Una vita come le altre

Non esiste un punto di vista fuori di sé dal quale scrivere, anche quando non si scrive di sé. La letteratura è questa operazione d’attraversare la vita di tutti con le emozioni della propria vita e restituirle ai personaggi dei romanzi nella forma di una universalità che noi lettori possiamo riconoscere. Perciò è difficilissimo che l’autobiografia diventi letteratura. Non si tratta d’aver avuto una vita più o meno interessante. Le vite nascoste hanno gli stessi segreti, gli stessi dolori, gli stessi carsismi emotivi di quelle più scintillanti, piene di fatti e di notorietà, e forse hanno anche più eroismi.

Alan Bennett scrive Una vita come le altre (Adelphi, Milano 2010) quando ha 75 anni. È la storia dei suoi genitori e del suo rapporto, soprattutto adulto, con loro. Il padre è morto 35 anni prima e la madre 14. Un tempo lunghissimo, ma potrebbe non essere una distanza sufficiente. Il dolore non conosce il nostro tempo dal passo preciso che si stacca regolare da un punto, una data che s’allontana nel ricordo e nell’emozione. Il dolore può abitare immutabilmente gagliardo e pieno della sua energia iniziale ogni giorno della nostra vita. Oppure può trasformarsi. In arte, in consapevolezza, in umana reciproca comprensione.

Qui l’operazione è compiuta. Abbastanza compiuta, perché si tratta di affetti, come dire, fondanti la nostra esistenza e non finiscono di trasformarci, ogni giorno.

«C’è un bosco, il canale, il fiume, e sopra il fiume la ferrovia e la strada. È la prima campagna vera e propria che si incontra a nord di Leeds, e tornando a casa in treno ci passo spesso. Però adesso guardo» (11). Però adesso guardo. Si può trascorrere l’intera esistenza senza guardare. Quanti non guardano né la propria vita né gli altri né il mondo. Sguardo fisso a un obiettivo, di volta in volta diverso, e tutto il resto è un’ombra in fondo all’occhio, piccolo restringimento del campo visivo, mai messo a fuoco.

Bennett comincia a mettere a fuoco la vita dei suoi genitori a partire da una rivelazione. Sua madre non sta bene, sembra una forma di depressione particolarmente grave, lui già adulto accompagna il padre al distretto sanitario per la scheda di anamnesi e lì scopre un segreto di famiglia alquanto ben protetto: il nonno materno è morto suicida e non d’infarto come si era sempre raccontato. Un non detto potente come una deflagrazione aveva attraversato la loro famiglia. Un sisma sotterraneo, quanta fatica avevano fatto tutti a stare in piedi? E chi non era riuscito a stare in piedi?

Tutto può essere riletto alla luce inquietante di questa fragilità costitutiva. La fragilità è costitutiva di ogni esistenza ma, appunto, si può far finta di non vedere, e questo ha un prezzo altissimo naturalmente, in termini di fatica e di negazione, ma c’è chi vive così. E invece a volte la fragilità s’impone nella forma di un suicidio, una dichiarazione in fronte al mondo: la vita è troppo per me, troppo dura, troppo sola.

Il resto è il racconto, struggente, della sua famiglia fragile e quindi normale. La paura di apparire e la determinazione assoluta a passare inosservati e, per contro, la violenta e anche ridicola necessità d’apparire delle zie, e poi la malattia della madre, i ricoveri ricorrenti. Una quantità di terribili verità, dette da chi ha accettato di vedere.

La madre viene accompagnata in ospedale una certa mattina. È una donna malata ma ben curata, la piega fatta, il vestito in ordine. Il pomeriggio dello stesso giorno la trovano trasformata in una «povera donna avvilita, rattrappita, tutta arruffata e aggrappata ai cuscini… Seguendo il regolamento e le sue crudeltà, dopo l’accettazione le avevano fatto il bagno e lavato i capelli senza pettinarglieli e farle la piega, quindi ora le stavano tutti dritti come un’aureola delirante. Eccola arruolata tra le fila dei dementi… Era pazza perché aveva l’aspetto di una pazza» (23). Una pagina che vale il libro.

Poi ci sono le osservazioni folgoranti del Bennett più noto: le zie «vestali della trasgressione» che «senza l’intralcio dei figli, senza marito davanti al quale dover chinare il capo, sono o si credono spiriti più liberi rispetto alle sorelle sposate» (87). Oppure la madre, infine stritolata da una demenza importante, che «arriva a superare i novant’anni, forse perché è libera dal peso dei ricordi» (135).

