Mariapia Veladiano racconta “Una storia quasi perfetta”

Una storia quasi perfetta” nasce da un primo nucleo molto lontano. È la storia di un vecchio professore di discipline plastiche, vecchio e “malamente malato”, invecchiato male, con una sostanza di degenerazione dello spirito che gli avvelena il corpo insieme alla malattia fisica e all’età, che non necessariamente è malattia in sé, in lui sì.

Ma lui è famoso, il suo nome è importante e di questo il professore approfitta per circondarsi di allieve giovani e piene di vita. Sa leggere il loro desiderio di essere riconosciute, come donne e come artiste, e le seduce, sadicamente e senza grazia. Ne prende l’energia e la giovinezza.

Questa storia ha occupato il pensiero e la scrittura per molto tempo. Presa, lasciata, ampliata. Ma non riuscivo a farle avere un movimento. Era come un quadro, ma non diventava storia. Mancavano i personaggi intorno, il luogo giusto. L’Accademia di Venezia, certo, lo studio del professore, ma non succedeva abbastanza, intorno a loro non si muoveva il mondo. E del resto quel che cercavo era un duetto, una storia a due che esplorasse quel che capita quando si cade nella trappola del perverso.

Un passo molto difficile da compiere, quando si scrive, è rinunciare a qualcosa su cui si è così tanto lavorato da sentirlo già creatura, e come si fa a rinunciare alla propria creatura per quanto non ci piaccia? È misto di orgoglio – non posso aver lavorato così male – e paura – allora questa storia proprio non nasce, è “brutta”. E c’è anche la paura di non riuscire a farsi venire un’altra buona idea. Il blocco.

Di solito fa bene lasciar lì e lavorare ad altre scritture. È una piccola liberazione con tarlo annesso, perché il pensiero dello scartafaccio abbandonato resta lì, ombra sullo sfondo del pensiero.

E di solito allora, a sorpresa, fra un articolo e un altro, o a colazione, o sfogliando un giornale, capita che da solo il personaggio si anima. Va verso una direzione. In “Una storia quasi perfetta” Bianca si è spostata da Venezia, è cresciuta, ha trovato un lavoro, ha recuperato la sua casa di famiglia e soprattutto è rinata insieme al piccolo Gabriele, figlio che dà la vita alla propria madre. Qualcosa di divino e insieme esperienza umanissima di ogni genitore.

La sua nuova vita è costruita e insieme difesa attraverso un preciso progetto di riparazione attraverso la bellezza. Bianca non lo fa consapevolmente, ma nella casa piena di fiori, nelle tavole assolutamente perfette che disegna, nella passione per il suo lavoro di insegnante mette la volontà di riparare il male vissuto attraverso la bellezza. E qui, in questo punto della sua vita, Bianca incontra un uomo, un amore che come ogni amore rimette in gioco tutto. Si può amare di nuovo, fidarsi? “Io non posso essere lasciata cadere” dice Bianca a quest’uomo. Non dice “Non voglio cadere o non posso cadere”. Dice che non può essere lasciata cadere, che deve fidarsi perché fidarsi, amare, vivere è necessario, ma che lui non deve lasciarla cadere. Non tradire di nuovo la fiducia.

L’evoluzione della vita di Bianca ha portato con sé la scelta di passare dalla prima alla terza persona. I due precedenti romanzi sono scritti i prima persona. Anche il primo nucleo di questo, la storia di Bianca e del professore, era in prima persona. Ma l’incontro fra Bianca e il nuovo amore ha imposto la terza persona perché questo mi permetteva incursioni continue nel pensiero di lui. Il narratore onnisciente è una tentazione perché permette di giocare con i tempi della storia e con l’interiorità delle persone. Qui la scelta è stata di limitare l’onniscienza. Si alternano sì le prospettive di lettura dei sentimenti ma a parte una minuscola anticipazione che sta all’inizio della storia e che ho messo e tolto almeno dieci volte e alla fine ho lasciato, a parte questa anticipazione la narrazione segue il tempo della storia.

Ecco. Poi il tema della bellezza si accompagnava spontaneamente al tema dei fiori, della natura, che c’è in tutti i miei romanzi. E anche al tema della musica, dei suoni, dei suoni delle parole.

Così è nato il romanzo. Il nucleo iniziale è diventato un paragrafo in un capitolo. La storia vera doveva ancora nascere quando pensavo di averla trovata.

© Mariapia Veladiano

© Letteratitudine

la letale perfezione della seduzione

 

Un Don Giovanni e un’artista sullo sfondo di una Vicenza modaiola e malevola

di Sergio Frigo

Beffardo scherzo del destino, per Mariapia Veladiano, che accompagna oggi in libreria il suo ultimo romanzo, “Una storia quasi perfetta” (edito da Guanda e non più da Einaudi, € 17), e contemporaneamente accompagna la mamma novantenne nel suo ultimo viaggio. “Se n’è andata per sempre”, dice lei, esattamente come la sua protagonista, Bianca, alle prese con le ferite dell’amore che la mamma, prima di morire, ha cercato di suturare con un testamento di affetto e di parole. Sono inserti che compaiono tra i capitoli a fare argine alla disperazione, un lascito amoroso che dovrà bastare alla figlia per superare un investimento affettivo disastroso.

