vedere l’amore

Si può scoprire d’amare in modo smisurato una persona solo dopo che questa non c’è più. Oppure si può scoprire l’amore smisurato di questa persona per noi solo dopo che questa non c’è più. Oppure tutte e due le cose. È sempre tremendo non riconoscere l’amore. È struggente. Ma c’è anche chi ama di un amore che non s’impone, capace di sparire trasformandosi in azioni e attenzioni quotidiane così naturali e così minute che scorrono silenziose e invisibili.

Prenditi cura di lei (di Kyung-Sook Shin, Neri Pozza, Vicenza 2011) è la storia di un amore fatto così. È la vita di una madre, che si chiama Park So-nyo. Si è sposata giovanissima con un uomo per lei scelto dai genitori, come usava e usa ancora qua e là nel mondo, in questo caso la Corea del Sud.
Per più di cinquant’anni si è presa cura di tutti. Nella povertà assoluta della campagna coreana della seconda metà del secolo scorso, ha ogni giorno strappato il cibo alla terra.

Aveva «mani che potevano far crescere qualsiasi forma di vita» (124). Sapeva lavorare ogni tipo di prodotto: «Nel ripostiglio teneva bottiglie di vetro di ogni dimensione, piene di succo di prugna o di fragola selvatica… c’erano vasetti colmi fino all’orlo di pesciolini e molluschi fermentati oppure di pasta d’acciughe… se sentiva dire che le cipolle giovavano alla salute, faceva il succo di cipolle, e prima dell’inverno preparava succo di zucca con infuso di liquirizia» (8). Seminava, zappava, allevava pulcini, cucinava, lavava i piatti e le lenzuola, puliva tutto sempre e tutti ritenevano normale che lo facesse semplicemente perché lo faceva e faceva insieme mille altre cose, s’interessava ai figli, li esortava fieramente a studiare, li redarguiva se si lasciavano andare.

Quando poi i figli vanno via, lei telefona loro regolarmente, s’informa minutamente delle loro vite, poiché non sa scrivere detta le lettere in cui dà notizie, rassicura, raccomanda. E poi, regolarmente, lei contadina senza cultura e mezzi, va a Seul carica come all’inverosimile di ogni ben di Dio e fa il giro dei figli, lascia a ciascuno il proprio cibo preferito, a ciascuno quel che ha intuito manchi in quel momento. Per tutti è una benedizione.
Ma non lo sanno.

La madre un giorno scompare perché la porta della metropolitana di Seul si è chiusa dietro suo marito ma davanti a lei, e improvvisamente appare tutta la sua grandezza. Il vuoto che lascia è talmente grande che ciascuno si chiede come ancora si possa vivere senza di lei e soprattutto come si sia potuto vivere senza la consapevolezza della sua importanza. Della sua presenza, là dove stava, colonna assoluta del mondo. «Prima che sparisse, passavi le giornate senza pensare a lei» (114). Ora le giornate sono piene solo di lei.

Ogni capitolo è scritto da un membro della famiglia, un diverso punto di lettura di Kyung-Sook Shin. Ci sono pagine lancinanti, come quella in cui il figlio maggiore adorato ricorda che la presenza di sua madre «lo aveva spinto a rafforzare la sua determinazione di essere umano» (85). È tutto ciò che una buona madre può desiderare.

Oppure quella in cui la figlia ricorda come la mitissima madre diventa una furia e litiga con il padre, urla e lancia un tavolino in cortile per convincerlo della necessità di mandare la figlia a scuola. Infine vende il suo unico anello per poter pagare la retta della scuola. La figlia studia e diventa scrittrice. La madre è fiera dei suoi successi e si fa leggere i libri appena vengono pubblicati. Non lo fa di nascosto, ma la figlia non lo sa perché è troppo distratta, troppo lontana e impegnata. Deve tutto a sua madre eppure deve chiedersi quand’è stata l’ultima volta che le ha raccontato un episodio della propria vita.

Le ricerche sono dolorose. Ciascuno dei figli, e il padre, girano la città, mettono volantini in ogni luogo, tornano ostinatamente al punto in cui la madre è scomparsa. Seguono ogni indizio, ogni segnalazione. Ce ne sono alcune all’inizio, che concordano fra loro. Una donna come quella descritta è stata vista in diversi quartieri della città. Tutti quartieri in cui il figlio maggiore molti anni prima aveva di volta in volta abitato. Come se la madre ricordasse e li ripercorresse. Tutto torna. In effetti la madre non stava bene negli ultimi tempi. Lo avevano visto ma nessuno si era fermato a capire. Torna tutto tranne che la madre nelle segnalazioni non porta i suoi sandali, ma porta dei sandali azzurri di plastica, che aveva in effetti, e che in effetti la ferivano e le facevano male, ma in altri tempi, in un passato lontano, quasi lontanissimo. Attraversa in sandali azzurri i luoghi della loro vita, quasi un angelo custode che abita l’eternità e il mondo nello stesso momento.

Chi è la donna che tanti hanno visto e addirittura soccorso? Chi era la madre di cui alla fine era stato anche dimenticato silenziosamente il compleanno? Da parte di tutti. Aveva vissuto la vita che voleva?
È una domanda sensata questa? Il finale è sorpresa
e incanto.

È un libro d’amore nascosto e potente, perché l’amore anche se non si rivela e se noi siamo distratti, tremendamente distratti, ci protegge. Alla fine ci si guarda intorno con occhi che finalmente vedono queste donne senza tempo capaci d’amore assoluto e segreto.

Da Il Regno, 15 febbraio 2020.

«Maria, una madre normale che ha servito la vita»

Oggi si conclude il mese di maggio, dedicato alla Madre di Gesù. Di Maria ha scritto nel suo ultimo romanzo (Lei, Guanda) la scrittrice vicentina Mariapia Veladiano, convinta che Maria insegni qualcosa ad ogni donna, non solo madre, e ad ogni coppia. 

Mariapia, perché Maria è un esempio per tutti, non solo per donne e madri?

«Avere a cuore le cose del mondo è qualcosa che va al di là dell’avere o non avere bambini. E non penso al banale stereotipo che la cura sia delle donne, perché la cura è universale, la responsabilità è universale. Infatti nel mio libro Giuseppe esercita la stessa cura di Maria nei confronti di Gesù. La modalità è diversa, quasi più buia, perché non ha avuto l’Annunciazione; Giuseppe si prende cura di Gesù per fiducia, responsabilità, amore. Entrambi esercitano quest’arte che non legherei al fatto di avere o non avere un bambino, perché il fondamento è essere un’unica umanità. È chiaro che se si assume la responsabilità di “chiamare al mondo” una creatura, alcune cose si sentono molto di più. Maria è stata una madre normale che ha avuto le paure di tutte le madri, ma le ha superate»

C’è solo un piccolo particolare: lei è la madre di Dio. Che differenza c’è tra l’essere madre di un uomo e madre di Dio?

«È la domanda delle domande. Nel romanzo Maria ha la percezione che, “a volte sembrava che, per Gesù, non fosse sufficiente essere nostro figlio”. Io penso a lei come ad una madre normale che nell’arco del suo percorso scopre che “la vita è servire la vita”. Occupandosi di un bambino speciale si scopre speciale. È un percorso che tutte dobbiamo fare».

“Solo chi non sa niente dell’amore può pensarmi sola il giorno dell’angelo” dice Maria nel suo libro. Ed ecco che torna la figura di Giuseppe.

«Solo una teologia quasi esclusivamente maschile è molto preoccupata di allontanare Giuseppe da Maria subito, per preservarne non tanto la verginità, quanto l’unicità di Gesù. La presenza del falegname, attestata dai Vangeli, ha creato imbarazzo. Ne è stata anche modificata l’immagine: nel Vangelo non c’è scritto che Giuseppe fosse vecchio».

Maria che moglie è?

«Maria ha almeno trent’anni di vita coniugale. Non avevo grandi appigli sui Vangeli, ma li ho immaginati complici quando sono coricati, si confrontano e supportano a vicenda di notte, stesi, come fanno tutte le coppie. Maria non è sola, la solitudine non è la misura dell’uomo. Se si è soli la paura è amplificata, insieme la paura fa meno paura. Maria sa che Giuseppe capirà. Sa che sono in due».

Gesù è un bambino speciale ha ripetuto più volte. Che cosa insegna Maria alle madri di un bambino speciale?

«Le persone, scrivo nel libro, “ogni giorno misurano la normalità di Gesù”. Tutti facciamo così. Basta che un bambino esca un attimo dal canone. Che poi, qual è il canone universale dell’essere bambino? Non c’è. Dipenda dalla cultura, dal Paese di provenienza, dal tempo in cui si è vissuti. I bambini chiedono di essere visti. Oggi purtroppo manca il tempo, davvero i genitori non vedono e prevale la paura del futuro perché non crediamo più che il futuro sia migliore del passato. Siamo quindi convinti che la soluzione migliore sia la protezione. Il figlio diventa un problema da proteggere e non va bene. La prima cosa che devono avere i figli è una vita tutta loro».

Quando lei si è scoperta incinta come ha reagito?

«Ho avuto una folgorazione, un cambiamento di prospettiva circa il bimbo che avevo. Una volta che si è annunciato era chiaramente autonomo da me. Non potevo cambiarlo più, era maschio, aveva i capelli e gli occhi di un certo colore, eventuali anomalie. Non è che se covavo meglio mi veniva meglio, oppure meglio come volevo io. Avevo un unico potere negativo che era quello di fargli del male. Il figlio è altro da te. Non è di tua proprietà. È un messaggio fortissimo a tutti i genitori. Per Maria il bambino è davvero arrivato inatteso, in un contesto difficile come spesso accade oggi».

