fragile leonessa

Isabella D’Este ha sedici anni quando arriva a Mantova, sposa di Francesco II Gonzaga. È il 1490. Quattro anni dopo Carlo VIII inizia la lunga serie delle orrende guerre che rivolteranno l’Italia costringendo i piccoli ducati e le signorie a vorticosi cambi di alleanza e a impensati servaggi. Fra questi c’è il Marchesato di Mantova, bello come una miniatura, e indifendibile a meno che non riesca a tessere una rete, ragnatela di relazioni e alleanze protettive. Una storia fitta fitta che vista dal di fuori delle date e delle battaglie ha un che di respingente.

Ma è possibile trovarsi dentro e tutto cambia. Rinascimento privato di Maria Bellonci (Mondadori, 1994) racconta questo periodo attraverso le parole di Isabella già grande, si direbbe in francese. Quando nella finzione narrativa comincia a scrivere, dentro la Stanza degli orologi del suo palazzo mantovano, Isabella è una donna diventata colta per posizione sociale, per scelta e per esposizione a un mondo di cultura di assoluto privilegio, ed è donna di governo e grande tessitrice per intelligenza, istinto e necessità. Maria Bellonci crea per lei una lingua nuova, piegata al bisogno di scolpire un’interiorità esigente, e sceglie le parole con minuta ossessiva precisione.

Isabella ci avvolge con «gli anni pieni, addirittura frenetici» che le sono toccati in sorte, con le persone che questa storia l’hanno fatta, figure che ci prendono il respiro a incontrarle così tutte insieme: Ludovico il Moro, Leonardo da Vinci, Raffaello, Pico della Mirandola, Mantegna e poi gli Sforza, i Gonzaga, Aldo Manuzio. Tutti fuori dalle righe della storia scritta, sopra o più spesso sotto le righe, tracciate in realtà da questa donna che incontriamo giovane, osservatrice, a cui ben presto e spontaneamente i messaggeri di pericoli si rivolgono prima che a suo marito perché lei sa trovare il modo di non moltiplicare le sciagure con mosse d’orgoglio irriflessivo.

L’esser donna in un mondo incendiato da legioni di uomini fissati nella loro ossessione di potenza non ostacola il suo esistere fuori dallo stereotipo speculare: «Ho scoperto che la mia condizione di donna non è predominante in assoluto e non mi impedisce di diventare un essere compiuto, purché io non sia ingannata da me stessa». Qualcosa rende Isabella forte. Innanzi tutto questo saper guardare la verità: «Aver paura non serve» è una sua massima. Non accoccolarsi nell’inganno, non raccontarsi la favola vuota di un ducato di Mantova che può combattere solo contro tutti. Di uomini fedeli alle loro mogli. Di patti politici rispettati. Di lealtà fra parenti.

Tutto può capitare al cuore dell’uomo, buono e cattivo si mescolano, resta solo l’arte di star saldi, fedeli alla necessità di vivere per sé, per il proprio ruolo, per i figli. A volte non combattere è esattamente quel che si deve fare e inviare un quadro di Mantegna per conquistare un’alleanza val più che «quell’orgoglio di virilità che tradisce tanto gli uomini».

Poi Isabella è forte perché non è sola. Si lascia consigliare da Pirro Donati, di qualcuno bisogna fidarsi, non si può vivere senza poter abbandonarsi, nel vortice di una confusione che annulla i pensieri, al consiglio o al gesto deciso di un altro, che chiude la porta di una stanza e fa annunciare che la Marchesa è indisposta, non riceve nessuno, nemmeno il furioso marito Francesco, pronto a uno sproposito politico.

«Di salute sono una fragile leonessa», scrive Isabella. In questo somiglia un poco a tante donne, che fanno quello che devono comunque, accanto a uomini che fanno quello che possono. Isabella attraversa le sale del suo palazzo e gli eventi straordinari del suo tempo con tutta la consapevolezza di un ruolo che le impone doveri immensi.

