La ricerca e l’attesa del pastore

Riletto la prima domenica d’Avvento, quando i racconti del Natale si richiamano l’un l’altro e si va a ritrovare le immagini belle che hanno costruito la memoria dell’attesa. Il ricordo di questo romanzo portava con sé la neve, tantissima neve. E un pastore con un evangelico smisurato amore per le pecore che non sono rientrate all’ovile prima dell’inverno.

Se intanto qualcuno sta pensando che il pastore sia un predicatore e le pecore siano scribi, farisei, pubblicani o gabellieri passati o presenti, è esattamente quel che può capitare di pensare per un bel po’ di pagine quando si comincia a leggere Il pastore d’Islanda (Gunnar Gunnarsson, Iperborea, Milano 2016). È talmente estremo e lontano il mondo raccontato, un presepe d’Islanda bianco e gelato, che all’inizio lo si volta in metafora. Anche se in senso stretto nulla di ingannevole viene detto.

C’è un pastore che si chiama Benedikt. Ogni anno la prima domenica d’Avvento si mette in viaggio verso il pascolo comune che si estende fra le lingue del ghiacciaio. Stremba, ovvero «il duro», i pastori chiamano quella terra estrema. Benedikt si carica di provviste e scarpe di cuoio nuove, un fornelletto, alcol e petrolio e va tra le montagne ormai gelate, i pascoli coperti di ghiaccio, a cercare le pecore sperdute, quelle che erano sfuggite «ai tre raduni regolari dell’autunno» (7).

Con lui il cane Leó e il montone Roccia. La «santa Trinità». Così le persone chiamano fra loro il trio, e non c’è un’oncia di blasfemo, quello che i tre vanno a fare è davvero qualcosa di divino. Benedikt ha 54 anni, è un «uomo anziano», un «vecchio», e sono 27 anni che fa questo viaggio. Nelle fattorie costruite ai piedi delle montagne, il limite oltre il quale non si va quando il gelo arriva, ci sono contadini amici che rispettano il sacro rito annuale e lo attendono con affetto, per una parola, un caffè, un po’ di paglia per Roccia e un boccone di carne per Leó.

Il tempo butta malissimo e c’è chi lo vorrebbe fermare. Non sa capire perché Benedikt si ostini a rischiare la morte per delle pecore che non sono nemmeno le sue. Perché Benedikt è mezzo servo e mezzo contadino, ha pochissime pecore e sono tutte al caldo nella loro stalla. Da 27 anni va a cercare le altre semplicemente perché ogni essere vivente ha il diritto d’avere qualcuno che prova a salvarlo. Questo per quel che riguarda le pecore è gran bene, evidentemente. È il bene.

E per Benedikt? Il tempo impiegato, il rischio. Perché lo fa? C’è un momento, proprio all’inizio del viaggio, quando le nuvole promettono bufera e forse deve ritardare di un giorno la partenza dall’ultima fattoria che l’ha ospitato, e ogni giorno in più è pericolo in più, c’è un momento in cui arriva un contadino inatteso, in fattoria, uno che ha ancora un po’ di gregge in quota e con ogni evidenza intende approfittare dell’esperienza di Benedikt per radunarlo e portarlo giù e per questo arriva a chiedere il suo aiuto, ritardando ancora la partenza di Benedikt per i pascoli più lontani, quelli dove le pecore si perdono davvero.

I contadini amici di Benedikt tentano di convincerlo a rifiutare l’aiuto: «“Se li aiuti a radunare il loro gregge sprecherai almeno due giorni”. “Oh, sprecare…”, mormorò Benedikt quasi tra sé. Avrebbe preferito non doversi esprimere su un argomento tanto spinoso. Perché se viene un uomo che deve radunare il suo gregge, e lui e Leó e Roccia si trovano a portata di mano, e forse sono indispensabili, che altro si può fare se non mettersi a sua disposizione» (30).

Ecco. Cosa altro è la vita, se non servire la vita? E così, grazie a questo servire, poter anche vivere. Esattamente, quale vita è davvero sprecata? C’è un preservarsi nelle buone intenzioni e nelle buone azioni che non vede la vita, il suo chiamare adesso.

L’attesa dell’Avvento non ha niente a che fare con l’indolenza o la passività. È questo agire senza pretese, che va incontro alla Grazia che a sua volta arriva senza avanzare pretese, dono che cambia le cose per sempre. Per le pecore salvate e per chi le ha salvate, che così ha potuto restare uomo, naturalmente responsabile verso la vita.