A lei, Maria che cosa ha insegnato?

«Maria, quand’ero piccola, non mi stava molto simpatica. Avevo un’immagine stereotipata, della donna del sì. E mi pareva remissiva. È stata una riscoperta legata a quando sono diventata grande e ho capito qualcosa dell’amore. Ho capito che tutta la storia di Maria è partita perché era con Giuseppe fin dall’inizio».

Maria può “aiutare” tutte le madri che hanno perso un figlio.

«“Non mi era stato permesso di morire per lui” dice, ed è quello che ogni madre pensa. Maria arriva alla morte di Gesù, non sapendo della Resurrezione, almeno non con certezza. Suo figlio era davvero morto, è diventato bianco tra le sue braccia. La mattina della Resurrezione dorme e non è al Sepolcro. Questo è molto umano: si addormenta perché scopre che quell’amore che li aveva legati ha una pretesa di eternità fin dall’inizio. Gesù è ancora vivo, è ancora con lei. Non va al sepolcro perché non ha bisogno di vedere, lei lo sa».

Lei porta il suo nome. Questo come la fa sentire?

«Io credo nel potere dei nomi. Il mio è composto; Maria è molto bello da solo. Sento tutti i sentimenti di grande responsabilità verso la vita».

Da La voce dei Berici, 31 maggio 2018

Lei

Cosa c’è di divino nell’essere giovane madre di un figlio arrivato per grazia o per caso, e poi sperare per lui una vita buona, abbastanza buona e insieme temere per lui con tutte le paure di tutte le madri, che non incontri il male, che non sia troppo speciale, che il mondo lo accolga o almeno lo lasci in pace. Vivere in pace.

È la storia umanissima di ogni madre ed è la storia di Maria raccontata in poesia, in pittura, in musica, nel vetro, nel ghiaccio immacolato, a punto croce, sulle volte delle cattedrali e sui selciati delle piazze, a chiacchierino e col tombolo. Qui parla Maria, Madre di Dio bambino, ma per ogni madre il suo bambino è Dio, vita che si consegna fragilissima e si promette eterna. Intorno a Maria uomini e donne che pensano di capire e poi gli angeli che fanno corona ma le loro ali non riescono a tenere lontano il gran male del mondo che si addensa in questo punto della terra in tutto simile a tanti altri punti della terra in cui in ogni tempo si è gridato “Uccidilo”. Quel che resta è un corpo rotto senza grazia, consegnato a una madre ancora giovane, anche lei simile a tante. Ma la fine non è scritta e i bambini nascono ogni giorno.

 

La paura di Maria madre

di Fabio Giaretta

Bresciaoggi, 25 ottobre 2017

Nei Vangeli parla solo sei volte. Il suo corpo, per troppo pudore, non viene descritto. Il ritratto che il mondo ha fatto di lei è quello di una donna ieratica, remissiva, composta, che non sorride mai. Nel suo nuovo romanzo, intitolato semplicemente «Lei» (Guanda, pp. 200, 17 euro), la scrittrice Mariapia Veladiano, 57 anni, descrive invece un’altra Maria. Una donna con un corpo e con una voce limpida e avvolgente, che racconta in prima persona la sua vita dopo quel sì all’angelo all’angelo che ha cambiato la sua esistenza e la nostra. Una donna forte e ferma nella sua fede, e nello stesso tempo fragile, assalita dal dubbio e dalla paura.

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Sorridente e traboccante di gioia ma anche lacerata dal dolore. Una donna, una sposa, una madre piena di grazia e di tenerezza, lontana dall’imbalsamato santino a cui spesso è stata ridotta.

– Lei è laureata in teologia, e in tutti i suoi libri la dimensione religiosa è presente, in questo particolarmente. Come mai ha dedicato un romanzo a Maria?

Tutti i miei romanzi parlano di maternità e di dolore, del grande mistero del male. Due temi che in Maria si raccolgono. Lei che nella tradizione costruita nei secoli è diventata madre modello di tutte le madri e donna dei dolori. Del resto lei è una figura straordinaria che ha catturato letteralmente il mondo. Pittori, scultori, scrittori, cantautori. E poi il popolo, che l’ha sentita profondamente vera e vicina.

Questo vuol dire che Maria ha da dire molto alle persone. Di Maria mi sono occupata sempre, per empatia, per motivi di studio, per la bellezza che ha ispirato e anche per desiderio di verità. Ho spesso sentito insopportabili le forzature della devozione e anche un poco della teologia su di lei. Certo, in questo caso la storia era scritta. Si è trattato di trovare il registro. La prima persona ha portato a un registro intimo, riflessivo.

– Per scrivere questo libro si è basata solo sui Vangeli o li ha integrati con altri testi? L’invenzione personale che peso ha avuto?

E’ un romanzo e ho inventato dialoghi ed episodi. Dentro la cornice di quello che sappiamo dalla Scrittura, senza cercare scandali, ma libera di andare dove questo lavoro di ascolto di Maria che attraversa i Vangeli mi portava. I Vangeli non dicono che Maria abbia seguito Gesù nel deserto, ma qual è la madre che sapendo il figlio solo e in pericolo non cerca, almeno cerca, di trovarlo o almeno di non stare troppo lontano da lui? Senza poter fare nulla, ma lì.

– Tra gli episodi non presenti nei Vangeli vi è quello di Gesù che tiene in mano un uccellino ma la sua stretta troppo forte lo uccide. Poi riapre le mani e l’uccellino vola via…

Gesù piccolino non sapeva chi era. Nel romanzo questo è chiaro. Impara un poco alla volta a capire chi è, oltre che figlio di Maria e Giuseppe ovviamente. Tutti i bambini sperimentano il proprio potere e qualche volta non lo sanno dominare, non si fermano in tempo. Credo che ciascuno di noi abbia un ricordo doloroso di questo tipo. In quella scena Gesù sperimenta il suo potere e l’uccellino muore. Ma sperimenta anche un potere di vita che non immagina di avere. Ripara la morte fin da bambino.

– Uno dei sentimenti che accompagna Maria e sul quale lei insiste molto è la paura. Per quale ragione?

Ma perché l’esemplarità di Maria è esattamente la sua umanità. Come ogni madre ha paura, inoltre sa che questo suo figlio ha una qualità di indipendenza particolare. E’ suo, come ogni altro figlio che si è nutrito e custodito dentro di sé per nove mesi, e non è suo, più di ogni altro figlio perché in modo confuso, bello e terribile come un ricordo, sa che viene dall’alto. Lei convive con la paura e impara a lasciare andare questo figlio malgrado la paura. E’ questo il compito di tutti i genitori. La paura è nemica della vita se ci domina.

– Giuseppe nel libro non appare come una figura secondaria, la sua presenza, seppur discreta, è fondamentale. E il rapporto che lo lega a Maria è di simbiosi totale…

Non poteva che essere così. Seguendo il percorso umano di questa ragazzina che incontra l’angelo è chiaro che da sola non avrebbe potuto nemmeno immaginare di dire «eccomi». Da sola sarebbe stata esposta alla legge, uccisa, la maternità sarebbe fallita. Ma lei ha potuto accogliere l’angelo perché sapeva che c’era Giuseppe, che pure ancora non sapeva. Ma in amore è spesso così: che uno fa una cosa e l’altro segue. Straordinario Giuseppe, che l’angelo lo ha visto una volta in sogno e basta. Poi ha creduto a Maria e attraverso questo credere profondissimo che l’ha salvata, anche lei ha potuto credere e la storia c’è stata.

– Gli angeli compaiono spesso nel romanzo. Perché ha dato un rilievo così ampio a queste creature?

Sono tanti sì nel romanzo. Ma nella Scrittura tutto prende il via da un angelo che va da Maria. Poi gli angeli avvertono i pastori. Gli angeli servivano Gesù nel deserto. Il teologo Bonhoeffer ha scritto dal carcere in cui si trovava e da cui non sarebbe uscito vivo, una preghiera bellissima, che comincia così: «Circondato fedelmente e tacitamente da benigne potenze, meravigliosamente protetto e consolato…». Lui, luterano, sentiva queste potenze benigne. Non era solo. Chi lo circondava? La Scrittura è generosa di angeli messaggeri, consolatori. Siamo molto distratti, ma credo che chi ci ha amato non sia lontano da noi. E se c’è un Dio che ci ama, non ci lascia soli.

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Fonte: Bresciaoggi, 25 ottobre 2017


Questa donna di nome Maria

di Donatella Di Pietrantonio

La Repubblica, 29 ottobre 2017

Senza che prevalga mai solo la sua formazione di teologa, Veladiano racconta la madre di Gesù la sua vita di fanciulla e poi l’ubbidienza la maternità, l’abbandono e la morte del figlio

Dopo le prove narrative degli scorsi anni, Mariapia Veladiano torna con Lei, che si potrebbe definire il romanzo di Maria se l’etichetta di genere non risultasse un po’ riduttiva per una prosa così felicemente contaminata dalla poesia (alcuni capitoli sono proprio in versi). L’autrice mette la sua formazione di teologa al servizio di un racconto in prima persona che nulla nega al lettore della straordinaria esperienza di chi fu eletta tra le donne a essere Madre del Cristo. Ma le competenze teologiche restano quasi segrete nel testo, una base solida e rigorosa che non appesantisce in alcun modo la voce sempre autentica e credibile, persino fresca, a tratti, nell’enormità di quello che narra. La Veladiano sa entrare nel mondo interno di Maria con ispirata naturalezza.