Poi ci sono gli amori. C’è quello per Francesco, sposo imposto ma amato di amore alterno anche se un poco impaziente verso gli errori politici e le arroganze private. Certo è un amore passionale, anche quando la fine di lui sta per arrivare. E c’è l’amore magnificamente inespresso, trattenuto ma senza malinconia, con cui Robert de la Pole accompagna da lontano la vita di Isabella. È un prete inglese, diplomatico di professione, personaggio inventato, com’è sempre inventato in fondo ogni amore che ossessiona, più costruzione di desiderio che realtà. Le scrive dodici lettere a cui Isabella non risponde. Ma le legge, le conserva, le attende anche: «Si infilavano nel tessuto della mia esistenza».

Il silenzio di lei è parola d’amore: «A lui ho lasciato facoltà di fantasticare sulle mie risposte non scritte e naturalmente egli può essersi immaginato una replica non sprezzante anche se severa sulle sue confidenze. Eppure, dico la verità, è la confidenza a piacermi quando non mi manda in furore. Se lo vedessi apparire ancora (…) se lo vedessi con quegli occhi tutti neri giudicanti sul viso chiaro mi sentirei di combattere o gli tenderei la mano? Ma che dico?».

Rinascimento privato regala l’incanto di un mondo. Impossibile insegnare, pensare, immaginare Isabella D’Este e quel mondo diversi da come ce li consegna Maria Bellonci.

Su Il Regno, “Riletture”, 15 giugno 2015

donna, madre, prigioniera

Quando nel 1906 pubblica Una donna, Sibilla Aleramo ha trent’anni e almeno quattro vite sulle spalle.1

La «fanciullezza libera e gagliarda» di cui parla all’inizio del romanzo che, al di là dei necessari scostamenti narrativi, è una trasparente aspra autobiografia dei sentimenti e delle emozioni. L’età bambina è trasfigurata dal sogno, non perfetta certo, ma avvolta da «un’armonia delicata e vibrante», da «una luce». Sibilla Aleramo è prima figlia di una famiglia piemontese, ricca di beni e di idee, amata dal padre che lei idealizza come è normale che capiti, educata a una libertà di pensieri e di progetti alquanto singolare per una ragazza dell’epoca.

C’è poi la sua vita di sposa bambina accanto all’uomo che l’ha violentata, a sedici anni, nella piccola cittadina delle Marche in cui la famiglia si è trasferita seguendo il lavoro del padre. Un luogo in cui Sibilla scopre il mare, la spiaggia delle passeggiate piene di vento e sole dove «tutto scintillava» e «per la prima volta aveva la rivelazione della bellezza del mondo» e insieme scopre che esistono persone e pensieri impensabilmente più circoscritti, quasi primitivi rispetto a quelli che ha frequentato e conosce.

Le donne chiuse in casa, a spiare le vite degli altri e a praticare il veleno della chiacchiera, gli uomini fuori, gagliardi, a tradire le donne e a farsene vanto. La violenza sul suo corpo arriva nel pieno di quel confuso irrompere del sogno d’amore che non ha ancora forma né parole quando si è ancora meravigliosamente giovani e nuovi. Per cui quella violenza alla fine non poteva essere frutto di un istinto innominabile o peggio di un calcolo. Doveva essere amore. È senza tempo questo bisogno che pretende di trasformare in amore la violenza subita, perché è impensabile, indicibile, intollerabile scoprirsi oggetto rubato da mani violente proprio quando si è tutte intere, tutti interi, pronti a regalarsi, a darsi senza calcolo e limiti.

La terza vita arriva con la maternità, a cui Sibilla si abbandona come alla felicità. Ed è felicità. Le pagine che raccontano l’amore per il suo bambino sono luce. L’ombra del marito va e viene molesta. Ma l’amore di lei per il figlio riempie i giorni e le pagine. Impossibile leggere quel che segue se non dentro l’impressione di questo amore.

E poi c’è la vita da cui racconta. Già oltre, e per sempre dentro, una seconda violenza, che stavolta ha il tratto assoluto della tragedia, quando qualsiasi scelta porta con sé un carico di ingiustizia e di dolore al quale non è dato sottrarsi.