Intorno alla santa Trinità c’è una natura da primo giorno della creazione, un attimo dopo la suprema Parola creatrice. Sia la luce. Quanta luce, tutta neve, tutte nuvole bianche, tutto vento che soffia. E poi tutto buio la notte, niente luci delle case, la luna chissadove. Ma la natura contiene la promessa: «Come nata da tutto quel bianco… c’era in quella domenica nel distretto di montagna una solennità che stringeva il cuore» (12).

In effetti non riuscirà a tornare per Natale come sempre faceva Benedikt: «Le difficoltà superate, le pecore sane e salve nella stalla, e lui seduto nella chiesetta, con l’animo colmo di gratitudine e solennità» (51). Tarderà e ci sarà chi lo andrà a cercare, e questa sarà l’occasione per capire che addirittura un erede capace di continuare la sua ricerca dell’Avvento si sta preparando.

«Quando la festa si avvicina, gli uomini si preparano a celebrarla, ognuno a modo suo» (7). Essere in viaggio per non lasciare indietro nessuno, nemmeno qualche pecora che non è nemmeno nostra, è un gran bel modo di prepararsi a celebrare la festa.

Da Il Regno, 15 dicembre 2019.

Segui il desiderio

Un viaggiatore e narratore dalla profonda spiritualità, l’inglese Bruce Chatwin, descriveva così il territorio degli sherpa del Nepal, ai piedi del monte Everest: «Ogni pista è contrassegnata da cumuli di sassi e bandiere da preghiere, messi lì a rammentare che la vera casa dell’Uomo non è una casa, ma la Strada, e che la vita stessa è un viaggio da fare a piedi».

Lo stesso Chatwin – che per sé volle un funerale secondo il rito della Chiesaortodossa – ribadiva la sua preferenza per il nomadismo rispetto alla stanzialità ricordando una visita al Museo Egizio del Cairo: «Vedevo file e file di maschere dei faraoni. E mi chiesi: dove sono le maschere di Mosè? Credo sia stato in quel momento che incominciai a provare simpatia per chi non si lascia dietro del ciarpame. E capii che a me interessava l’altra faccia della medaglia». Viaggiare, dunque, è davvero una necessità dello spirito? Come si può conciliare la spinta a recarsi altrove, il desiderio di ammirare il mondo da una prospettiva nuova, con l’antico precetto dalla saggezza monastica per cui l’uomo non dovrebbe fuggire lontano da se stesso, ma cercare la verità nel fondo della propria anima? Sul possibile significato spirituale e religioso dei viaggi e delle vacanze abbiamo interpellato una delle scrittrici contemporanee più sensibili al rapporto tra gli affetti umani, la bellezza degli ambienti naturali e la dimensione della fede, Mariapia Veladiano, autrice di «La vita accanto», «Il tempo è un dio breve», «Ma come tu resisti, vita» (pubblicati da Einaudi) e di «Una storia quasi perfetta» (Guanda).

«Qui si parla di un viaggiare che è assoluto privilegio – sottolinea Mariapia Veladiano –, non del viaggiare inevitabile della migrazione per necessità o della fuga dalla guerra o dalla persecuzione: questo viaggiare è la traccia visibile e tremenda dell’ingiustizia, di una terra e un’umanità che non hanno saputo costruire il giardino della convivenza. Il viaggiare libero è storicamente legato al benessere e alla cultura. Viene dalla curiosità, dalla ricerca di un sé consapevole di abitare un mondo più grande di quello in cui si è cresciuti. Viaggiare è trovare una distanza da cui leggere la nostra realtà, è riconoscere la diversità come respiro normale della vita, è vivere bellezze diverse, sorpresi da qualcosa che nemmeno potevamo immaginare. Certo che la verità su noi stessi può essere trovata in molti modi, ma la strada è sempre quella di accettare il movimento, un movimento metaforico o reale, ma sempre un viaggio è questo essere veri perché coincide con l’esser vivi, capaci di accogliere il movimento della vita. La vita non è mai immobile».

Ci sembra che nei suoi libri e nei suoi articoli ricorrano spesso descrizioni e allusioni a quelli che parrebbero essere i «luoghi dello spirito» da lei prediletti, dalle montagne dell’Alto Adige alle città universitarie tedesche. Sperando di non essere troppo intrusivi: qual è, in assoluto, il luogo a lei più caro?

