Amoris laetitia: come un romanzo

Un romanzo di romanzi, storie nella storia, digressioni, poesia, descrizioni, dialoghi con altri autori, sacri e no. L’esortazione postsinodale Amoris laetitia è un documento lungo e ha le caratteristiche di tanti documenti ecclesiali che lasciano intuire mani diverse dietro le parole.

La mano che allinea i documenti del magistero, quella più giuridica, quella preoccupata di non dimenticare niente come se ogni documento dovesse riassumere l’universo insegnamento della Chiesa, ma è qualcosa che si capisce, perché davvero tutto si tiene nella fede come nella vita. Poi arriva la voce, la voce di chi il documento lo ha voluto, lo firma, lo ha sognato, immaginato, difeso dai realisti più realisti del re, dai pavidi, da quelli che sul carro salgono sì ma seduti dietro e con i piedi penzoloni (l’immagine la riferiva don Gianfranco Cavallon, acuto e sottile direttore dell’Ufficio catechistico della diocesi di Vicenza un certo numero di anni fa). Da chi il carro lo guida, insomma, spesso da solo. In questa esortazione la voce di Francesco è in ogni pagina, nell’«incontro che guarisce la solitudine» celebrato nel Cantico dei Cantici (n. 13), nella «situazione delle famiglie schiacciate dalla miseria, dove i limiti della vita si vivono in maniera lacerante» (n. 49), nelle «famiglie malate di un’enorme ansietà» (n. 50), nel «creato che ci precede e dev’essere ricevuto come dono» (n. 56).

Abbiamo imparato a riconoscere la voce propria del papa che viene dai confini del mondo e che ascolta il mondo. Ma la sua voce non è (più) sola. C’è un coro buono di voci che arrivano dalle due assemblee sinodali sulla famiglia, le più pirotecniche che la Chiesa ricordi. Nel senso del fuoco che ardeva nel cuore, e allora invece di pirotecniche si potrebbe dire evangeliche, perché anche i discepoli di Emmaus il fuoco lo sentivano. E anche gli apostoli a Pentecoste lo hanno conosciuto. E Mosè nell’Antico Testamento lo vedeva.

In questo senso l’esortazione è un romanzo. Si racconta come le parole della Chiesa vengano dall’ascolto di storie vere che così arrivano con la loro carica di incompiutezza, imperfezione, fragilità e anche ribellione. Il peccato, sì, inteso nella sua radice più comune, il voler essere come Dio, non accettare d’esser regalati, di ricevere in eredità per custodire e poi restituire. La semplificazione è una tentazione. Il voler chiudere la vita in un cerchio dottrinale è una tentazione. «Non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con l’intervento del magistero» (n. 3).

Le parti più belle sono quelle meno riparate o sigillate in una risposta, quelle che non chiudono il cerchio e lasciano la breccia alla critica di chi dice «ma dove andremo a finire?». E invece la domanda è: «Dove siamo andati a finire a voler tutto definire e chi non è dentro è fuori?». Si parte da questo. La vita così è. Tremenda, bella, imperfetta, finita, incompiuta. La vita non chiude i cerchi.

Nella nostra fede e speranza il cerchio chiuso è quello dell’abbraccio di Dio. La sospensione del giudizio è affidamento e insieme accoglienza e salvezza, per noi e per loro, tutti quelli che vorremmo giudicare. Quel che conta è l’amore che tutto comprende. Tutto. Anche la scomposizione della famiglia e lo sfrangiamento dell’amore come oggi lo conosciamo.

Ci sono troppi elenchi di situazioni troppo diverse che accostate fanno sobbalzare e anche un poco arrabbiare. Non si può, in un elenco, mettere una di fila all’altra la prassi della poligamia e quella della convivenza (n. 53). Manca il rispetto della storia. Ma anche qui si capisce la volontà di non lasciar fuori niente dall’annuncio che tutti siamo dentro la Chiesa che ama sul modello dell’amore perfetto di Dio. Quel che conta è l’amore e il giudizio, la norma, la dottrina non sono l’ultima parola.

E poi c’è questa splendida accoglienza del desiderio: «Provare un’emozione non è qualcosa di moralmente buono o cattivo per sé stesso. Incominciare a provare desiderio o rifiuto non è peccaminoso né riprovevole. Quello che è bene o male è l’atto che uno compie spinto o accompagnato da una passione. Ma se i sentimenti sono alimentati, ricercati e a causa di essi commettiamo cattive azioni, il male sta nella decisione di alimentarli e negli atti cattivi che ne conseguono. Sulla stessa linea, provare piacere per qualcuno non è di per sé un bene. Se con tale piacere io faccio in modo che quella persona diventi mia schiava, il sentimento sarà al servizio del mio egoismo. Credere che siamo buoni solo perché “proviamo dei sentimenti” è un tremendo inganno. Ci sono persone che si sentono capaci di un grande amore solo perché hanno una grande necessità di affetto, però non sono in grado di lottare per la felicità degli altri e vivono rinchiusi nei propri desideri» (145).

Non si può rimproverare a un documento della Chiesa di non celebrare il presente così come sta o come si sta trasformando. Quando nel passato lo ha fatto, con il potere soprattutto, ha sbagliato.

