intention to redecorate the house. “We could start with the colours: they’re too faint. It feels like living inside a box of stale candy. In the long run, colours like this make people weak.”

By  Eileen Battersby
from IrishTime