La catastrofe però deve prima avvenire, e abbattersi su di lei con tutto il suo carico di morte: ha le sembianze di un uomo fascinoso ma senza nome (“non lo merita”, taglia corto la scrittrice, che pure l’ha cesellato con acume e profondità) in un microcosmo in cui i nomi hanno importanza decisiva. Lui ha una piccola ma agguerrita azienda di design per collezioni di moda e oggettistica, ma è soprattutto un seduttore seriale (genere Don Giovanni, non Casanova che si innamorava davvero delle sue conquiste).

Lei è una sensibile, misteriosa ma… candida pittrice, soprattutto di fiori, che si presenta a lui coi suoi lavori bellissimi, la sua eleganza e intelligenza, il suo fisico seducente; lui ne è catturato, vuole i suoi disegni, vuole il suo corpo ma soprattutto la sua anima, come ha sempre fatto con le donne, incurante di lasciarsi dietro una scia di dolore e forse di morte. Per raggiungere il suo scopo mette in campo tutte le sue arti, in particolare la capacità di cesellare parole e concetti, magari rubati alle vittime precedenti. Mariapia Veladiano, che ha al suo attivo due libri in qualche modo austeri come “La vita accanto” (premio Calvino e secondo allo Strega) e “Il tempo è un dio breve”, mostra un’insospettata perizia nel raccontare il brillante ma futile mondo dei creativi (indimenticabile il ritratto della Pr Costanza, fedelissima al capo); si addentra con sicurezza negli oscuri meandri mentali dell’uomo, ma dà il meglio di sé nel definire (senza depotenziarne la carica sensuale) il meccanismo della seduzione, che si dispiega distruttivo e apparentemente invincibile.

Stavolta però non sarà la solita storia: Bianca ha dalla sua gli affetti di famiglia (i genitori scomparsi ma sempre presenti, un figlio e una sorella), la forza della bellezza e dell’arte, e anche un’alleata inaspettata in una Vicenza malevola che ne aspetta solo la caduta.

Ce ne sono tanti di personaggi così, chiediamo, e come si riconoscono?

“È facile trovarli in certi ambienti, ma non sono molti. Si riconoscono perché sono troppo perfetti. Diffidare da chi è troppo perfetto”.

Perché le donne, anche le più intelligenti, cadono nella rete e non riescono a uscirne?

“Questo è un seduttore raffinatissimo, e lei non pensa che si possa essere così falsi. E poi… ci si innamora, e basta”.

Le piante, fin dalla copertina, hanno grande importanza nel romanzo. Anche nella sua vita?

“Certamente, non per niente vengo da una famiglia contadina. La cura per la vita delle piante e quella delle persone ha le stesse caratteristiche, non si può intruppare, ha bisogno della stessa attenzione individuale; lo vedo anche a scuola, dove ci sono ragazzi che necessitano di rimproveri e altri soprattutto di riconoscimenti”.

Da Il Gazzettino, 28 gennaio 2016

Vi racconto la storia di una seduzione

Sul prossimo libro, in uscita in gennaio 2016 presso Guanda, il quotidiano indipendente del Trentino L’Adige è uscita una lunga intervista con Paolo Ghezzi,  in cui racconto la storia di una seduzione.

E tre. Mariapia Veladiano – già dirigente scolastica in Trentino e ora a capo di un megaistituto tecnico nella sua Vicenza – che ha incantato tutti con il suo romanzo d’esordio La vita accanto (Premio Calvino 2010) – storia poetica e tragica di una ragazza prigioniera del proprio viso inguardabile – e ha commosso con il numero 2, un intenso libro esistenzial-teologico sull’amore (Il tempo è un dio breve, 2012), ha consegnato il suo terzo romanzo, che uscirà a metà gennaio.

Lo spiega in questa intervista all’Adige alla vigilia del suo ritorno a Trento, domani sera, per il dialogo con don Luigi Ciotti che inaugura la settimana dell’accoglienza del Cnca.

Dunque, Mariapia, da Einaudi passa a Guanda: una scelta anti-fusione Mondazzoli?

«No, ho deciso di uscire ben prima, Guanda è una bella casa editrice, Gems è un bel gruppo. A 4 anni dall’ultimo libro, ho cambiato».

Titolo?

«Una storia quasi perfetta».

In copertina?

«L’ho scelta io, come le altre due: c’è un’opera dello stesso autore, Yamaguchi Kayo, che ha firmato la copertina del “dio breve”. Stavolta, è una cascata di foglie di cachi con un gatto nero, il titolo è “Les kakis”. E, importante per me, c’è un gatto. Nero. Lui aveva un gatto».

Di che cosa parla, la storia quasi perfetta?

«Ancora una volta di una donna. Ma stavolta è una storia di seduzione».

Sedotti e seduttori, di tanto in tanto, lo siamo tutti. Senza arrivare alle compulsioni comicotragiche di don Giovanni. Ambientata quando e dove, la storia?