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La sua Madonna parla da lontano, ha lasciato trascorrere prima i secoli, poi un millennio e un altro, e ancora spiccioli di anni. Ha lasciato passare la Storia, ha assistito — spesso senza riconoscersi — a tutte le rappresentazioni di sé. Mormorata nelle preghiere, scolpita o dipinta da generazioni di artisti, fino ai gessetti colorati dei madonnari, ai fili pazienti delle ricamatrici. Maria parla oggi, in un tono alto e intenso, ma insieme consapevole e umano. In certi momenti può ricordare al lettore la nostalgia della vita terrena provata dal Cristo di Borges in Giovanni I, 14.

La Madre divina racconta la sua meraviglia di fanciulla visitata dall’Angelo che le porta l’annuncio. Figlia qualsiasi di un popolo da sempre in attesa, è proprio per lei la chiamata. Maria di Nazareth nasce al mondo con la notizia del Figlio che le nascerà. “Come se prima del Bambino io non fossi esistita. Dopo, anche il dopo il sacro testo non lo racconta”.

Michela Murgia ha esaminato nel suo Ave Mary la sostanziale negazione della morte di Maria, che viene data per sottintesa nella sua Assunzione in cielo, ma mai esplicitamente dichiarata.

Il primo atto di Lei è quel sì, l’adesione a un volere che la sovrasta.

La futura Madre di Dio sceglie l’ubbidienza, la sceglie per sé e per Giuseppe suo marito, rovesciando così una gerarchia familiare storicamente radicata.

Ma l’ubbidienza di Maria che la Veladiano ci propone non è mai cieca, mai passiva, porta la gioia e, molto di più, il suo contrario.

L’autrice entra senza risparmio in ogni piega della più dolorosa tra le maternità, quella certa fin dall’inizio che il Figlio morirà in un disegno superiore. E allora la Madre osa desiderare che il disegno non si compia. Più avanti negli anni, quando Lui già le sarà sfuggito, si rammarica di non aver saputo trovare le parole giuste per trattenerlo accanto a Lei e Giuseppe, in attesa, come tutti, del giorno del Signore — ma un altro.

Maria è tentata dalla fragilità dei suoi sentimenti: “Ho sperato che non diventasse grande”. È tentata dall’illusione che tocchi a un figlio non suo, come già era accaduto quando Erode aveva fatto strage di innocenti cercando Gesù. “Quanti bambini erano morti per salvare il Bambino?”.

Maria ci appare moderna e vicina, nel dubbio, nei tentennamenti della volontà, nelle debolezze. Vorrebbe dimenticare l’Angelo e il suo annuncio, rifugiarsi con la sua piccola famiglia in una normalità, nell’anonimato. In fondo quel ragazzo “non ha fatto quasi nulla di speciale per trent’anni”. Vorrebbe anche Lei, come lo vorrà Lui nell’ora fatale, torcere la bocca dal calice tutto da bere.

Ma quell’ormai adulto è “un infinito stormo, / un furibondo volo, / un vento”, scriveva Testori nel suo Interrogatorio a Maria. Quel volo non può essere fermato. La Madonna della Veladiano lo comprende, come sempre, infine, le madri comprendono i figli.

“Posso combattere contro i tuoi nemici. (…) Non posso combattere contro di te”.

Si prepara al più indicibile dei lutti, afferma l’eternità del suo dolore respingendo l’idea di perfetta letizia, che altri si sono formati di Lei.

Cosa resta al lettore di questa voce limpida e sofferta, suggestiva e a tratti disincantata? Forse chi legge da una prospettiva lontana dal culto di Maria, conserva proprio i suoi momenti di disincanto, anche rispetto al divino a cui Lei stessa appartiene. Quegli attimi di sospensione della fiducia nel mondo ce la rendono più vera e attuale, persino laica. “Se gli uomini possono uccidere Dio”, la terra diventa “un deserto di spiriti immaginati. Un sogno abortito di Dio”.

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Fonte: La Repubblica, 29 ottobre 2017

 

Mariapia Veladiano. La fede mi ha liberata dalla paura

di Roberto Carnero

Credere, 2 novembre 2017

«Credere per me è stato un lungo cammino di liberazione dal moralismo. Oggi percepisco d’essere accompagnata, come Maria». E proprio alla Madonna la scrittrice dedica il suo ultimo romanzo

«Maria era spaventata ma non ha ceduto alla paura perché, pur messa alla prova dalle scelte di Gesù, sapeva che quell’amore era troppo vero e immenso per poter finire». Lei, l’ultimo libro di Mariapia Veladiano, è un intenso romanzo che dà voce ai pensieri e alla vita della Madonna. «Volevo raccontare soprattutto l’umanità di Maria, preservandola da ogni tentativo di renderla figura altissima ma distaccata». Una vita con i piedi per terra, insomma, proprio come quella della scrittrice vicentina.

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Come gran parte della sua generazione, Mariapia Veladiano viene da una famiglia contadina. Ci tiene a sottolinearlo, perché ciò per lei rappresenta una sorta di imprinting originario. «Il contatto con la terra, nel senso di giocare a fare formine, scavare buche, travasare sabbia per ore e giorni, vedere lavorare l’orto e coltivare le viti, nonché il contatto con gli animali e le piante, mi hanno reso facile amare e rispettare la natura. L’idea della terra che produce frutti non è qualcosa di cerebrale, ma è proprio amore. Quello che ti fa percepire tutta la violenza delle nostre azioni scellerate sul territorio, stare malissimo di fronte alla devastazione operata per costruire superstrade inutili, vedere la bruttezza della nostra architettura cementizia sulle campagne».

Oggi che è preside in un liceo della sua città, Mariapia Veladiano riconosce che nella sua vita ha studiato tanto. Anche questo faceva parte dell’universo contadino uscito dalla Seconda guerra mondiale. Lo studio era visto come strumento di riscatto sociale: il senso della concretezza del lavorare la terra e la disciplina, spostate sulla scuola. «Il primo dovere di noi bambini era essere bravi a scuola», ricorda. «Non riuscire a scuola sarebbe stata una delusione grande per i genitori, ma pazienza, saremmo andati a lavorare senza tante storie. Questo mondo adesso non esiste più. Il titolo di studio è percepito come un quasi diritto dalle famiglie. Se i figli non riescono, si cercano colpe nella scuola. I figli sono carichi di aspettative che non sentono più come proprie. Ma se l’aspettativa è del genitore, non c’è gusto nella conquista del sapere, non ci si mette in gioco davvero».

Suo padre voleva che studiasse ragioneria, e all’inizio accettò di accontentarlo, ma poi fu lei a spuntarla con l’iscrizione al liceo classico: «Agli occhi dei miei genitori, l’istituto tecnico era una scuola più concreta. Ma quando alla fine del primo anno un professore mi ha convinta a cambiare scuola, mi hanno appoggiata».

GLI STUDI IN SEMINARIO

Poi gli studi teologici con il corso ordinario per il baccellierato (l’equivalente di una laurea di primo livello, ndr) al seminario di Vicenza. Il seminario era stato aperto ai laici da qualche anno, per volontà del vescovo Arnoldo Onisto, che dovette difendere questa sua scelta con determinazione. Ricorda la scrittrice: «Si veniva a sapere di convocazioni repentine a Roma, di trattative. Ma intanto chi era stato accolto a studiare continuava a farlo». Poi, dopo una laurea in Filosofia a Padova e la licenza in Teologia fondamentale a Roma, l’inizio della carriera d’insegnante: prima Religione nelle scuole medie e superiori, poi Lettere in un istituto professionale. «Un’esperienza molto bella. Era il tempo in cui la scuola italiana sperimentava molto e gli istituti professionali sono stati un laboratorio di idee. Si trattava di prendere il mondo come arrivava, non già selezionato e vincente, di coinvolgere i ragazzi, recuperare abilità, restituire fiducia. Un lavoro di squadra, docenti motivatissimi. La scuola che fa la differenza. Abbiamo potuto lavorare con la fiducia delle persone e anche della politica e con una certa larghezza di mezzi: esistevano le ore di progettazione, le attività aggiuntive. Una meraviglia».

Adesso che fa la preside, le chiediamo come vede gli adolescenti di oggi. «Sono del tutto simili agli adolescenti di 35 anni fa, quando ho cominciato a insegnare. Sono pieni di vita, distratti, stritolati dai desideri, solo che hanno paura, hanno paura anche ad avere dei desideri. Intorno a loro hanno adulti che hanno paura: che il futuro dei figli sia peggiore del presente, soprattutto. E quindi adulti che non sanno infondere fiducia in loro come giovani persone piene di risorse: contano esclusivamente sui titoli, sul successo scolastico, sportivo, sull’essere primi, e non importa che il primo sia sempre solo uno, mentre al mondo siamo 7 miliardi e mezzo e tutti abbiamo il diritto di vivere la nostra vita, unica a preziosa. I giovani sono veri, vivi, pronti a far meglio di noi, ma bloccati dai nostri timori che ci portano a iperproteggerli e a non farli diventare adulti. Volano quando trovano relazioni significative, adulti responsabili, che tengono il punto di una sostanziale, vera, fiducia nella vita. La fiducia non è entusiasmo per tutto, è consapevolezza del fatto che vivere è complicato e insieme bello».

SENTIRSI ACCOMPAGNATI

Nella vita di Mariapia Veladiano la fede continua a contare molto, anche se forse è cambiato il suo modo di concepire questa dimensione. «Credere è, per me, percepire il fatto di vivere accompagnata. Non sono brava a lasciare andare le cose, per cui sto sempre cercando di aggiustare il mondo, di far andare bene le cose che mi sono affidate. Però oggi conosciamo la portata enorme delle nostre responsabilità, sappiamo di essere privilegiati, nati nella parte fortunata del mondo. Questo fa sì che il nostro impegno sembri sempre inadeguato. Una grande fatica. Ecco, in questa grande fatica mi sento sempre accompagnata. Non è stato così in altri momenti della vita. È stato un percorso di difficilissima liberazione dal moralismo, dall’idea che credere sia soprattutto moralismo e dovere. Era qualcosa che la mia generazione assorbiva per pura esposizione sociale: la fede come garanzia dell’ordine. Non è stato facile rovesciarla in libertà dalla paura, libertà dal giudizio. Rimango molto grata invece alla dimensione di impegno anche sociale che l’educazione tradizionale alla fede mi ha dato».