Vogliamo interrogarci: quante demenze sono liberazione da ricordi insopportabili? Ma c’è anche la dolentissima denuncia di un mondo così malato da attorcigliare il cuore. Quando scompare l’anziana zia Kathleen e la polizia la comincia a cercare ventiquattro ore dopo e senza grande impegno: «Una vita non ha sempre la stessa importanza sociale. Il valore massimo lo attribuiamo ai bambini… La zia Kathleen era al minimo del suo valore sociale: aveva settantatré anni, era demente, socialmente insignificante, economicamente inutile» (132). Ce lo annotiamo come promemoria per questo anno appena iniziato. Vogliamo davvero che sia così?

Chi conosce l’Alan Bennett temibile, corrosivo, che rivela la mediocrità di tante vite rese anonime non da ragioni di prestigio sociale o culturale, ma dall’essersi accomodate in una quotidianità irriflessiva e che accetta le regole di un perbenismo senza anima, qui trova un Bennett infinitamente più au même niveau, pensoso e partecipe, acuto, ironico a volte, tremendo nel riconoscere come sia disumano troppo di quello che ormai accettiamo come normale, soprattutto nella malattia, nella vecchiaia, nella condizione di fragilità. In questo, il suo sguardo allenato a vedere il mondo dalla giusta distanza dello scrittore, è un regalo che ci permette di uscire da tanta nostra cecità.

Da Il Regno, 15 gennaio 2020.

La ricerca e l’attesa del pastore

Riletto la prima domenica d’Avvento, quando i racconti del Natale si richiamano l’un l’altro e si va a ritrovare le immagini belle che hanno costruito la memoria dell’attesa. Il ricordo di questo romanzo portava con sé la neve, tantissima neve. E un pastore con un evangelico smisurato amore per le pecore che non sono rientrate all’ovile prima dell’inverno.

Se intanto qualcuno sta pensando che il pastore sia un predicatore e le pecore siano scribi, farisei, pubblicani o gabellieri passati o presenti, è esattamente quel che può capitare di pensare per un bel po’ di pagine quando si comincia a leggere Il pastore d’Islanda (Gunnar Gunnarsson, Iperborea, Milano 2016). È talmente estremo e lontano il mondo raccontato, un presepe d’Islanda bianco e gelato, che all’inizio lo si volta in metafora. Anche se in senso stretto nulla di ingannevole viene detto.

C’è un pastore che si chiama Benedikt. Ogni anno la prima domenica d’Avvento si mette in viaggio verso il pascolo comune che si estende fra le lingue del ghiacciaio. Stremba, ovvero «il duro», i pastori chiamano quella terra estrema. Benedikt si carica di provviste e scarpe di cuoio nuove, un fornelletto, alcol e petrolio e va tra le montagne ormai gelate, i pascoli coperti di ghiaccio, a cercare le pecore sperdute, quelle che erano sfuggite «ai tre raduni regolari dell’autunno» (7).

Con lui il cane Leó e il montone Roccia. La «santa Trinità». Così le persone chiamano fra loro il trio, e non c’è un’oncia di blasfemo, quello che i tre vanno a fare è davvero qualcosa di divino. Benedikt ha 54 anni, è un «uomo anziano», un «vecchio», e sono 27 anni che fa questo viaggio. Nelle fattorie costruite ai piedi delle montagne, il limite oltre il quale non si va quando il gelo arriva, ci sono contadini amici che rispettano il sacro rito annuale e lo attendono con affetto, per una parola, un caffè, un po’ di paglia per Roccia e un boccone di carne per Leó.

Il tempo butta malissimo e c’è chi lo vorrebbe fermare. Non sa capire perché Benedikt si ostini a rischiare la morte per delle pecore che non sono nemmeno le sue. Perché Benedikt è mezzo servo e mezzo contadino, ha pochissime pecore e sono tutte al caldo nella loro stalla. Da 27 anni va a cercare le altre semplicemente perché ogni essere vivente ha il diritto d’avere qualcuno che prova a salvarlo. Questo per quel che riguarda le pecore è gran bene, evidentemente. È il bene.

E per Benedikt? Il tempo impiegato, il rischio. Perché lo fa? C’è un momento, proprio all’inizio del viaggio, quando le nuvole promettono bufera e forse deve ritardare di un giorno la partenza dall’ultima fattoria che l’ha ospitato, e ogni giorno in più è pericolo in più, c’è un momento in cui arriva un contadino inatteso, in fattoria, uno che ha ancora un po’ di gregge in quota e con ogni evidenza intende approfittare dell’esperienza di Benedikt per radunarlo e portarlo giù e per questo arriva a chiedere il suo aiuto, ritardando ancora la partenza di Benedikt per i pascoli più lontani, quelli dove le pecore si perdono davvero.