La convivenza con il marito violentatore è solo dolore. Non nasce amore dal malamore. Andarsene con il bambino è impossibile. Il marito non lo consente, per orgoglio, per il potere che deve tenere agli occhi del mondo e di se stesso. Così come non permetterà che la moglie entri in possesso di una sua rilevante eredità. Niente possiede una donna di suo. Nemmeno il diritto di uccidersi. Sibilla ci prova maldestramente, col veleno, ma viene salvata. È un’epoca in cui le donne passano dal padre al marito e se nel matrimonio non c’è niente che ricordi un poco almeno l’affetto, la felicità possibile ha l’unica forma del sacrificio di sé nell’amore per i figli.

Sibilla scopre qui una lettera della madre, infelice e tradita come le altre donne. «Debbo partire… qui impazzisco… lui non mi ama più. Ed io soffro tanto che non so più voler bene ai bambini… debbo andarmene, andarmene. Poveri figli miei, forse è meglio per loro!».

Una storia che si ripete, la madre era rimasta, la sua infelicità aveva avvelenato i figli. Anche lei salvata da un tentato suicidio, ma non dalla malinconia e poi dalla follia. Storia uguale a quella di tante donne tenute insieme dalla tenerezza verso una vita da accudire.

«Mi piaceva guardar nelle tenebre, non ne avevo paura», scrive Sibilla di sé bambina. La tenebra è qui una scelta che non può schiarirsi. Restare per il bambino e sacrificare la sua felicità (possibile) di donna piena di attese, come tutti, o partire, obbligata a lasciare il bambino, e sacrificare la felicità che viene dall’accompagnare nella vita il proprio figlio? E lui? Cosa è bene per lui?

L’esito della tragedia è quasi sempre la morte. Fisica morte che sopprime il dilemma e moltiplica il dolore. Sibilla sceglie di vivere. Se ne va, per il bambino oltre che per sé. Per non infliggergli l’infelicità della vita di lei sacrificata. «Perché nella maternità adoriamo il sacrifizio? Donde è scesa a noi questa inumana idea dell’immolazione materna? È una mostruosa catena. (…) Per quello che siamo, per la volontà di tramandare più nobile e più bella in essi la vita, devono esserci grati i figli…».

Un romanzo non è mai (solo) un’autobiografia. È anche una nostra storia a noi riconsegnata, un poco squadernata a nostro beneficio.

«Come avevo potuto? Ero un povero essere dal quale la mano di un chirurgo ne svelle un altro per evitar la morte di entrambi». Quanto alla felicità, è parola che quasi non si può pronunciare.

1 S. Aleramo, Una donna, Feltrinelli, Milano 2003.

Si Il Regno, “Riletture”, 15 aprile 2015

la “passione” di un bambino

«In quella storia di sangue e corpi nudi che è la vita degli uomini» Pin viaggia con la furia senza pace di chi sente che ha una sua vita da vivere e che è ingiusto che il mondo ne faccia scempio. Schiacciato nel suo ruolo di fratello di una prostituta, che peraltro mezzo di quel mondo frequenta da cliente, strapazzato da Pietromagno suo padrone alla bottega, provocato sulla pistola da rubare, rito di passaggio smisurato che nessuno fra gli sfaccendati dell’osteria ha mai compiuto così terribile, pestato dai fascisti, malaccettato dai partigiani. Nel Sentiero dei nidi di ragno Calvino costruisce un’umana «passione» in cui il protagonista è un bambino che non ha nemmeno il sogno di avere un dio dalla sua parte (il testo, scritto nel 1947 e pubblicato anche nei «Meridiani» di Mondadori, è stato riletto in questi giorni da RAI Radio 3).