LEI, LA PROTAGONISTA È MARIA

Il nuovo libro di Mariapia Veladiano, Lei (Guanda, pp. 176, euro 17), è un intenso romanzo in cui l’autrice dà voce ai pensieri e alla vita della Madonna. «Si tratta della storia umanissima di ogni madre», si legge sul blog www.mariapiaveladiano. it. «Maria, Madre di Dio bambino, ma per ogni madre il suo bambino è Dio, vita che si consegna fragilissima e si promette eterna. Intorno a Maria uomini e donne che pensano di capire e poi gli angeli che fanno corona ma non riescono a tenere lontano il male del mondo».

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Fonte: Credere, 2 novembre 2017

 

Come in un coro la voce di Maria

Maria a raccontare la sua storia di madre, uguale a quella di tutte le madri, con gli stessi timori e le stesse attese nei confronti di un figlio, nel nuovo romanzo di Mariapia Veladiano, che si conferma una tra le più importanti scrittrici italiane di oggi. Lo dimostra affrontando un tema non facile, interpretato da molti scrittori e artisti, che lei però sa portare in una dimensione personale, che si nutre di una conoscenza attenta e profonda dei testi evangelici, che le permette di assumere la voce di Lei, così come indica il titolo, ponendosi in un’ottica dimessa, quotidiana, cercando quella voce che nei Vangeli compare poco: «Non sono stata amata di carezze e abbracci nelle Scritture. Troppo pudore».

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La Veladiano le fa dire, all’inizio del libro, che è «una donna corale. Un’opera collettiva senza il nome degli autori segnato in fondo». E aggiunge: «Sono stata scritta da uomini e donne di ogni tempo… Sono stata di tutti come l’aria che si respira, l’acqua che dà vita, l’abbraccio di cui si ha bisogno. Sarò di tutti ancora e per sempre, sono madre e non c’è fine al desiderio di essere figli». La scrittrice ha infatti bisogno di porsi in un’ottica divergente, rispetto alla sua figura che, nel tempo, ha trovato varie e molteplici dimensioni, che l’hanno mostrata come figura altissima, forse troppo. Ne rivela così, nel racconto, la forza umana, la vicinanza che la sua vicenda ha con quella di ogni persona.

A Maria la Veladiano non chiede di dare risposte rispetto alle sue scelte, ai suoi gesti, a ciò che anche per lei rimane oscuro, fino alla definitiva rivelazione della Risurrezione: rispetta il suo silenzio, quell’aria indifesa, ma anche trasparente di una fiducia infinita, che emerge dal particolare del suo volto, dall’Annunciazione di Lorenzo Lotto, che domina e illumina di senso la copertina. La forza del racconto la si ritrova in un particolare che ricorre in tutto il racconto, quello dell’abbraccio, a partire dalle grandi ali dell’Angelo che l’avvolgono, ma anche da quello metaforico che la lega e la unisce a Giuseppe, in «quell’andare lontano dell’amore, che si sa pensare solo eterno». A pronunciare l’«Eccomi» che la consegna alla volontà di Dio, non è soltanto lei, ma anche il falegname che «parlava di giorni da sposi, raccontava le attese per cui io non avevo parole ». E lui le è accanto, pur nella solitudine dell’Annunciazione, «per tutto il tempo dell’Angelo » e anche dopo la nascita, mentre il bambino cresce e loro sono costretti alla fuga in Egitto, mentre Maria pensa a quando sarebbe diventato grande e avrebbe aiutato Giuseppe nella bottega. Nel racconto Maria precisa anche aspetti della devozione popolare e religiosa che hanno trovato per lei nomi e immagini e tende a precisare il suo ruolo, quello che difende e mostra come un autoritratto nel racconto: l’essere semplicemente madre creata dal figlio: «Senza il bambino non c’è la madre. Questo bambino arriva e dice io ci sono e tu sei madre, perché io ci sono… E la paura si scioglie e non si sa chi ha dato la vita a chi». Quando Gesù si allontana, per la predicazione, per i quaranta giorni nel deserto, quando i farisei vanno da lei e da Giuseppe chiedendo informazioni sul figlio ormai lontano, lei si comporta come ogni madre: «Provate a consolarvi con questo figlio sulle strade, a non sapere dove dorme, con chi, se mangia, chi gli dà da mangiare, quali sono i suoi amici, aver paura di saperlo…».

Allora conosce anche loro, Giovanni il Battista, Simone, Giuda, Nicodemo, chiede notizie, perché sa, fin dal tempo dell’Angelo, che ci sarà «infinito dolore». Lo ha capito già in quell’abbraccio, quando senza usare parole, l’Angelo non le ha rivelato la morte, ma la sofferenza: «Incomprensibile perdere senza capire. Perché si pensa che io sapessi? Sapevo quel che tutte le mamme sanno. La paura. Paura e desiderio e struggimento».

Come ogni madre, quando il destino del figlio, sembra essere compiuto, spera nella sua salvezza. Corre fino alla Croce e rimane lì, senza nemmeno l’aiuto dell’Angelo che l’aveva visitata, in una terra in cui tutto il male sembra essersi «sparpagliato in tutte le direzioni dello spazio e del tempo, in un unico grande tremendo infinito contagio che avrebbe portato il mondo alla morte». Anche se Maria ha già capito «che la vita non finisce nel baratro dello sheol senza ritorno, fatto di pianto e di spirito che si assottiglia, si sfalda, sfilaccia e diventa nebbia sottile». Così non vede il Figlio risorto, riposa dopo «il bruciare dei giorni». Lei già sa. E nel dire «io sapevo», implicitamente rivela il fondamento della fede. Non ha bisogno di vedere, perché in quella luce di risurrezione «ogni cosa si componeva». Mariapia Veladiano scrive un romanzo intenso, dove la forza intima dell’umano sottende alle profondità della percezione metafisica, la cui qualità è una prosa cristallina e lucida, priva di qualsiasi enfasi, grazie all’uso di una lingua che dice, ma spesso preferisce sottendere, perdersi nel vuoto del silenzio. Con un modello che i richiami poetici presenti nel testo sembrano rendere ancor più evidente, quello di Rainer Maria Rilke, ripreso in una diversa ma parallela tensione che percorre tutta una vita «esposta al vento della grazia».

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Fonte: Avvenire, 3 novembre 2017

Maria, le emozioni di una storia umana

di Cesare De Michelis

Corriere del Veneto (Padova e Rovigo), 

Lei perentoriamente si intitola il romanzo di Mariapia Veladiano (Guanda, 17 euro) che dà voce a Maria, madre di Gesù, per dare conto della sua attesa del figlio, della di lui nascita e di quel che avvenne negli anni successivi sino al giorno nel quale morì crocifisso, anzi meglio, per lasciare alla sua voce il ricordo di quell’esperienza, dei molti sentimenti e delle inquietudini e delle riflessioni che suscitò.

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Non è un testo narrativo, se non sommariamente, perché la scrittrice dà ovviamente per conosciuta la vicenda, piuttosto un’intima memoria lirica, in prosa e in versi, nella quale riscoprire la straordinarietà di un’avventura quasi sovrumana e le emozioni che la accompagnano, un canto che si aggiunge ai tanti altri che la tradizione cristiana ci ha consegnato insieme alla varietà di un’iconografia, che dall’Annunciazione arriva sino alla Pietà, con una ricchezza di situazioni e di temi che ha animato la storia sacra e acceso la fantasia dei fedeli nel perenne rinnovarsi del culto mariano, insieme terragno come nessun altro ma anche sublime, popolare e domestico, ma anche profondamente nobile e spirituale.

Lei prende subito la parola, ben cosciente di quanto intanto è successo nel corso dei secoli e dei millenni; è – riconosce – umile e orgogliosa a un tempo, «una donna corale. Un’opera collettiva… scritta da uomini e donne di ogni tempo»; «come l’aria che si respira, l’acqua che dà vita, l’abbraccio di cui si ha bisogno» appartiene a ciascuno e a tutti, «ancora e per sempre»: «sono madre e non c’è fine al desiderio di essere figli».

Maria è una donna semplice che ha condiviso il destino femminile, diventandone una testimone esemplare, anzi quanto più la sua vicenda è unica, tanto più ricalca le orme di ogni altra; «sorella di tutte le madri» ripete il loro itinerario di gioia e di sofferenza, la loro metamorfosi nell’altro che verrà, fino alla disperazione di assistere alla sua morte atroce e terribile – «il male di un figlio che muore è oltraggio al cospetto dell’uomo e di Dio» – e quindi al mistero della resurrezione.

Nei Vangeli e nei ritratti non ride mai, tesa e severa nel suo impegno materno carico di responsabilità e di dolore, affannata, senza comprendere il suo destino speciale – «sono la madre che ha amato senza capire» -, riconosce che ciò nonostante è stata felice, «felice della felicità che arriva come una sorpresa», che anche lui «è stato un bambino felice», perché «la vita è questo servire la vita, servire e amare la vita è accogliere la gioia che viene e il tempo in cui gioire è impossibile».

