vedere l’amore

Si può scoprire d’amare in modo smisurato una persona solo dopo che questa non c’è più. Oppure si può scoprire l’amore smisurato di questa persona per noi solo dopo che questa non c’è più. Oppure tutte e due le cose. È sempre tremendo non riconoscere l’amore. È struggente. Ma c’è anche chi ama di un amore che non s’impone, capace di sparire trasformandosi in azioni e attenzioni quotidiane così naturali e così minute che scorrono silenziose e invisibili.

Prenditi cura di lei (di Kyung-Sook Shin, Neri Pozza, Vicenza 2011) è la storia di un amore fatto così. È la vita di una madre, che si chiama Park So-nyo. Si è sposata giovanissima con un uomo per lei scelto dai genitori, come usava e usa ancora qua e là nel mondo, in questo caso la Corea del Sud.
Per più di cinquant’anni si è presa cura di tutti. Nella povertà assoluta della campagna coreana della seconda metà del secolo scorso, ha ogni giorno strappato il cibo alla terra.

Aveva «mani che potevano far crescere qualsiasi forma di vita» (124). Sapeva lavorare ogni tipo di prodotto: «Nel ripostiglio teneva bottiglie di vetro di ogni dimensione, piene di succo di prugna o di fragola selvatica… c’erano vasetti colmi fino all’orlo di pesciolini e molluschi fermentati oppure di pasta d’acciughe… se sentiva dire che le cipolle giovavano alla salute, faceva il succo di cipolle, e prima dell’inverno preparava succo di zucca con infuso di liquirizia» (8). Seminava, zappava, allevava pulcini, cucinava, lavava i piatti e le lenzuola, puliva tutto sempre e tutti ritenevano normale che lo facesse semplicemente perché lo faceva e faceva insieme mille altre cose, s’interessava ai figli, li esortava fieramente a studiare, li redarguiva se si lasciavano andare.

Quando poi i figli vanno via, lei telefona loro regolarmente, s’informa minutamente delle loro vite, poiché non sa scrivere detta le lettere in cui dà notizie, rassicura, raccomanda. E poi, regolarmente, lei contadina senza cultura e mezzi, va a Seul carica come all’inverosimile di ogni ben di Dio e fa il giro dei figli, lascia a ciascuno il proprio cibo preferito, a ciascuno quel che ha intuito manchi in quel momento. Per tutti è una benedizione.
Ma non lo sanno.

La madre un giorno scompare perché la porta della metropolitana di Seul si è chiusa dietro suo marito ma davanti a lei, e improvvisamente appare tutta la sua grandezza. Il vuoto che lascia è talmente grande che ciascuno si chiede come ancora si possa vivere senza di lei e soprattutto come si sia potuto vivere senza la consapevolezza della sua importanza. Della sua presenza, là dove stava, colonna assoluta del mondo. «Prima che sparisse, passavi le giornate senza pensare a lei» (114). Ora le giornate sono piene solo di lei.

Ogni capitolo è scritto da un membro della famiglia, un diverso punto di lettura di Kyung-Sook Shin. Ci sono pagine lancinanti, come quella in cui il figlio maggiore adorato ricorda che la presenza di sua madre «lo aveva spinto a rafforzare la sua determinazione di essere umano» (85). È tutto ciò che una buona madre può desiderare.

Oppure quella in cui la figlia ricorda come la mitissima madre diventa una furia e litiga con il padre, urla e lancia un tavolino in cortile per convincerlo della necessità di mandare la figlia a scuola. Infine vende il suo unico anello per poter pagare la retta della scuola. La figlia studia e diventa scrittrice. La madre è fiera dei suoi successi e si fa leggere i libri appena vengono pubblicati. Non lo fa di nascosto, ma la figlia non lo sa perché è troppo distratta, troppo lontana e impegnata. Deve tutto a sua madre eppure deve chiedersi quand’è stata l’ultima volta che le ha raccontato un episodio della propria vita.