I contadini amici di Benedikt tentano di convincerlo a rifiutare l’aiuto: «“Se li aiuti a radunare il loro gregge sprecherai almeno due giorni”. “Oh, sprecare…”, mormorò Benedikt quasi tra sé. Avrebbe preferito non doversi esprimere su un argomento tanto spinoso. Perché se viene un uomo che deve radunare il suo gregge, e lui e Leó e Roccia si trovano a portata di mano, e forse sono indispensabili, che altro si può fare se non mettersi a sua disposizione» (30).

Ecco. Cosa altro è la vita, se non servire la vita? E così, grazie a questo servire, poter anche vivere. Esattamente, quale vita è davvero sprecata? C’è un preservarsi nelle buone intenzioni e nelle buone azioni che non vede la vita, il suo chiamare adesso.

L’attesa dell’Avvento non ha niente a che fare con l’indolenza o la passività. È questo agire senza pretese, che va incontro alla Grazia che a sua volta arriva senza avanzare pretese, dono che cambia le cose per sempre. Per le pecore salvate e per chi le ha salvate, che così ha potuto restare uomo, naturalmente responsabile verso la vita.

Intorno alla santa Trinità c’è una natura da primo giorno della creazione, un attimo dopo la suprema Parola creatrice. Sia la luce. Quanta luce, tutta neve, tutte nuvole bianche, tutto vento che soffia. E poi tutto buio la notte, niente luci delle case, la luna chissadove. Ma la natura contiene la promessa: «Come nata da tutto quel bianco… c’era in quella domenica nel distretto di montagna una solennità che stringeva il cuore» (12).

In effetti non riuscirà a tornare per Natale come sempre faceva Benedikt: «Le difficoltà superate, le pecore sane e salve nella stalla, e lui seduto nella chiesetta, con l’animo colmo di gratitudine e solennità» (51). Tarderà e ci sarà chi lo andrà a cercare, e questa sarà l’occasione per capire che addirittura un erede capace di continuare la sua ricerca dell’Avvento si sta preparando.

«Quando la festa si avvicina, gli uomini si preparano a celebrarla, ognuno a modo suo» (7). Essere in viaggio per non lasciare indietro nessuno, nemmeno qualche pecora che non è nemmeno nostra, è un gran bel modo di prepararsi a celebrare la festa.

Da Il Regno, 15 dicembre 2019.

La Grazia della vita

Questa è una «RiLettura» tendenzialmente perenne, nel senso che si ha il desiderio di rileggere il libro appena dopo averlo chiuso e poi ancora una volta e dopo qualche tempo ancora, per riascoltare i pensieri del reverendo John Ames che forse sta morendo, in effetti ha un’età importante e il cuore non funziona come dovrebbe, ma ha trovato in un amore bizzarro, inatteso, libero oltre ogni rigidissima convenzione – e intorno a lui le convenzioni sono tutte rigidissimamente accomodate dentro la pancia morbida e formale della fede congregazionista della cittadina di Gilead – ha trovato il regalo di un amore inatteso, non cercato, semplicemente accolto come si accoglie la Grazia quando arriva.

E la Grazia arriva sia che ci si creda sia che non ci si creda. Lui ci crede naturalmente, ci crede per gli altri, e anche per Dio, ma non si aspetta che arrivi davvero per lui, John Ames, e ci mette un poco a capire che alla fine è tutto molto semplice, si tratta di dire di sì alla vita, perché «si può vivere bene in tanti modi» (3).

Gilead di Marilynne Robinson (Einaudi, Milano 22017) è un capolavoro assoluto di scrittura e di umanità. È stato pubblicato nel 2004, in Italia nel 2008. È il primo volume di una trilogia splendida (Lila, 2015; Casa, 2011, entrambi di Einaudi), ma lo si può leggere da solo perché si sa che ogni capolavoro si basta.