Ricordate le parole che Jacopone mette in bocca a Donna De Paradiso…, cariche di amore e pietà, invocanti come una preghiera: «Figlio bianco e vermiglio,/ figlio senza simiglio,/ figlio, a chi m’apiglio?/ Figlio, pur m’hai lassato!/… Figlio dolze e placente,/ figlio, hatte la gente/ malamente trattato»; ecco, quelle di Veladiano posseggono uguale immediatezza espressiva, la stessa forza amorosa, identica pena e ansia di misericordia: la maternità non è una scelta o un progetto, piuttosto si apparenta al dono, alla grazia, perché il figlio «non è mai stato nostro» e non è «per noi».

«La vita che arriva cambia il mondo» spiega a se stessa Maria, perché essa giunge nelle nostre mani senza che sia stata «opera nostra», «arrivata come arriva la vita», e a noi resta di «amare anche senza sapere», tocca di «fare quello che è giusto anche senza sapere tutto»: Veladiano riesce a dare voce a Lei senza perdersi nelle astrazioni di una riflessione teologica, parlando in tono intenso, ma restando vicina, per quanto è possibile vicina, alla nostra esperienza quotidiana, alla sensibilità che ci appartiene, moderna cioè, nello sforzo di restare coi piedi per terra, prima di essere assunta altrove.

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Fonte: Corriere del Veneto, 26 novembre 2017

Una vita all’insegna di fiducia e amore

Lei, il romanzo di Mariapia Veladiano su Maria di Nazaret

di Cecilia Tomezzoli

Verona fedele, 17 dicembre 2017

S’accorda con lo spirito dell’Avvento, tempo di attesa, l’ultimo romanzo di Mariapia Veladiano, laureata in filosofia e teologia, già insegnante di lettere ed ora dirigente scolastico di un liceo vicentino, che ha esordito nella narrativa con La vita accanto (vincitore del Premio Calvino 2010, arrivato secondo al Premio Strega 2011), collaboratrice di la Repubblica e della rivista Il Regno.

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Significativo il titolo del romanzo, che ripercorre ed interpreta in modo personale la vita di Maria di Nazaret, raccontata da una prospettiva diversa, forse meno ieratica, ma più vera e profonda: un semplice pronome, Lei (Guanda, 2ª ed., pp. 200, 17 €). E Lei per antonomasia è infatti proprio Maria: Lei ispirò poeti e artisti, su di Lei disquisirono teologi, Lei ispirò mistici e a Lei sempre rivolsero, fiduciosi, i fedeli, ma questa volta a parlare in prima persona è proprio Lei, che nel Vangelo non viene mai descritta e prende la parola solo sei volte.

«Scrivere un romanzo su Maria non è stato facile: nota è la sua figura e tutti sappiamo come la storia vada a finire. Cos’altro c’è da dire?»: con queste parole esordisce l’autrice nel corso della presentazione del libro alla Feltrinelli lo scorso novembre. Tutto inizia con l’Annunciazione, immagine scelta non a caso dalla Veladiano per la copertina: è un particolare dell’Annunciazione di Recanati (1527) di Lorenzo Lotto, una tela in grado di riassumere nel suo insieme anche il messaggio del romanzo. Un angelo, colto in tutta la sua fisicità, alza la mano al cielo per indicare a Maria Dio, che sembra tuffarsi nella storia dell’umanità e, imperioso, puntare verso la destinataria dell’annuncio, vestita come lui di rosso. Maria, spaventata e confusa, come il gatto impaurito in mezzo alla scena, si gira, ma non scappa, e si volge verso il mondo, verso noi, come per dirci che qui inizia la vita: «Maria reagisce -ha continuato l’autrice- come una ragazza stupita, sente che c’è qualcosa che la supera, comprende di essere di fronte ad un evento straordinario e tremendo che non capisce ancora a fondo, ma dice “Eccomi”, raccoglie come un vaso chi le è stato dato e accetta l’eccedenza di quel bambino affidato alle sue cure. Ma è un salto nella fiducia, non nel buio. Dice “sì” perché sa di avere accanto Giuseppe, che le vuole bene, che dice “sì” con lei e la segue».

Il “sì” diventa allora una scelta condivisa anche da Giuseppe, personaggio quasi silente del Vangelo, “padre per chiamata”, presente in ogni pagina di Lei, che si profila come l’esperienza di una maternità e di una paternità. Il misterioso annuncio della nascita di Gesù diverrà per entrambi accettazione sempre più consapevole del destino di morte e della minaccia che incombe su di lui come su ogni figlio. Maria, non diversamente da tutte le madri, canta al bambino la ninna nanna, lo consola nel pianto, lo accompagna nella crescita, lo segue nel suo scoprirsi, si preoccupa quando, di ritorno da Gerusalemme, lo perde e lo ritrova nel Tempio fra i dottori della Legge. Lo cerca anche nel deserto perché teme sia in pericolo e lo aspetta seduta al ciglio della strada senza fare nulla, consolata dai passanti che le ripetono: “Ti devi rassegnare, dicevano. I figli non sono per noi. Nascono e vanno secondo il tempo che Dio ha loro assegnato”.

In questa narrazione, basata sul racconto evangelico e sull’invenzione, in cui la prosa si alterna alla poesia, in questa storia animata dalla presenza degli angeli “che si muovono senza fretta, solo un poco curiosi del nostro rincorrere il tempo che si misura col sole che sorge e tramonta”, fra i gesti ordinari più consueti, Maria fa il pane che lei per prima, prima ancora di Gesù nell’Ultima Cena, spezza e dona agli altri. Dopo la sua morte, Maria resta immobile ai piedi alla croce, pietrificata nel dolore estremo di una madre sopravvissuta al figlio. Tutto attorno a lei tace e pare sospeso; per tre giorni attende, come profetizzato, la Risurrezione, ma, sopraggiunta la notizia, non si reca al sepolcro per vederlo vuoto perché non ne ha bisogno: sa che l’amore per lui non avrebbe potuto finire mai. Si rileva ancora una volta divina nell’essere straordinariamente umana.

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Fonte: Verona fedele, 17 dicembre 2017

Recensione

Vergine «scripta» e «picta»

La sterminata bibliografia mariana si arricchisce di nuovi testi divulgativi, letterari e di lettura delle immagini

di Gianfranco Ravasi

Il Sole 24 Ore, 31 dicembre 2017

Erano in contrasto su temi teologici radicali. Eppure tra le loro concordanze, sia pure con accenti diversi, ce n’era una curiosa, la devozione a Maria, la madre di Gesù. Erasmo di Rotterdam non esitava ad affermare che «la Vergine non era mai abbastanza lodata» e Lutero ribadiva che «la creatura Maria non può essere abbastanza lodata».

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ln pratica essi anticipavano quel motto, divenuto poi popolare, che sarà coniato attorno al 1712 nel Trattato della vera devozione a Maria, dal francese s. Luigi Maria Grignion de Montfort: “De Maria numquam satis”. La conferma è nella sterminata bibliografia mariana e mariologica, devozionale e teologica, che inanella continue opere anche ai nostri giorni in tutti i generi letterari. Cercheremo, allora, di spigolarne alcune nella produzione di questi mesi. Non si dimentichi che in passato su questo soggetto si sono impegnati autori come Dante e Petrarca, Boccaccio, Lorenzo il Magnifico, Poliziano, Pulci, Tasso, il Barocco e l’Arcadia, Monti, Manzoni, Carducci e Pascoli, Rebora, Papini, Turoldo e un’indimenticabile Alda Merini.
In partenza sarebbe utile tenere tra le mani un volumetto che si colloca all’interno di una collana intitolata «Farsi un’idea», formula che fa ben comprendere la finalità del testo di Adriana Valerio della «Federico II» di Napoli. Il suo è uno scritto agile, facile, puntuale che in un centinalo di pagine riesce a comporre i dati essenziali che riguardano il profilo storico-evangelico di Maria, la lussureggiante tradizione che ne è conseguita e i dogmi che la riguardano. Un capitolo, quest’ultimo, che merita una particolare attenzione, considerata l’endemica ignoranza teologica nell’orizzonte culturale italiano. È costante leggere le asserzioni di intellettuali e non solo di giornalisti convinti che l’Immacolata Concezione di Maria
e la sua Concezione Verginale di Gesù siano realtà sinonimiche, mentre ricordo ancora l’articolo di uno scrittore “laico” che pure ammiro per le sue opere, Il quale, di fronte all’affermazione di un papa sul volto materno di Dio secondo la Bibbia, non esitava a scrivere che «inserire Maria nella Trinità è una questione ecclesiastica che poco interessa
all’opinione comune».

Il ritratto disegnato dalla Valerio riesce a sceverare e a dimostrare nell’imponente dossier mariologico che si è accumulato nei secoli (adesso ha contribuito anche la tradizione
islamica) quanto sia rilevante questa figura femminile non solo per il cristianesimo ma anche per la stessa antropologia culturale. A questo proposito, vorrei citare solo le pagine sorprendenti e ardenti che un’importante pensatrice non credente come Julia Kristeva ha scritto sulla lacerazione interiore di Maria ai piedi della croce del Figlio nella sua “Storia d’amore” (1983), oppure il forte “Mistero di Maria” di Luce lrigaray, nel quale la psicoanalista belga intuisce nella Vergine Madre i semi della libertà femminile pronta persino ad ospitare in sé il divino.

A queste voci alte vorrei associare un’icona mariana straordinaria (la collana s’intitola proprio «Icone») di Massimo Cacciari, che adotta il programma del pensare per immagini. Sono poche pagine che non ammettono un riassunto perché ne svilirebbe la bellezza. Le basi sono appunto i dipinti di Simone Martini, di Piero della Francesca, del Beato Angelico, di  Mantegna, Bellini, Masaccio, Van derWeyden, scelti tra le mille e mille opere d’arte dedicate a Maria e che hanno costellato una storia artistica secolare. L’approccio di Cacciari non è, però, quello dell’esegeta di quei dipinti ma, al contrario, l’atteggiamento di chi li considera la sorgente e non la cristallizzazione di un messaggio, di un pensiero, di una riflessione che si sviluppa e si svolge nella ricerca incessante dell’umanità.