Ma c’è qui una strada limpidamente disegnata. Quando Francesco dice rispetto alle situazioni di «fragilità e imperfezione» che «due logiche percorrono la strada della Chiesa: emarginare e integrare» (n. 247) e subito dopo conclude che «si tratta di integrare tutti», perché la misericordia è «immeritata, incondizionata e gratuita», qui la strada è disegnata.

Su Il Regno, aprile 2016.

Il Regno - quindicinale di attualità e documenti
Il Regno – quindicinale di attualità e documenti

le donne di papa Francesco

E ADESSO le donne. Si sta limpidamente disegnando una strada, questo Papa. Prima un nome, Francesco, da cui non si può tornare indietro. Impossibile decidere liberamente di chiamarsi Francesco e poi far finta di niente. E infatti. Poi, subito dopo, i non credenti. Il nostro mondo ne è pieno e lui li ha improvvisamente visti. Non come pecorelle da riportare al covile, ma come espressione di una legittima, razionale, onesta possibilità della nostra vita. E adesso le donne.

Alla seconda udienza generale, con l’ urgenza irrituale che porta fuori dal foglio scritto, parole dette con ancora gli occhi di tutto il mondo addosso. Perché le donne? Perché abitano con impensabile pervasività l’ Antico Testamento e il Vangelo, ad esempio. Oltre che il mondo, naturalmente, e la comunità credente, soprattutto quella cattolica. Gli uomini a messa la domenica sono ormai casi spirituali felici e solo una colossale operazione di rimozione, se non si vuole pensare a un premeditato intento difensivo, ha potuto mantenere marginale il ruolo delle donne nella Chiesa. Oggi, sulla questione della donna al suo interno, la Chiesa è, come si dice con linguaggio teologico, in statu confessionis, ovvero sta o cade. Perché è un problema di Verità, non di laica equità (e forse già questo basterebbe).

Nell’Antico Testamento una quantità di donne hanno aperto le porte alla salvezza del popolo ebraico. Nei modi più irrituali, anche loro. Come Giuditta che dalla sponda di una fede che i maschi di Betulìa non sanno immaginare, libera, inaudita, con l’ arma di una bellezza provocante e profana, salva l’ intera città. Salva i bambini che cominciavano a morire. Fino a Maria del Vangelo. Ha avuto per prima Dio fatto bambino fra le sue braccia, ne ha saputo la verità di corpo da difendere, affidato a tutte le cure, da tutti dipendente. Lo ha cresciuto come figlio per il quale preoccuparsi, incomprensibile come ogni figlio, altro da sé, come ogni figlio, come Dio, e ha saputo, come solo una donna sa, la suprema offesa della morte di un figlio, del corpo morto di Dio. Offesa alla promessa che la vita porta inscritta. Infinita offesa all’ idea di Dio infinitamente vita. Donne comuni e come tutte speciali hanno seguito Gesù nella libertà impensata di partire e uscire dal loro ruolo scolpito dalla storia disegnata dai maschi. Altre donne hanno saputo per prime che la morte non è l’ ultima parola, perché non hanno avuto paura di seguire la furia degli uomini che mettevano a morte, e poi di vedere e di raccontare. Raccontare la Risurrezione. Parole di vita. Questo ha detto Papa Francesco: «Le donne nella Chiesa hanno un ruolo particolare, aprire le porte al Signore». È tutto, assolutamente tutto. La lunga stagione della teologia femminista che aveva raccontato i limiti scandalosi di una teologia “naturalmente” al maschile è finita senza lasciare il più atteso dei risultati, ovvero la strada di una condivisione della responsabilità nella Chiesa che non passi attraverso il genere e attraverso l’ ordine sacro. Ed è stato facile confondere e mescolare le cose. Niente sacerdozio alle donne, niente corresponsabilità. La teologia femminista accusata di finire nei rivoli delle rivendicazioni.

Difficile oggi continuare a far finta di niente davanti a una Chiesa fatta soprattutto di donne credenti, catechiste, animatrici liturgiche, teologhe, del tutto rappresentata nei ruoli della responsabilità da un mondo di uomini. In abiti, in fondo, piuttosto femminili. E al di là di tutto quel che di storico e sacro si può dire su questo, non potrebbe essere semplicemente la traccia di una verità rimossa che non può tacere? Non serve una nuova teologia femminista, serve solo una teologia onesta fino in fondo, libera di vedere tutto il femminile del Vangelo, di darci quello che fino a ora non abbiamo avuto della verità tutta intera, un mondo nuovo possibile solo se gli uomini sono liberi dalla paura. Di perdersi perdendo un ruolo che hanno colpevolmente o no costruito come esclusivo. Serve una libertà nuova. Ci si perde come uomini e come cristiani se si continua così.

Invocare la tradizione della Chiesa per impedire la parola che cambia vuol dire lasciare il campo alla paura. La tradizione ha il senso profondo di riconoscersi figli nella fede millenaria di chi ci ha preceduto e non dèi solitari e spavaldi. Ma la verità che oggi i cristiani vivono è figlia di altre impensabili rotture. Il divino pensato altro dal mondo e immortale e eterno si è fatto uomo. È morto e ciò che è pensato morto per sempre è invece risorto. Possibile che davvero l’ unica cosa che di impronunciabile rimane nella chiesa sia un nuovo ruolo della donna al suo interno?

Da La Repubblica.it, 4 aprile 2014