Il romanzo ha la forma di una lunghissima lettera al figlio di sette anni, arrivato come un regalo, così come è arrivata la madre, la giovane Lila, rispetto al pastore giovane, arrivata da non si sa dove, che lui ha sposato senza quasi conoscerla e senza sapere ancora di essere innamorato, l’ha sposata perché lei glielo ha chiesto e lui ha detto sì, per fede nella vita, per non commettere il peccato più grande che un uomo possa commettere, che è certo uno e tremendo, cioè sottrarsi alla Grazia che ci raggiunge in forma impensata, anche nella forma discreta di una donna che vorrebbe ripartire e non può farlo perché la vita la trattiene lì, perché lei ha la grazia di portare vita in quel piccolo orto concluso che è la storia di un vecchio pastore vedovo, senza figli e che non conosce ancora del tutto i propri desideri.

Il pastore John Ames è figlio del pastore John Ames, misurato pacifista, ed è nipote del pastore John Ames, mistico guerriero di Dio con cui trattava direttamente, parlandogli quando serviva, combattente unionista compagno di John Brown. Lui, John Ames terzo, è un uomo riflessivo, prudente, onesto, sicuramente un buon pastore per la circoscritta città di Gilead, che non esiste naturalmente, ma che dopo i tre libri della Robinson è vera tanto quanto Roma, Chicago, New York, con le strade e le persone chiamate per nome e per famiglie e soprattutto con una storia.

A Gilead esiste un atro John Ames, ma è John Ames Boughton, figlio del pastore Boughton, amico fraterno di John Ames che con lui discute di grandi questioni di fede. È andato via da casa come il figlio della parabola, ha combinato cose che si conoscono e cose che si ha paura di conoscere e perciò non si osa chiedere.

Tutto il racconto è anche sotto il segno di questo figlio che interroga sulla bontà della vita, che torna e rallegra e insieme inquieta il vecchio padre e anche il pastore John Ames perché vede che lui è giovane quel che è giusto per Lila ed è anche pieno di energie e gioca con suo figlio e parla con Lila e si intende. Ha paura il pastore John Ames? È geloso? Forse, i suoi pensieri sono anche un percorso di consapevole distacco dai sentimenti inutili.

Quando tanta Grazia è arrivata, come si può perder tempo sugli screzi del mondo? Eppure tutto è importante. Anche la parola casuale lasciata cadere nel silenzio di uno stare insieme difficile, diventa assoluto in quel momento.

Il bambino cresce sereno accanto a Lila che gioca con lui e lo porta spesso al cimitero dove si prendono cura della prima moglie di lui. Non c’è tristezza in questo, Lila ha l’arte della continuità. La vita è una, si può essere ancora di qua a camminare sull’erba e foglie e lavorare l’orto, oppure si può essere di là, sì, sotto la terra per poter appoggiare il ricordo, ma sempre di terra si parla, i fiori ci crescono e in qualche modo la fede ci dice che è proprio lei la continuità che Dio ha voluto se ci ha formati dalla polvere: «E non riesco a credere che, quando saremo tutti trasformati e avremo abbracciato l’incorruttibilità, dimenticheremo la nostra splendida condizione mortale e transitoria, il grande fulgido sogno di procreare e perire che fu importantissimo per noi» (59).

Non è triste il pastore e nella scrittura un poco tutto si alleggerisce: «Immagino sempre che la divina misericordia ci restituisca a noi stessi permettendoci di ridere di quello che siamo diventati, di ridere degli assurdi travestimenti – posture chine, occhiatacce, zoppie e cipigli – che tutti indossiamo» (122).

Il bambino figlio di John Ames, nipote di John Ames, bisnipote di John Ames gioca in giardino con Lila.

Un bambino è nato e fa nuove le cose: «Presto mi vestirò di immortalità» (55).

Da Il Regno15 luglio 2018.

«Maria, una madre normale che ha servito la vita»

Oggi si conclude il mese di maggio, dedicato alla Madre di Gesù. Di Maria ha scritto nel suo ultimo romanzo (Lei, Guanda) la scrittrice vicentina Mariapia Veladiano, convinta che Maria insegni qualcosa ad ogni donna, non solo madre, e ad ogni coppia. 

Mariapia, perché Maria è un esempio per tutti, non solo per donne e madri?

«Avere a cuore le cose del mondo è qualcosa che va al di là dell’avere o non avere bambini. E non penso al banale stereotipo che la cura sia delle donne, perché la cura è universale, la responsabilità è universale. Infatti nel mio libro Giuseppe esercita la stessa cura di Maria nei confronti di Gesù. La modalità è diversa, quasi più buia, perché non ha avuto l’Annunciazione; Giuseppe si prende cura di Gesù per fiducia, responsabilità, amore. Entrambi esercitano quest’arte che non legherei al fatto di avere o non avere un bambino, perché il fondamento è essere un’unica umanità. È chiaro che se si assume la responsabilità di “chiamare al mondo” una creatura, alcune cose si sentono molto di più. Maria è stata una madre normale che ha avuto le paure di tutte le madri, ma le ha superate»

C’è solo un piccolo particolare: lei è la madre di Dio. Che differenza c’è tra l’essere madre di un uomo e madre di Dio?