In quei profili è condensata simbolicamente e “in-finitamente” la nostra interrogazione sul divino che perde la vaghezza delle categorie meramente teologico-filosofiche  (trascendenza/immanenza, eternità, infinito, sostanza, natura e così via) e si concretizza nella risposta di un Figlio e Bambino legato a una Donna e Madre. È uno sbocciare di paradossi: «Il figlio non è realmente tale se non dalla madre. Uniti nella carne essi esprimono insieme lo svuotarsi del divino, in quanto estrema insuperabile rivelazione della sua stessa essenza… e del valore escatologico del proprio terreno apparire». Dall’Annunciazione fino al Golgota si dipana nella rappresentazione artistica «la Donna che ha generato il Figlio e che è anche colei che l’ha atteso; che lo genera senza conoscerlo, che lo cerca senza trovarlo, che lo trova e lo perde, che lo piange e lo ritrova».

Al centro della teologia, anzi, della cristologia, c’è, dunque, anche «Lei», e questo è il titolo che Mariapia Veladiano, filosofa, teologa, preside e scrittrice ha assegnato a un’opera che è definita come “romanzo”. In realtà il testo appartiene a un genere a sé stante ove le contaminazioni sono molteplici come le iridescenze di un arcobaleno: dalla narrazione al canto poetico, dal dramma alla meditazione, dalla riflessione teologica all’esperienza psicologica. Sì, perché è Lei, Maria, a confessare la sua storia unica, dal punto di vista femminile, materno e personale, spogliandosi dei manti spesso dorati che le sono stati imposti. «Sono stata scritta da uomini e donne di ogni tempo … Mi hanno raccontata in poesia, in
pittura, in musica, nel vetro, nel ghiaccio immacolato, a punto croce, sulle volte delle cattedrali e sui selciati delle piazze, a chiacchierino e a tombolo».

Circondata da alcuni attori comprimari ma non protagonisti come lo è solo Lei – dallo sposo Giuseppe agli amici discepoli del Figlio, Giovanni, Simone, Giuda, dalla folla anonima alle figure emergenti di un Nicodemo o dei dottori dei farisei – Maria percorre la trama del suo itinerario esistenziale e la decifra col prisma interpretativo della sua umanità. Ma ciò che scorre nella sua carne e attorno al suo vivere quotidiano è carico di un peso specifico incommensurabile perché trascendente, «Tutta la sua vita è esposta al vento della grazia»,
anche quando il Figlio muore crocifisso e l’Angelo è assente e muto, a differenza di quello dell’annunciazione. Ma alla fine c’è il sorprendente “terzo giorno” pasquale: «Lui è risorto mentre io dormivo e sognavo il suo tornare … Non ho visto come altri hanno visto. lo sapevo … Vedere è meno di sapere e io sapevo».

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Fonte: Il Sole 24 Ore, 31 dicembre 2017

Recensione

Una povera ragazza di paese: si chiama Maria

di Isabella Bossi Fedrigotti

La Lettura, Corriere della sera, 31 dicembre 2017

Centinaia, forse migliaia di volte compare in dipinti, affreschi, immagini, statue; dà il nome a un numero infinito di chiese, e a un numero altrettanto infinito di musicisti ha ispirato arie, melodie, cantici, inni. E migliaia, probabilmente milioni di volte viene invocata, chiamata in soccorso, vista apparire, sorridere o piangere dentro a grotte, rosai, tra le fronde di alberi, o anche dentro gli specchi di casa.

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Ma tutte queste moltiplicazioni di visioni, raffigurazioni, invocazioni, invece di avvicinarcela, rendercela famigliare, l’hanno resa fissa e inaccessibile, distante e sconosciuta, impenetrabile come chi non è mai stato d avvero vivo. È Maria, la Madonna, la Vergine, la Madre di Cristo di cui sappiamo molto e pochissimo, pur avendola vista in chiese e musei, cappelle e cimiteri, capitelli, crocicchi di strade e altari casalinghi nella sua  rappresentazione più frequente, e cioè perfetta in viso, lo sguardo basso, il sorriso addolorato, il manto azzurro, con o senza bambino in braccio, con o senza serpente sotto i piedi.

Nel suo nuovo libro «Lei» Maria Pìa Veladiano ha tentato un’operazione audace: di indurci, cioè, a dimenticare dipinti e monumenti, inni e immaginette, grotte benedette e rovi fioriti fuori stagione per farci scoprire Maria nella sua (possibile)  verità di povera ragazza di paese cui è toccato un destino infinitamente più grande di lei, di gioia straordinaria e di altrettanto straordinaria sofferenza. Operazione che, in pittura, in musica, in scultura è riuscita ad alcuni tra i più grandi. In letteratura si può dire che senz’altro sia riuscita alla scrittrice vicentina. La narrazione è, infatti, poetica e suggestiva, con richiami, è ovvio, alle Scritture, però mai didascalica, mai fideistica, ma nemmeno mai dolciastra, tale da rendere la protagonista – che si racconta in prima persona – sorprendentemente, intensamente reale.

La voce di Maria risuona ora grave, ora lieve, tenera a volte, drammatica altre; e ripercorre la sua avventura da quel fatidico primo incontro con l’angelo fino allo strazio sul monte di Gerusalemme. Aggiunge al Vangelo, raccontando di Giuseppe, molto di più che padre putativo, degli sconosciuti anni della prima infanzia di Gesù, degli amici, dei parenti, dei beati tempi in cui la sua vita era quella di una mamma normale, più fortunata di altre, perché bello, buono, intelligente e ridente come il figlio suo non ce n’era un altro. Una mamma normale, non fosse stato per quella paura sempre presente nel fondo, molto più tormentosa dell’apprensione che tutte le madri nutrono per i figli, paura legata alla profezia dell’angelo che aveva parlato, per lei, di spada nel cuore. Paura, però, forse ancora più che dell’arcana predizione di dolore, dei protagonisti senza nome che si muovono intorno al figlio: dei potenti prepotenti, dei politici rimestanti, della folla, aggressiva e invidiosa, minacciosa e violenta, banderuola capace di chiamarlo messia un giorno e quello dopo non voler ricordare più nemmeno il suo nome. Qua e là sembra sconfinare, insomma, nel presente la narrazione.

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Fonte: Corriere della sera, 31 dicembre 2017

Recensione

Eccomi, io sono Maria

di Antonio Buozzi

Lettera 43, L’Argonauta, 9 gennaio 2018

Un gatto che inarca la schiena e sembra fuggire, quasi avvertisse la straordinarietà dell’evento, dinanzi all’angelo che irrompe nella stanza, alle spalle di una giovanissima Maria dallo sguardo confuso rivolto in avanti: è la celebre “Annunciazione di Recanati” di Lorenzo Lotto, ripresa, con il particolare del volto, nella copertina di Lei, ultimo lavoro di Mariapia Veladiano pubblicato da Guanda. Lei è naturalmente Maria, la madre del Signore, e il dipinto è forse la migliore introduzione al libro: mostra una giovanissima fanciulla dai tratti comuni, colta nell’ordinarietà di una giornata qualsiasi; né nobildonna, come spesso appare nelle Annunciazioni, né figura esangue o mistica con gli occhi levati al cielo.

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Con il disegno e il colore (lo stesso rosso acceso del manto di Dio sulla veste di Maria), Lotto coglie di questa manifestazione lo stupore incredulo di una semplice ragazzina ebrea, di umili origini, posta all’improvviso di fronte al “mysterium tremendum et fascinans” (Rudolf Otto), al rivelarsi del divino, e incapace di coglierne il senso e la portata, tanto da piegarsi in avanti spalancando lo sguardo allo spettatore, non per fuggire, ma in un aprirsi meravigliato al mondo.

La Maria della Veladiano è questa finestra sulla quotidianità di una donna normale, travolta da un destino più grande. Non ci sono accenti epici, né ricorsi forzati all’immaginazione e alla finzione, non si reinventa una storia: non ce n’è bisogno. La bellezza di Maria è quella semplice e schietta della giovinetta dell’Annunciazione del Lotto, si resta sempre aderenti alla vita e alla realtà, senza forzare la fantasia a creare personaggi di fascino, magari, ma incongrui. Sono innumerevoli le vite di Gesù, da Albert Schweitzer in poi, le attualizzazioni dei Vangeli, ma forse finora nessuno sguardo si era posato con tanta delicatezza e rispetto sull’umiltà di Maria.

Umile sì, ma che rivendica per sé stessa una precisa identità, fin dall’incipit del libro, un racconto confessione in prima persona: “Sono una donna corale. Un’opera collettiva senza il nome degli autori segnato in fondo”. E, in effetti, ci sono tante Marie nella storia della chiesa e nella devozione popolare, forse troppe per essere autentiche o cogliere un qualche tratto distintivo vero e profondo. E se è giusto che la teologia abbia fatto il suo corso, addentrandosi nei meandri affascinanti e impervi della rivelazione, c’era altrettanta necessità di riscoprire questa figura nella sua perfetta umanità: perfetta non nel senso di una superiorità morale o di virtù, ma nel suo essere compiutamente donna e madre. «Facendone un santino gli uomini di chiesa l’hanno di fatto innalzata al di sopra di tutto e resa inaccessibile, con il risultato di lasciare che tutto fosse come prima», osserva Mariapia Veladiano.