Le ricerche sono dolorose. Ciascuno dei figli, e il padre, girano la città, mettono volantini in ogni luogo, tornano ostinatamente al punto in cui la madre è scomparsa. Seguono ogni indizio, ogni segnalazione. Ce ne sono alcune all’inizio, che concordano fra loro. Una donna come quella descritta è stata vista in diversi quartieri della città. Tutti quartieri in cui il figlio maggiore molti anni prima aveva di volta in volta abitato. Come se la madre ricordasse e li ripercorresse. Tutto torna. In effetti la madre non stava bene negli ultimi tempi. Lo avevano visto ma nessuno si era fermato a capire. Torna tutto tranne che la madre nelle segnalazioni non porta i suoi sandali, ma porta dei sandali azzurri di plastica, che aveva in effetti, e che in effetti la ferivano e le facevano male, ma in altri tempi, in un passato lontano, quasi lontanissimo. Attraversa in sandali azzurri i luoghi della loro vita, quasi un angelo custode che abita l’eternità e il mondo nello stesso momento.

Chi è la donna che tanti hanno visto e addirittura soccorso? Chi era la madre di cui alla fine era stato anche dimenticato silenziosamente il compleanno? Da parte di tutti. Aveva vissuto la vita che voleva?
È una domanda sensata questa? Il finale è sorpresa
e incanto.

È un libro d’amore nascosto e potente, perché l’amore anche se non si rivela e se noi siamo distratti, tremendamente distratti, ci protegge. Alla fine ci si guarda intorno con occhi che finalmente vedono queste donne senza tempo capaci d’amore assoluto e segreto.

Da Il Regno, 15 febbraio 2020.

La Grazia della vita

Questa è una «RiLettura» tendenzialmente perenne, nel senso che si ha il desiderio di rileggere il libro appena dopo averlo chiuso e poi ancora una volta e dopo qualche tempo ancora, per riascoltare i pensieri del reverendo John Ames che forse sta morendo, in effetti ha un’età importante e il cuore non funziona come dovrebbe, ma ha trovato in un amore bizzarro, inatteso, libero oltre ogni rigidissima convenzione – e intorno a lui le convenzioni sono tutte rigidissimamente accomodate dentro la pancia morbida e formale della fede congregazionista della cittadina di Gilead – ha trovato il regalo di un amore inatteso, non cercato, semplicemente accolto come si accoglie la Grazia quando arriva.

E la Grazia arriva sia che ci si creda sia che non ci si creda. Lui ci crede naturalmente, ci crede per gli altri, e anche per Dio, ma non si aspetta che arrivi davvero per lui, John Ames, e ci mette un poco a capire che alla fine è tutto molto semplice, si tratta di dire di sì alla vita, perché «si può vivere bene in tanti modi» (3).

Gilead di Marilynne Robinson (Einaudi, Milano 22017) è un capolavoro assoluto di scrittura e di umanità. È stato pubblicato nel 2004, in Italia nel 2008. È il primo volume di una trilogia splendida (Lila, 2015; Casa, 2011, entrambi di Einaudi), ma lo si può leggere da solo perché si sa che ogni capolavoro si basta.

Il romanzo ha la forma di una lunghissima lettera al figlio di sette anni, arrivato come un regalo, così come è arrivata la madre, la giovane Lila, rispetto al pastore giovane, arrivata da non si sa dove, che lui ha sposato senza quasi conoscerla e senza sapere ancora di essere innamorato, l’ha sposata perché lei glielo ha chiesto e lui ha detto sì, per fede nella vita, per non commettere il peccato più grande che un uomo possa commettere, che è certo uno e tremendo, cioè sottrarsi alla Grazia che ci raggiunge in forma impensata, anche nella forma discreta di una donna che vorrebbe ripartire e non può farlo perché la vita la trattiene lì, perché lei ha la grazia di portare vita in quel piccolo orto concluso che è la storia di un vecchio pastore vedovo, senza figli e che non conosce ancora del tutto i propri desideri.

Il pastore John Ames è figlio del pastore John Ames, misurato pacifista, ed è nipote del pastore John Ames, mistico guerriero di Dio con cui trattava direttamente, parlandogli quando serviva, combattente unionista compagno di John Brown. Lui, John Ames terzo, è un uomo riflessivo, prudente, onesto, sicuramente un buon pastore per la circoscritta città di Gilead, che non esiste naturalmente, ma che dopo i tre libri della Robinson è vera tanto quanto Roma, Chicago, New York, con le strade e le persone chiamate per nome e per famiglie e soprattutto con una storia.

A Gilead esiste un atro John Ames, ma è John Ames Boughton, figlio del pastore Boughton, amico fraterno di John Ames che con lui discute di grandi questioni di fede. È andato via da casa come il figlio della parabola, ha combinato cose che si conoscono e cose che si ha paura di conoscere e perciò non si osa chiedere.