Ai suoi occhi «i grandi sono una razza ambigua e traditrice» e «non ci si può mai fidare di quel che dicono» (22), «sono ambigui e bugiardi» (63). A proposito di Michel il francese che ha tradito passando alla brigata nera, Pin è irritato di «sbagliare tutte le volte e non sapere cosa fanno i grandi» (32). Pin è piccolo perché è bambino e molto più piccolo perché non c’è chi riconosca che vale. Non sa il suo valore se nessuno glielo riconosce.

Eppure «Pin ama i grandi, ama fare dispetti ai grandi, ai grandi forti e sciocchi di cui conosce tutti i segreti» (16). Ai grandi che non sanno fare i grandi Pin risponde colpendo dritto il loro esser farisei e Giuda insieme, e scivola su un piano inclinato che lo porta a essere solo, solo, solo.

La rinascita vuole una nuova creazione. Il paradiso terrestre di Pin è questa natura che rimane divina a dispetto del male degli uomini: «Il gracidare delle rane nasce da tutta l’ampia gola del cielo, il mare è una grande spada luccicante nel fondo della notte. L’essere all’aperto gli dà un senso strano di piccolezza che non è paura. Ora Pin è solo, solo su tutto il mondo. E cammina per i campi coltivati a garofani e calendule» (52). Ha fame e trova le ciliegie, su un albero lontano dalle case e «sorto lì per incantesimo». «Pin si arrampica tra i rami e comincia a sfrondarli con diligenza. Un grosso uccello gli piglia il volo quasi tra le mani: era lì che dormiva. Pin si sente amico di tutti, in quel momento, e vorrebbe non averlo disturbato».

La salvezza non ha la forma limpida di un redentore, ma quella ancora confusa di uomini che si possono dire dalla parte giusta, partigiani divelti dal proprio vivere circoscritto per ragioni che sono ciascuna una storia: dal cosmico perseguire le magnifiche sorti e progressive dell’umanità di Lupo Rosso, al privato legittimo «tornare a fare lo stagnino» (95) di Giacinto, fino al motivo più privato, il tradimento di una donna, per Cugino.

Da molte strade si può arrivare a fare la cosa meno sbagliata. Perché neanche questi son modelli per Pin. Il Dritto è debole, manda a fuoco il rifugio per l’indolenza di un amore che è un lasciarsi andare più che un lasciarsi trasformare, anche in questo mondo di uomini un poco più veri c’è chi tradisce, come Pelle che non torna più su dai compagni, si unisce alla brigata nera e fa fucilare gli amici di prima, per ferocia. Assiste agli interrogatori. Lo fa senza motivo.

La vita rimane aggrovigliata e rabbiosa dentro Pin. Anche quando sta con i partigiani. Da un lato «canta e guarda il cielo e il mondo puliti del mattino e farfalle montanare dai colori sconosciuti che si librano sui prati» (88) e dall’altro «è ripreso dal contagio del peloso e ambiguo carnaio del genere umano: ed eccolo a occhi strabuzzati e lentiggini fitte che spia gli accoppiamenti dei grilli, o infilza aghi di pino nelle verruche del dorso di piccoli rospi, o piscia sopra i formicai guardando la terra porosa sfriggere e sfaldarsi e lo sfangare via di centinaia di formiche rosse e nere» (88).

La cattiveria è dentro tutti, giocare ai buoni e ai cattivi mette in croce il più ingenuo e malaccorto, lo sprovveduto o quello di cui pensiamo di avere più paura. I più malvagi spesso sanno meglio l’arte del mascheramento o anche quella del confondere. Eppure c’è «la parte dei gesti perduti» (107), secondo le parole del commissario Kim. E quella «degli inutili furori perduti, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio». E la politica è «utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro se stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo».

A salvare, forse, Pin, che è costretto a rifiutare quel che resta della sua famiglia impossibile, è la mano «soffice e calma» (147) di Cugino, che santo non è proprio. Ma quando, circondati da lucciole nella notte, Pin osserva che viste da vicino sono «anche loro» (come gli uomini?) rossicce e schifose Cugino gli risponde che sì, è vero, «ma viste così sono belle».

E insieme possono continuare a camminare.

Su Il Regno, “Riletture”, 15 marzo 2015