Compiutamente umana, in primo luogo, nel non sapere della sua eccezionale maternità se non quello che poteva cogliere poco alla volta dai segni e dalle frasi spezzate del figlio, in una condizione di perenne precarietà: “Affanno di vivere come tutte le altre. E in più il non capire, niente illuminazione, consolazione, altera consapevolezza di essere speciale. Niente”, confessa Maria nel romanzo. Lei è come “appesa alla promessa di un angelo”, vive di stupore e incertezza per qualcosa che la sopravanza, sempre.

Un vivere di meraviglia perché la divinità del figlio non toglie nulla all’incommensurabile dono della maternità: “Ogni vita è Dio che viene. Ogni bambino è Dio. La vita che arriva cambia il mondo. Questa creazione è nelle nostre mani”. La divinità è presente nel luogo di ogni nascita, nello sgorgare di una nuova vita: qui c’è già il miracolo, per la Veladiano, altrettanto grande del Dio che si incarna.

Si stabilisce allora una complicità tra la Madre e il Figlio, entrambi segnati da una volontà più grande e per questo dal mistero della loro solitudine: “Non c’era volo di angeli intorno a lui. Li cercavo nella notte e pensavo che il Bambino aveva solo noi, suo padre era un Dio nascosto. È un tempo in cui Dio ha bisogno di noi”.

In Maria c’è molto di Ildegarda, la protagonista di un precedente romanzo della Veladiano, “Il tempo è un dio breve” (Einaudi), una donna, fragile e insicura, che trova una risposta al suo angoscioso interrogarsi sul male e sulla morte nel riuscire, alla fine, a consegnarsi fiduciosamente alla vita, liberata dall’ossessione di proteggerla – nel figlio – o di razionalizzarla in una comprensione intellettuale, anzi fuggendo da quei “mondi pieni di parole che non ci avevano salvato dal dolore e dalla paura”.

“C’è una continuità precisa” spiega Veladiano “tra Ildegarda e Maria da un punto di vista femminile. E’ stata forse un’audacia voler assumere la prospettiva di Maria, ma non c’è niente di lei che non potrebbe essere di qualsiasi altra donna. Anche nel rapporto con il divino, Maria deve imparare giorno per giorno a coglierne l’assoluta novità, senza rivelazioni o prodigi speciali. Non è neppure testimone diretta della resurrezione, gliene parlano altre donne, eppure la avverte e la sente necessaria dal di dentro del suo amore materno: capisce che questo amore non può finire, che la vita continua”.

“L’amore vero è sempre un lasciare andare l’altro, un lasciarlo libero”, continua Veladiano, “c’è una teologia che lo afferma anche a proposito della creazione del mondo: Dio si contrae, si auto-limita per fare spazio all’uomo, alla sua libertà. Questa è la strada del Vangelo, l’invito di Gesù a rinnegare se stessi. Ed è l’unico modo per evitare le relazioni fagocitanti, che diventano fatalmente patologiche. Se c’è una cosa sicura della rivelazione è che questo Dio si è consegnato a noi facendosi bambino, che ha avuto bisogno di persone come Maria e Giuseppe che si prendessero cura di lui. O questa lo consideriamo una favola o è una cosa seria, e allora ci dice anche molto a proposito di Dio”. Da questo abbandono nasce, allora, la grazia, frutto di una vita affidata (nel termine c’è fides, fiducia) e ricevuta indietro come dono. E, infatti, “una vita esposta alla grazia” è l’epigrafe che conchiude il romanzo e che fa il pari con l’esclamazione di Ildegarda ne Iltempo è un dio breve: “tutto è Lui”, come il “tutto è grazia” del curato di campagna di Bernanos.

Chiedo ancora a Mariapia Veladiano, che ha conseguito una licenza in teologia all’università Lateranense, che cosa avverte più vicino alla verità: la narrativa o la teologia… “Dobbiamo forse riscoprire la qualità narrativa della teologia”, risponde, ”che non si fa solo con i grandi trattati: i Vangeli, le Lettere di Paolo, l’Apocalisse sono in fondo delle grandi narrazioni su Dio e sull’uomo. La narrativa ha questa facoltà, di lasciare sempre aperta la porta a interpretazioni e risposte successive, senza imporre una lettura definitiva”.

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Fonte: Lettera 43, L’Argonauta, 9 gennaio 2018

Maria, la madre che ebbe paura

di Roberto Carnero

Jesus, gennaio 2018

Le due grandi passioni di Mariapia Veladiano sono la scuola e la scrittura. Preside di un istituto superiore di Vicenza, la città dove è nata il 17 aprile 1960, Veladiano ha appena pubblicato presso Guanda un intenso romanzo incentrato sulla figura della Vergine Maria, Lei (pp. 172, euro 17,00). Questo libro segue altre opere, assai apprezzate da critici e lettori per l’originalità dello sguardo e la forza dello stile: tra le altre, La vita è accanto, Il tempo è un dio breve, Ma come tu resisti, vita (editi da Einaudi). Già i titoli dicono molto: il tempo, la vita, la fede sono i temi ricorrenti nella produzione letteraria di Veladiano, che viene da un percorso di studi teologici.

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La sua prima materia di insegnamento è stata religione cattolica alle medie, poi – dopo la laurea in Filosofia – italiano in un istituto professionale. Forse è anche per questo che fede e narrativa sono due ambiti strettamente legati nel suo ultimo romanzo, in cui l’autrice ha scelto di raccontare la figura di Maria entrando nella mente del personaggio. Il testo dà infatti voce ai pensieri e alla vita della Madonna, concentrandosi soprattutto sulla sua umanità, e così evitando di renderla la figura un po’ stereotipata di certo devozionismo.

Ma le grandi idee non vengono mai all’improvviso.  L’idea del libro – ci spiega l’autrice – è giunta come una sorta di ricomposizione di tanti percorsi intorno alla figura di Maria:

«Per un periodo ho tenuto delle lectio in un gruppo. La meditazione intorno all’Annunciazione è stata una specie d’illuminazione. Conoscevo tutta l’enfasi che la teologia ha messo sul sì di Maria. Che in realtà è un “eccomi”. Cioè “io sono qui”, non scappo come verrebbe naturale fare».

La copertina del romanzo riprende questo primo movimento fra la fuga  e il trattenersi: un’espressione dello sguardo che Lorenzo Lotto rende meravigliosa nel suo essere comune e proprio per questo anche divina. Continua la scrittrice: «Ci sono, rimango. “Eccomi” è bellissimo. Eppure sentivo che nell’enfasi dell’interpretazione tradizionale mancava qualcosa. Qualsiasi cosa fosse la promessa che in quel momento legava Maria a Giuseppe, lì mancava Giuseppe». Da qui una serie di domande: possibile che si desse per scontato che Maria potesse rompere la promessa di Giuseppe per una pro- messa “superiore”? E che Dio è quello che rompe una promessa fra un uomo e una donna? Se è così, come lo si può amare? Sembrerebbe quasi un Dio che non ama… «Eppure», riflette Veladiano, «l’Annunciazione è tutta intessuta intorno al tema dell’amore. Di Dio per gli uomini innanzi tutto. Ma anche di Maria per la vita e poi l’amore fra Maria e Giuseppe. E da questo è partito un cammino in cerca del sentire di Maria. Lei parla pochissimo nei Vangeli. In compenso di lei parlano moltissimo la teologia, la devozione, l’arte. Un fiume».

Tuttavia Mariapia Veladiano scrive romanzi, non trattati  teologici. Nel suo libro, Maria parla in prima persona. La scrittrice le ha dato delle parole, facendolo da un punto di vista di profondissima empatia: una donna molto giovane che impara insieme a suo figlio a costruire le loro vite. Ma  è stato difficile – le chiediamo – porsi dal punto di vista di Maria? «Non ci ho nemmeno provato, nel senso che non ho cercato di immaginare quello che lei ha immaginato. Ho cercato di ascoltare. Per lavoro sono immersa nei rapporti con genitori che non capiscono i figli, trasparenti nella loro paura di perderli, immersi  in  quella sospensione propria di chi  tiene  da solo il capo di un legame perché dall’altro capo c’è un movimento di autonomia che diventa provocazione, che diventa autolesionismo a volte, un fare e disfare onnipotente come si pensa onnipotente l’età giovane. Tutto questo aiuta a capire che tutto sta nell’ascolto, non chiudere mai, dire “eccomi” ogni minuto del giorno. E poi si tratta di lasciar andare, perché non siamo padroni della vita che abbiamo trasmesso». Essere vicini e lasciare andare. Sembrerebbe un ossimoro… «La vita è tutta ossimorica. Tenere insieme la sua bellezza e il suo essere terribile. Gioia e fatica. Sgomento e speranza».

Scrivendo Lei, Mariapia Veladiano ha fatto delle piccole, grandi scoperte. È questa la forza della letteratura, il senso profondo di quest’arte, quando non sia concepita – come certamente non accade nel caso di quest’autrice – come semplice passatempo, esercizio di stile o gioco di società. «Ho capito che l’umanità di Maria va raccontata, va preservata contro ogni tentativo di renderla figura esemplarmente altissima, distaccata. Maria non ha potuto non avere paura. Vorrei vedere che madre sarebbe se non avesse avuto paura di perdere quel figlio così speciale che le era arrivato. Ma non ha ceduto alla paura. Non perché sapesse qualcosa di più, non perché le fosse stata rivelata la risurrezione, ma perché, tutta dentro a quell’amore messo a durissima prova dalle scelte di Gesù, lei sapeva che quell’amore era troppo vero, immenso, veniva da prima di lei, aveva attraversato tutta la sua, la loro vita a tre, troppo presente e assoluto per poter finire. Sarebbe continuato dopo di lei, di loro. L’avere attraversato la storia di Gesù da umanissima madre e da donna ha reso possibile questo punto di incontro, il punto in cui l’umano diventa divino. Nell’accogliere la vita siamo divini. Di questo si tratta».