Tutto il racconto è anche sotto il segno di questo figlio che interroga sulla bontà della vita, che torna e rallegra e insieme inquieta il vecchio padre e anche il pastore John Ames perché vede che lui è giovane quel che è giusto per Lila ed è anche pieno di energie e gioca con suo figlio e parla con Lila e si intende. Ha paura il pastore John Ames? È geloso? Forse, i suoi pensieri sono anche un percorso di consapevole distacco dai sentimenti inutili.

Quando tanta Grazia è arrivata, come si può perder tempo sugli screzi del mondo? Eppure tutto è importante. Anche la parola casuale lasciata cadere nel silenzio di uno stare insieme difficile, diventa assoluto in quel momento.

Il bambino cresce sereno accanto a Lila che gioca con lui e lo porta spesso al cimitero dove si prendono cura della prima moglie di lui. Non c’è tristezza in questo, Lila ha l’arte della continuità. La vita è una, si può essere ancora di qua a camminare sull’erba e foglie e lavorare l’orto, oppure si può essere di là, sì, sotto la terra per poter appoggiare il ricordo, ma sempre di terra si parla, i fiori ci crescono e in qualche modo la fede ci dice che è proprio lei la continuità che Dio ha voluto se ci ha formati dalla polvere: «E non riesco a credere che, quando saremo tutti trasformati e avremo abbracciato l’incorruttibilità, dimenticheremo la nostra splendida condizione mortale e transitoria, il grande fulgido sogno di procreare e perire che fu importantissimo per noi» (59).

Non è triste il pastore e nella scrittura un poco tutto si alleggerisce: «Immagino sempre che la divina misericordia ci restituisca a noi stessi permettendoci di ridere di quello che siamo diventati, di ridere degli assurdi travestimenti – posture chine, occhiatacce, zoppie e cipigli – che tutti indossiamo» (122).

Il bambino figlio di John Ames, nipote di John Ames, bisnipote di John Ames gioca in giardino con Lila.

Un bambino è nato e fa nuove le cose: «Presto mi vestirò di immortalità» (55).

Da Il Regno15 luglio 2018.

Montale e la parola creatrice di mondi

Questa è una storia che può essere raccontata in molti modi e chi ne scrive deve sceglierne uno. C’era una volta un poeta sublime e malcontento. Quando la storia comincia non è ancora riconosciuto come sublime dall’universo mondo, perché non ha scritto ancora abbastanza, perché i tempi son tali per cui mancando la televisione che sublima chiunque d’emblée c’è bisogno di farsi conoscere, di dribblare la critica prudente, stroncante (esisteva la critica stroncante), di aspettare un po’ di tempo prima di sentirsi scrittori da Nobel.

C’è da dire che poi il Nobel lo prenderà, a conferma della sua sublimità. Eugenio Montale pubblica la sua seconda raccolta di poesie, Le occasioni, il 14 ottobre 1939. Il mondo si sta accartocciando nella Seconda guerra mondiale, la Germania ha invaso la Polonia, Francia e Inghilterra hanno dichiarato guerra alla Germania, l’Italia consuma il suo ventennio di colpevole acquiescenza a un programma di violenza, razzismo e velleitaria sopraffazione.

La raccolta riporta in apertura le date 1928-1939. Montale ha lasciato la sua Genova nel 1927 per un impiego presso la Bemporad & Figlio editori ma dal 1929 diventa direttore del Gabinetto Viesseux, incarico che tiene per dieci anni. Poi viene licenziato, probabilmente per motivi politici.

Da Firenze vede e legge il corteggiamento opportunista di tanti intellettuali nei confronti del fascismo, ne invidia un poco i riconoscimenti ufficiali, frutto dei giusti ossequi, e del resto, quale poeta non vorrebbe essere riconosciuto? Nelle lettere private Montale si riferisce a Mussolini come al «cardinale», i fascisti sono i «cardinalisti», i riferimenti alle liturgie pubbliche del regime sono ironici, irridenti. Legge il ridicolo e anche il dramma dei tempi.

È questo il decennio della sua turbinosa relazione con Irma Brandeis. Lei è una giovane coltissima ebrea americana con discendenze viennesi. Arriva al Viesseux il 15 luglio 1933 proprio per conoscere l’autore di Ossi di seppia. Il seguito è una complicata storia d’amore, fatta di assenze, lei torna in America, di lettere, una quantità impressionante, di esasperante irresolutezza da parte di Montale, che vive nel frattempo anche l’attorcigliata storia con Drusilla Tanzi, la Mosca.