«A Vicenza, che però anche stavolta non viene nominata, una Vicenza piena di fiori e profumi. Una storia contemporanea. Una storia di relazioni, quasi solo di persone. Lei è una disegnatrice, c’è il mondo dell’arte…».

Lei è una perfezionista, sono passati quattro anni dall’ultimo romanzo: immagino che ne sia convinta…

«Ne sono contenta, era una mia vecchia cosa che ho ripreso in mano, ci ho lavorato a lungo».

Leggeremo con passione: lei è una di quegli scrittori che, quando pubblicano, si capisce che lo fanno perché hanno qualcosa di urgente, di importante da dire. Ma importante, decisivo oggi in Europa, è anche il tema dell’accoglienza, su cui Vincenzo Passerini l’ha chiamata a parlare a Trento, lunedì. Ci anticipa qualcosa?

«Partirò, credo, da questa nostra società poco accogliente. A cominciare da un’architettura pensata e fatta per l’individuo, non per la comunità: viviamo in città non accoglienti, con i condomini senza spazi, sollevati dal suolo per far spazio ai parcheggi. I bambini fanno fatica a trovare varchi per toccare la terra. Le case sono ridotte a oggetti di possesso individuale, non destinate alla condivisione: sono merce da scambiare, diventano recinti, spazi separati, dagli steccati della paura».

Paura, confessata e non, che è al centro della politica sull’immigrazione.

«Il tema della paura viene coltivato da qualsiasi governo, di destra o di sinistra, come strumento per limitare la libertà. Noi saremmo più accoglienti che paurosi e invece educhiamo anche i bambini alla paura, che ci blocca non solo nei confronti di chi viene da lontano, ma anche di chi è molto vicino».

Ci sono terre d’Italia dove più viene coltivata, politicamente, la paura?

«Credo che dappertutto ci siano Caritas generose e rioni, terre private dove non prevale la paura: e non per eroismi solitari, di cui dobbiamo diffidare. A Vicenza c’è stato il caso di un gruppo di migranti destinati a un appartamento in viale Milano, una strada centrale, in un condominio, tutto regolare e gestito meravigliosamente da una comunità d’accoglienza: ma c’è stata una sollevazione straordinaria e sono stati allontanati dal prefetto. In pochi, si fa fatica. L’accoglienza funziona dove c’è un’amministrazione che se ne fa carico, come ho visto a Lecco, che inserisce i migranti a lavorare gratis nei servizi pubblici».

E sul piano culturale, come passare dalla paura all’accoglienza?

«Il rischio è che alcuni “buoni” vengano delegati al compito di essere accoglienti: diventano come la riserva indiana di tipi bizzarri o pericolosi, da cui pescare foglie di fico per coprire le vergogne della società. Il rischio è sul piano del linguaggio: nei media è in voga una koiné linguistica non accogliente. Buona parte del linguaggio pubblico – al di là dei proclami – risponde al sospetto che l’immigrazione sia un problema da risolvere invece che una realtà della storia, come tante altre volte è capitato. Che va accompagnata con tutta l’intelligenza e la prudenza possibile, senza improvvisare in extremis».

Il futuro dipende, anche in questo caso, da una scuola davvero «buona»?

«La scuola è il grande laboratorio della convivenza possibile: se comincia ad esserlo oggi, tra vent’anni si vedranno i frutti. La scuola pubblica ha questo compito, se no può morire. Suddividere i ragazzi tra scuole cristiane, musulmane e laiche sarebbe fallimentare: la scuola è imparare tutti insieme. La scuola trentina, in particolare, ha ottimi progetti di integrazione: ha un progetto vero. L’inserimento in una classe di un alunno straniero a gennaio sta diventando una normalità, non dev’essere visto come emergenza».

Nostalgia della scuola del Trentino?

«Ho nostalgia perché in Trentino avete un amore vero per la scuola, che da molte altre parti manca. E non è solo una questione di soldi dell’autonomia».

A proposito di bambini e immigrazione, abbiamo bisogno dello shock emotivo dei corpicini senza vita sulle spiagge per cambiare le politiche dell’accoglienza?

«Basterebbe quel che già sappiamo, colpisce il peso che hanno queste immagini. Sembra che non basti riconoscersi nella comune umanità di un’unica vita da giocarsi, loro come noi. Ma se l’impatto emotivo cambia le politiche nell’immediato, qual è l’effetto a medio termine? L’Ungheria ha comunque continuato per la sua strada, così la Polonia».

E allora, ancora una volta: che fare?

«Credo molto di più nella forza della ragione, anche nella fede per chi crede: ma basta la ragione, che non è una forza da poco. L’emotività invece è una forma di debolezza del pensiero».

Se avesse diretto La Repubblica, l’avrebbe pubblicata, la foto straziante del piccolo Aylan Kurdi?

«Non sono per la censura, ma per il rispetto dei codici etici dell’immagine. Forse l’avrei messa in un contorno importante di altre immagini, che aiutassero alla riflessione e non ci abbandonassero alla forza delle emozioni. Voglio dire: non l’avrei lasciata sola».

Da L’Adige, 11 ottobre 2015.

Intervista su L’Adige