Il coraggio della risposta è stato dunque la grande, primaria virtù di Maria. Oggi Mariapia Veladiano ammira molto papa Francesco proprio per il coraggio con cui sta portando avanti un’opera di rinnovamento profondo della Chiesa, anche quando ciò gli costa l’opposizione di quelli che non comprendono o temono il cambiamento. Sul Pontefice, Veladiano ha un’opinione molto precisa: «Lo trovo straordinario nella sua capacità di liberarci dall’ansia di avere ragione e di dover difendere le nostre ragioni. In ogni sua parola dice che la Chiesa è grande, l’amore non giudica, c’è posto per tutti. Libera energie bloccate dall’ansia del giudizio. Sta facendo un’operazione straordinaria sulla lingua utilizzando per la predicazione teologica un linguaggio comune restituito alla sua verità. Abbiamo devastato la lingua piegando le parole più nobili ai nostri scopi. La libertà è stata confusa con la sicurezza. L’amore per il prossimo è confuso con il buonismo, e così via. Lui osa parole inquinate dall’uso e le restituisce al loro valore. Lui dice, lo ha detto il 12 ottobre scorso al Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione, che molti errori del passato nella Chiesa erano dettati da “una mentalità più legalistica che cristiana”. Ecco, questo è tutto: liberarci dal pensiero legalistico e vivere, accogliere, amare. Il legalismo, l’adorazione delle regole ci fa perdere di vista la meravigliosa complessità della vita e la varietà delle persone e delle situazioni. Trovo straordinario che papa Francesco riesca a riportare il punto sull’amore. Poi, certo, dice dei no e dei no precisi. Che però non sono giudi- zio, sono un dire: ecco, questo non va bene perché mi pare contrario al Vangelo, però Dio ama tutti. Splendido».

Era inevitabile che ciò accadesse: parlando della figura di Maria, della sua visione della fede, della pratica della letteratura, Mariapia Veladiano non poteva non parlare di famiglia e di scuola. Prima da insegnante e ora da preside, è da molti anni che ha quotidianamente a che fare con l’universo dei ragazzi e con i loro problemi. Prima di congedarci da lei vogliamo dunque affrontare l’argomento scuola. E le chiediamo che cosa bisognerebbe fare, a suo parere, per rendere la scuola italiana davvero una “buona scuola”. È un tema su cui ha le idee molto chiare, e per questo ci risponde con grande determinazione. «Che una scuola è buona deve dirlo il mondo intorno. Un progetto di riforma, come quello voluto dall’ex premier Matteo Renzi, che si definisce “buona scuola”, si presenta con il peccato d’origine della presunzione, dell’arroganza verso una scuola precedente che considera “cattiva”. Eppure è quella scuola “cattiva” che ha permesso a intere generazioni come la mia di superare le distanze sociali, di uscire dalla povertà e dall’ignoranza dei propri diritti, soprattutto».

E oggi? «Penso che la scuola buona sia quella che parte da un credito di fiducia verso ogni ragazzo che vi entra, ma non regala niente. Offre impegno e serietà e chiede impegno e serietà. Lavora dannatamente per compensare le disuguaglianze di partenza. È una scuola di parte, dalla parte di chi ha avuto meno dalla vita. È una scuola dell’equità e della libertà. Lontana dalle tentazioni demagogiche. Una scuola che sa coltivare la collaborazione. Un laboratorio di convivenza e di vita. Credo che oggi la scuola buona debba trovare la lingua con cui raccontarsi, una sua lingua, diversa da quella a sfondo economico che l’ha confusa in questi anni: crediti scolastici, debiti formativi, traguardi, studenti come lavoratori, presidi come datori di lavoro. C’è una rifondazione delle nostre parole di scuola da operare. Le parole sono tutto. La parola è tutto». Parola di preside. E di scrittrice.

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Fonte: Jesus, gennaio 2018

madre che asseconda la vita

La madre che muore ci porta con sé per tutta intera quella parte di lei che ci accompagnava ogni istante presente, o sullo sfondo, pensiero o soprassalto di emozione lontana. Nel racconto di Ferdinando Camon questo è un compito che, senza intenzione, come portato, si assume il padre, mentre i figli e i nipoti e i campi, le vigne, la terra fanno da coro. Coro di sguardi e di silenzi, lui è il solista.

Un altare per la madre è esattamente come una musica che si ama. La si ascolta e riascolta e ci rassicura con i passaggi che conosciamo così bene da aspettarli con impazienza, quasi mandati a memoria. E insieme ci sorprende con un’immagine nuova, scappata alle altre letture oppure resa nuova dal nostro essere ogni giorno nuovi, riscritti dalla vita, a volte sottolineati, come quando la nostra madre se ne va senza il giusto avviso.

«La bara avanzava ondeggiando». È così. Portate a braccia le bare ondeggiano, appena un poco sopra le teste, chi se n’è andato ancora rimane un poco con noi, fra noi e il cielo, incerto di poter partire. Forse con i nostri riti gli diamo il permesso. O lo tratteniamo in modo scomposto, e così ondeggia sul nostro dolore incerto.

Qui è morta la madre: «Ora la madre era morta, ma questo non era possibile».

L’amore per la madre non conosce la pena di un lento venire meno come capita ad altri amori che ci lasciano la tristezza di non aver potuto fissare splendido e immobile il nostro sentimento. L’amore per la madre è per sempre. Sia quando lo abbiamo assecondato sia quando siamo scappati e lo abbiamo troncato rabbiosi, e la rabbia lo ha reso più accanito e presente.

La madre che muore ci porta con sé per tutta intera quella parte di lei che ci accompagnava ogni istante presente, o sullo sfondo, pensiero o soprassalto di emozione lontana. Lei c’era e il mondo era in ordine.

«Di questo mio essere vivente faceva parte anche mia madre, doveva farne parte per sempre, io vorrei pregarla di smettere di morire, ma forse nella sua morte c’è stato un errore, mio, nostro – di noi tutti che le vogliamo bene – e tocca a noi rimediare, richiamarla in vita, non rassegnarci».

Nel racconto di Ferdinando Camon1 questo è un compito che, senza intenzione, come portato, si assume il padre, mentre i figli e i nipoti e i campi, le vigne, la terra fanno da coro. Coro di sguardi e di silenzi, lui è il solista.

La scrittura qui è perfetta. Il tema, la sequenza di suoni che permette alla musica, alla vita, di non implodere, finita nell’immobile ripetere gesti, si mostra da lontano: «Sono tornato dai miei ma non ho trovato in casa nessuno, la casa era spalancata e deserta. Sono andato a cercarli sui campi e mi son seduto sotto un vigneto. Li vedevo muoversi tutti insieme, lontani, all’orizzonte, e non capivo che lavoro facessero. Certi lavori qui sono fatti ancora all’antica, i movimenti che una volta mi sembravano naturali adesso non li capisco più. Mi sembrano scaduti. Ci dev’essere qualche estraneo in mezzo ai miei, perché vedo una figura che sta sempre in piedi, non si curva mai, dunque non lavora».

È lo straniero a portare una storia di lei che nessuno in famiglia conosce. Durante la guerra, mentre scappava da chi lo inseguiva in auto cantando con i fucili che sparavano fuori dai finestrini, la «signora», così lo straniero chiama la loro madre, si è alzata di scatto dalla «muretta» dove stava seduta: «Drento, drento, curi curi», ha gridato. «Dentro, dentro, corri corri».

Salvato da lei, nascosto dietro una parete che non c’è più, ma lui conosce il punto esatto in cui tutto è capitato e il padre vuole sapere, perché il padre «vuole sempre sapere tutto» e perché questo punto è il varco, la storia che riprende a essere storia e non terra di cimitero pronta a gelare nell’inverno di pianura.

Bisogna ricostruire il muro della salvezza, ricostruire questo pezzo di vita, miracolo di vita salvata che moltiplica le vite salvate come i pani e i pesci del Vangelo.

Il resto è una liturgia senza regole, un forsennato lavoro di mani, ginocchia, sangue. Il padre ricompone pietra su pietra la costruzione dove la salvezza è avvenuta. Trova le fondamenta, è a un incrocio di strade. Sta con lei mentre lavora. Vede quel che lei vedeva, sente le campane da dove lei le sentiva, mentre lui era in guerra. L’idea dell’altare è naturale come quel che è venuto prima. Quel luogo può diventare casa per uno degli altari davanti ai quali si ferma la processione annuale delle campagne.

È la processione che fa conoscere i malati da visitare. Non ci sono altari da quelle parti ed è importante averne uno per i malati. Mancano solo due settimane alla processione. Manca il materiale con cui costruire l’altare. Mancano anche le forze ma bisogna. Non la vince la corsa contro il tempo il padre, come è giusto. L’altare è pronto due ore dopo il passaggio della processione e della benedizione. Ma il tempo lo fanno gli uomini infine. Sono loro a permettere che sia legge oppure vita. L’altare per la madre è vita e il prete la riconosce.

«Quando gli altri uccidono, bisogna salvare il più possibile. Quando gli altri muoiono bisogna inventare una forma di immortalità».

Non è un trattenere la madre. È il progressivo faticoso acquisire che la madre è eterna nel bene fatto, segreto dentro i gesti necessari e diventato improvvisamente folgorante nel punto luminoso in cui lei ha salvato l’uomo, vincendo la morte grazie a questo spontaneo assecondare la vita, che è arte divina consegnata agli uomini.

Mariapia Veladiano

da Il Regno – attualità, 15 ottobre 2016