«È la domanda delle domande. Nel romanzo Maria ha la percezione che, “a volte sembrava che, per Gesù, non fosse sufficiente essere nostro figlio”. Io penso a lei come ad una madre normale che nell’arco del suo percorso scopre che “la vita è servire la vita”. Occupandosi di un bambino speciale si scopre speciale. È un percorso che tutte dobbiamo fare».

“Solo chi non sa niente dell’amore può pensarmi sola il giorno dell’angelo” dice Maria nel suo libro. Ed ecco che torna la figura di Giuseppe.

«Solo una teologia quasi esclusivamente maschile è molto preoccupata di allontanare Giuseppe da Maria subito, per preservarne non tanto la verginità, quanto l’unicità di Gesù. La presenza del falegname, attestata dai Vangeli, ha creato imbarazzo. Ne è stata anche modificata l’immagine: nel Vangelo non c’è scritto che Giuseppe fosse vecchio».

Maria che moglie è?

«Maria ha almeno trent’anni di vita coniugale. Non avevo grandi appigli sui Vangeli, ma li ho immaginati complici quando sono coricati, si confrontano e supportano a vicenda di notte, stesi, come fanno tutte le coppie. Maria non è sola, la solitudine non è la misura dell’uomo. Se si è soli la paura è amplificata, insieme la paura fa meno paura. Maria sa che Giuseppe capirà. Sa che sono in due».

Gesù è un bambino speciale ha ripetuto più volte. Che cosa insegna Maria alle madri di un bambino speciale?

«Le persone, scrivo nel libro, “ogni giorno misurano la normalità di Gesù”. Tutti facciamo così. Basta che un bambino esca un attimo dal canone. Che poi, qual è il canone universale dell’essere bambino? Non c’è. Dipenda dalla cultura, dal Paese di provenienza, dal tempo in cui si è vissuti. I bambini chiedono di essere visti. Oggi purtroppo manca il tempo, davvero i genitori non vedono e prevale la paura del futuro perché non crediamo più che il futuro sia migliore del passato. Siamo quindi convinti che la soluzione migliore sia la protezione. Il figlio diventa un problema da proteggere e non va bene. La prima cosa che devono avere i figli è una vita tutta loro».

Quando lei si è scoperta incinta come ha reagito?

«Ho avuto una folgorazione, un cambiamento di prospettiva circa il bimbo che avevo. Una volta che si è annunciato era chiaramente autonomo da me. Non potevo cambiarlo più, era maschio, aveva i capelli e gli occhi di un certo colore, eventuali anomalie. Non è che se covavo meglio mi veniva meglio, oppure meglio come volevo io. Avevo un unico potere negativo che era quello di fargli del male. Il figlio è altro da te. Non è di tua proprietà. È un messaggio fortissimo a tutti i genitori. Per Maria il bambino è davvero arrivato inatteso, in un contesto difficile come spesso accade oggi».

A lei, Maria che cosa ha insegnato?

«Maria, quand’ero piccola, non mi stava molto simpatica. Avevo un’immagine stereotipata, della donna del sì. E mi pareva remissiva. È stata una riscoperta legata a quando sono diventata grande e ho capito qualcosa dell’amore. Ho capito che tutta la storia di Maria è partita perché era con Giuseppe fin dall’inizio».

Maria può “aiutare” tutte le madri che hanno perso un figlio.

«“Non mi era stato permesso di morire per lui” dice, ed è quello che ogni madre pensa. Maria arriva alla morte di Gesù, non sapendo della Resurrezione, almeno non con certezza. Suo figlio era davvero morto, è diventato bianco tra le sue braccia. La mattina della Resurrezione dorme e non è al Sepolcro. Questo è molto umano: si addormenta perché scopre che quell’amore che li aveva legati ha una pretesa di eternità fin dall’inizio. Gesù è ancora vivo, è ancora con lei. Non va al sepolcro perché non ha bisogno di vedere, lei lo sa».

Lei porta il suo nome. Questo come la fa sentire?

«Io credo nel potere dei nomi. Il mio è composto; Maria è molto bello da solo. Sento tutti i sentimenti di grande responsabilità verso la vita».

Da La voce dei Berici, 31 maggio 2018