In poesia invece Irma sarà Clizia, un soprannome bello quanto ingeneroso in quanto rivela anche un certo compiacimento di Montale, perché la Clizia nelle Metamorfosi di Ovidio è un’amante crudele che provoca la morte della rivale in amore e, per l’eternità trasformata in girasole, non staccherà lo sguardo dal dio Apollo, sua ossessione amorosa.

Con Irma-Clizia sono anni di amore sospeso. Lei lo ama di sicuro, lui anche crede certo di amarla, ma nel modo di chi ha bisogno soprattutto di una musa poetica. E la musa può essere tale anche se sta al di là dell’Oceano. In questo tempo nascono Le occasioni.

Una raccolta senza dottrine, tesi, senza militanza alcuna, quasi senza unità perché le sezioni in cui è divisa segnano stacchi di libertà. Dalle lettere si sa che i bellissimi Mottetti hanno riscritture successive e più muse, più donne-muse confluiscono nei versi, ciascuna con particolari precisi e nessun mottetto appartiene a solo una.

E poi ogni poesia è legata a fatti minuti, che solo lo studio dell’epistolario di Montale permette di ricostruire, ma non si leggono così le poesie, con l’esegesi a piè di pagina. Le poesie sono libere da tutti gli obblighi tranne, e questo è il pensiero di chi qui scrive ovviamente, tranne l’obbligo «di fedeltà alla parola», cioè di scrivere parole capaci di creare il mondo.

Il potere della parola è insieme in chi la pronuncia e in chi la legge, la fa propria, si lascia trasformare da lei e poi, a volte, restituisce parole che trasformano il mondo intorno. Un Dio che si consegna nella parola dice che la Parola è divina e che chi la riceve ha parte nell’opera del mondo.

Montale non è credente. Lo dice ogni volta che ne ha l’opportunità. Ma non occorre essere credenti per conoscere questo potere della parola. Le occasioni possono essere lette come pura fede nella parola. E del resto Montale non è proprio un uomo d’azione. E del resto non tutti possono esserlo. Il metro dell’agire non può essere l’unico, un assoluto quando si giudica la responsabilità storica.

Allora la raccolta Le occasioni dal titolo luminosamente antifrastico, perché le occasioni non si sa da dove arrivano e nello stesso tempo non si sa se vengono afferrate, sono pura istantanea, imprevista possibilità che si apre nella bufera di una tragedia amorosa e storica altrimenti senza varco alcuno.

E riconoscendo la forza di chi in fondo non dispera perché dispensa il potere buono della parola, possiamo leggere anche i versi scelti da Montale per l’ultima pagina: «Questa rissa cristiana che non ha / se non parole d’ombra e di lamento / che ti porta di me? Meno di quanto / t’ha rapito la gora che s’interra / dolce nella sua chiusa di cemento. / Una ruota di mola, un vecchio tronco / confini ultimi al mondo. Si disfà / un cumulo di strame: e tardi usciti / a unire la mia veglia al tuo profondo / sonno che li riceve, i porcospini / s’abbeverano a un filo di pietà».1

1 E. Montale, Le occasioni, «I Meridiani», Mondadori, Milano 1984.

Da Il Regno, 15 febbraio 2018.

lei dunque capirà

La voce di una donna parla da un luogo che lei chiama Casa di riposo e che a poco a poco capiamo essere un aldilà misterioso tanto per chi è rimasto qua quanto per chi lo abita. Si rivolge al Presidente della Casa di riposo, che nessuno ha mai visto ma che ci deve essere poiché ogni cosa là obbedisce ai suoi ordini.

Vuole giustificarsi davanti a lui, spiegargli le ragioni per cui ha rinunciato all’eccezionale privilegio che le era stato concesso, quello di tornare al mondo da cui era venuta, di vivere ancora giorni accanto all’uomo che aveva amato, il poeta irrequieto e vagante a cui lei aveva dedicato la vita, perdonato i peccati, regalato le parole e i versi anche, qualche volta.

Lei dunque capirà, di Claudio Magris (Garzanti, Milano 2006) è una piccola meraviglia di poesia e di amore per la vita. E parla d’amore, innanzitutto. C’è l’amore dei corpi che assecondano e insieme creano la relazione: «Gli ho insegnato io tutto … Quando facevamo l’amore, era come un mare, una grande onda che culla solleva sprofonda si rompe sulla riva; lui senza di me sarebbe ancora un bambino, uno che fa all’amore come soffiarsi il naso, non un uomo» (22).