«Quello a Parigi è stato un viaggio che ha segnato un prima e un dopo nella mia vita. Andarea Parigi a vent’anni partendo da una provincia piuttosto prudente (quella di Vicenza, ndr.), da un liceo buono e serenamente appagato del suo riprodursi sempre uguale nei decenni è stato un terremoto. Parigi è il centro del mondo. Ho incontrato la bellezza assoluta dei musei, delle sere sulla Senna, dei libri ovunque, modernità accostata al passato con una audacia accolta come normalità del costruire il mondo. E poi lo schianto con la povertà visibile ovunque. Ricchezza e povertà. Bellezza e miseria. E vita vita vita. Ho imparato a tenere insieme tutto della vita. A non avere paura. Ad avere una percezione fortissima del privilegio di essere nata nella parte fortunata del mondo e ad essere grata, ad avere sempre presente che questo è privilegio e che bisogna riparare l’ingiustizia. Tutto questo è venuto da un viaggio. Poi sono andata a Parigi ancora decine di volte, anche solo per un giorno, a ritrovare questo sentimento e a ringraziare. La basilica del Sacré-Coeur, a Montmartre, è per me una meta di pellegrinaggio. Anche letterario. Là passeggiavano Jacques Maritain e Léon Bloy. Nel tempo si è aggiunta la montagna, soprattutto la montagna d’inverno, come luogo del cuore. In alta montagna scrivo e cerco i piedi del trono di Dio».

Oltre che una letteratura, non vi è anche una «mitologia» – in senso deteriore – dei viaggi? Capita che si vada a Roma o ad Agra non per visitare San Pietro o per contemplare il Taj Mahal, ma per farsi fotografare avendo questi edifici sullo sfondo. Forse pensando a comportamenti del genere, Sartre faceva dire al protagonista de «La nausea» che di viaggi e di avventure proprio non ne esisterebbero: da un luogo geografico a un altro, noi porteremmo solo la nostra insoddisfazione («E poi tutto si assomiglia – conclude Antoine Roquentin –: Shanghai, Mosca, Algeri, in capo a una quindicina d’anni è tutto uguale»).

«C’è un viaggiare con i sensi, un sentire suoni nuovi, vedere colori nuovi, ascoltare parole dalla musica nuova e diversa, i movimenti delle persone. Questo viaggiare ci cambia sempre. Poi certo c’è un viaggiare distratto. Il trascinare la propria insoddisfazione può capitare oggi che il viaggiare è facile, non è la conquista di mesi di risparmi, di sogni, di un fare e disfare programmi e itinerari che diventa già un conoscere prima di partire. Può esserci un consumismo del viaggio, come c’è per la cultura, per i forzati dei musei e delle mostre di moda; o come c’è per l’amore, che è “eterno” per qualche mese ed è sempre da esibire e raccontare sui social. È il rischio di una modernità veloce che frulla un po’ tutto. Ma viaggiare rimane sempre una buona
idea».

Nell’ipotesi che a viaggiare veramente si riesca, che tutto non si riduca a stordimento o ai souvenir da acquistare al volo per poterli poi mostrare agli amici: quale sarebbe l’atteggiamento caratteristico di un vero pellegrino, di un «viaggiatore spirituale»?

«La capacità di seguire il proprio viaggio immaginato, sognato, con tutta la libertà possibile. Possibile perché sarebbe artificioso anche lo sforzo di lasciare qui i pensieri. Come si fa a lasciare i pensieri? Si parte con tutto quel che siamo. Ma seguendo un desiderio. Vedere le nevi eterne (parlo per me, vorrei tanto andare in Tibet), entrare in una cultura che affascina: conosco persone che sono andate in Islanda o in Nuova Zelanda sulla strada di questo sogno. Il viaggio spirituale è semplicemente il viaggio che ci trasforma e ci fa riconoscere quel che siamo e che talvolta dimentichiamo di essere perché la nostra vita è un vortice troppo esigente».

Si può riuscire a viaggiare «ogni giorno», anche dopo che si è fatto ritorno a casa? A trovare la novità dello spirito non solo sulle Dolomiti o ad Assisi, ma pure nelle aree più grigie e disanimate delle nostre città, nei «nonluoghi» di cui parla l’etnologo Marc Augé?

«È una conquista. Parte da un atto di volontà e richiede una disciplina. Lo spazio della preghiera o della meditazione o semplicemente del passeggiare come appuntamento con noi stessi, un vedere il mondo che ci circonda. Poi può diventare habitus, può trovare una propria naturalezza questo piccolo vero vivere illuminazioni quotidiane che possono essere il senso di un evento, una piccola gioia trovata nella bufera dei giorni. Ma non viene da solo. Oggi è davvero una conquista».

G. B.

Su L’Eco di Bergamo, 8 maggio 2016