Le parole sono di lei ma lo sguardo è quello di lui che le attribuisce ogni gagliarda delicata superiorità nell’arte di vivere. C’è l’amore che vince la paura: «Che pena mi fanno quelli che hanno paura, che si agitano per un granello di troppo sotto il seno o nella pancia, per uno scarafaggio sotto la tavola o per un giro d’aria; la gente è piena di tic, vuol dire che non fa all’amore nel modo giusto, se no quelle manie le passerebbero» (23).

E poi c’è l’amore che misteriosamente (perché di là i corpi son quel che sono) continua, lecito anche nella Casa di riposo perché, contrariamente a quel che si dice, il Presidente su queste faccende non è severo, non è uno che «punirebbe Adamo ed Eva solo perché magari facevano all’amore in quel bel giardino… mentre su altre faccende, invece – come litigare, mentire, far male a qualcuno, si capisce subito che non transige, diventa un castigamatti» (24).

E ancora, c’è l’amore che misteriosamente conquista per lei la possibilità di tornare. Lui non si è rassegnato all’assenza di lei. Il dolore lo ha reso infine fastidioso agli amici, a cui raccontava con parole di poesia le illusioni dolorose del ricordo: «Dalla sua parte vedo ancora il lieve avvallamento del suo corpo… è impossibile, lo so, le lenzuola sono state cambiate chissà quante volte da quella volta, ma è là, sì, là, ripeteva, quel vuoto leggero accanto a me, con me, la sua assenza al mio fianco, compagna della mia vita» (11).

Poi ha avanzato richiesta al Presidente, affinché lei potesse tornare. Non si è arreso, si capisce che ha fatto più volte la domanda e infine ha ottenuto per lei il permesso di uscita temporanea, ed è andato a prenderla.

Ci sono Orfeo e Euridice certo in controluce. E c’è la trama delle Scritture, ma rovesciata. Smentito san Paolo, Videmus nunc per speculum in enigmate, tunc autem facie ad faciem (1Cor 13,12), perché di là ci si trova sì «dietro lo specchio, ma quel retro è anch’esso uno specchio, uguale all’altro» (49).

E poi, il Presidente non lo vede nessuno, non c’è visione, non c’è conoscenza limpida e definitiva, niente verità. Il viaggio di ritorno, dietro a lui che è venuto a prenderla, lungo scale, corridoi e pianerottoli della Casa, è un passare senza sguardi e saluti: «Correvo silenziosa, fendevo la calca friabile. File di gente passavano davanti a me, ombre come i passanti in quel viale in riva al mare stagliati nel fuoco del tramonto, figurine di carta piegate dal vento» (37).

Niente beatitudine, anche se nessuno sembra soffrire in modo particolare. Certo c’è un po’ di nostalgia della vita nelle parole di lei, ma forse solo perché la prospettiva inaudita di poter tornare le ha riportato pensieri e ricordi.

Si potrebbe dire che una diversa sospensione abiti la Casa, che assicura sì un riposo, ma è un riposo da fatica di vivere. Un accudimento richiesto dalla spossatezza degli anni o delle malattie.

Niente di simile al sonno dopo l’amore che lei racconta con parole piene di passione. Perché allora è proprio lei a rinunciare al ritorno? Lei a chiamare con voce giovane, forte e sicura il suo uomo che la precede e che non può resistere e si volta come nel mito sui cui passi camminano, e così il divieto è infranto, la possibilità di tornare fra i viventi viene ritirata, l’intercessione faticosa e appassionata diventa inutile.

Perché lei capisce che lui le chiederà, vorrà sapere della Casa e di quel che si sa e come e quando scoprirà che nulla si sa anche dopo, che non c’è luce da indicare con le parole, allora sarà condannato a una vita senza più poesia, accartocciato in «un poeta a cui hanno rubato il tema» (51).

L’ultimo atto d’amore di lei è non annientare la speranza di lui. Meglio per lui il rimorso di un gesto avventato che ha rovinato la suprema possibilità del ritorno di lei, che sapere che non c’è nulla da sapere. Certo tutte queste sono le parole del poeta Magris. Canto e consolazione di un amore venuto a mancare, ma è stato, e ha reso bella la vita. Finché siamo di qua, l’amore è tutto. Non possiamo sapere ma possiamo amare e, così, vivere.

Da Il Regno, 15 gennaio 2018