Segui il desiderio

Un viaggiatore e narratore dalla profonda spiritualità, l’inglese Bruce Chatwin, descriveva così il territorio degli sherpa del Nepal, ai piedi del monte Everest: «Ogni pista è contrassegnata da cumuli di sassi e bandiere da preghiere, messi lì a rammentare che la vera casa dell’Uomo non è una casa, ma la Strada, e che la vita stessa è un viaggio da fare a piedi».

Lo stesso Chatwin – che per sé volle un funerale secondo il rito della Chiesaortodossa – ribadiva la sua preferenza per il nomadismo rispetto alla stanzialità ricordando una visita al Museo Egizio del Cairo: «Vedevo file e file di maschere dei faraoni. E mi chiesi: dove sono le maschere di Mosè? Credo sia stato in quel momento che incominciai a provare simpatia per chi non si lascia dietro del ciarpame. E capii che a me interessava l’altra faccia della medaglia». Viaggiare, dunque, è davvero una necessità dello spirito? Come si può conciliare la spinta a recarsi altrove, il desiderio di ammirare il mondo da una prospettiva nuova, con l’antico precetto dalla saggezza monastica per cui l’uomo non dovrebbe fuggire lontano da se stesso, ma cercare la verità nel fondo della propria anima? Sul possibile significato spirituale e religioso dei viaggi e delle vacanze abbiamo interpellato una delle scrittrici contemporanee più sensibili al rapporto tra gli affetti umani, la bellezza degli ambienti naturali e la dimensione della fede, Mariapia Veladiano, autrice di «La vita accanto», «Il tempo è un dio breve», «Ma come tu resisti, vita» (pubblicati da Einaudi) e di «Una storia quasi perfetta» (Guanda).

«Qui si parla di un viaggiare che è assoluto privilegio – sottolinea Mariapia Veladiano –, non del viaggiare inevitabile della migrazione per necessità o della fuga dalla guerra o dalla persecuzione: questo viaggiare è la traccia visibile e tremenda dell’ingiustizia, di una terra e un’umanità che non hanno saputo costruire il giardino della convivenza. Il viaggiare libero è storicamente legato al benessere e alla cultura. Viene dalla curiosità, dalla ricerca di un sé consapevole di abitare un mondo più grande di quello in cui si è cresciuti. Viaggiare è trovare una distanza da cui leggere la nostra realtà, è riconoscere la diversità come respiro normale della vita, è vivere bellezze diverse, sorpresi da qualcosa che nemmeno potevamo immaginare. Certo che la verità su noi stessi può essere trovata in molti modi, ma la strada è sempre quella di accettare il movimento, un movimento metaforico o reale, ma sempre un viaggio è questo essere veri perché coincide con l’esser vivi, capaci di accogliere il movimento della vita. La vita non è mai immobile».

Ci sembra che nei suoi libri e nei suoi articoli ricorrano spesso descrizioni e allusioni a quelli che parrebbero essere i «luoghi dello spirito» da lei prediletti, dalle montagne dell’Alto Adige alle città universitarie tedesche. Sperando di non essere troppo intrusivi: qual è, in assoluto, il luogo a lei più caro?

«Quello a Parigi è stato un viaggio che ha segnato un prima e un dopo nella mia vita. Andarea Parigi a vent’anni partendo da una provincia piuttosto prudente (quella di Vicenza, ndr.), da un liceo buono e serenamente appagato del suo riprodursi sempre uguale nei decenni è stato un terremoto. Parigi è il centro del mondo. Ho incontrato la bellezza assoluta dei musei, delle sere sulla Senna, dei libri ovunque, modernità accostata al passato con una audacia accolta come normalità del costruire il mondo. E poi lo schianto con la povertà visibile ovunque. Ricchezza e povertà. Bellezza e miseria. E vita vita vita. Ho imparato a tenere insieme tutto della vita. A non avere paura. Ad avere una percezione fortissima del privilegio di essere nata nella parte fortunata del mondo e ad essere grata, ad avere sempre presente che questo è privilegio e che bisogna riparare l’ingiustizia. Tutto questo è venuto da un viaggio. Poi sono andata a Parigi ancora decine di volte, anche solo per un giorno, a ritrovare questo sentimento e a ringraziare. La basilica del Sacré-Coeur, a Montmartre, è per me una meta di pellegrinaggio. Anche letterario. Là passeggiavano Jacques Maritain e Léon Bloy. Nel tempo si è aggiunta la montagna, soprattutto la montagna d’inverno, come luogo del cuore. In alta montagna scrivo e cerco i piedi del trono di Dio».

Oltre che una letteratura, non vi è anche una «mitologia» – in senso deteriore – dei viaggi? Capita che si vada a Roma o ad Agra non per visitare San Pietro o per contemplare il Taj Mahal, ma per farsi fotografare avendo questi edifici sullo sfondo. Forse pensando a comportamenti del genere, Sartre faceva dire al protagonista de «La nausea» che di viaggi e di avventure proprio non ne esisterebbero: da un luogo geografico a un altro, noi porteremmo solo la nostra insoddisfazione («E poi tutto si assomiglia – conclude Antoine Roquentin –: Shanghai, Mosca, Algeri, in capo a una quindicina d’anni è tutto uguale»).

«C’è un viaggiare con i sensi, un sentire suoni nuovi, vedere colori nuovi, ascoltare parole dalla musica nuova e diversa, i movimenti delle persone. Questo viaggiare ci cambia sempre. Poi certo c’è un viaggiare distratto. Il trascinare la propria insoddisfazione può capitare oggi che il viaggiare è facile, non è la conquista di mesi di risparmi, di sogni, di un fare e disfare programmi e itinerari che diventa già un conoscere prima di partire. Può esserci un consumismo del viaggio, come c’è per la cultura, per i forzati dei musei e delle mostre di moda; o come c’è per l’amore, che è “eterno” per qualche mese ed è sempre da esibire e raccontare sui social. È il rischio di una modernità veloce che frulla un po’ tutto. Ma viaggiare rimane sempre una buona
idea».

Nell’ipotesi che a viaggiare veramente si riesca, che tutto non si riduca a stordimento o ai souvenir da acquistare al volo per poterli poi mostrare agli amici: quale sarebbe l’atteggiamento caratteristico di un vero pellegrino, di un «viaggiatore spirituale»?

«La capacità di seguire il proprio viaggio immaginato, sognato, con tutta la libertà possibile. Possibile perché sarebbe artificioso anche lo sforzo di lasciare qui i pensieri. Come si fa a lasciare i pensieri? Si parte con tutto quel che siamo. Ma seguendo un desiderio. Vedere le nevi eterne (parlo per me, vorrei tanto andare in Tibet), entrare in una cultura che affascina: conosco persone che sono andate in Islanda o in Nuova Zelanda sulla strada di questo sogno. Il viaggio spirituale è semplicemente il viaggio che ci trasforma e ci fa riconoscere quel che siamo e che talvolta dimentichiamo di essere perché la nostra vita è un vortice troppo esigente».

Si può riuscire a viaggiare «ogni giorno», anche dopo che si è fatto ritorno a casa? A trovare la novità dello spirito non solo sulle Dolomiti o ad Assisi, ma pure nelle aree più grigie e disanimate delle nostre città, nei «nonluoghi» di cui parla l’etnologo Marc Augé?

«È una conquista. Parte da un atto di volontà e richiede una disciplina. Lo spazio della preghiera o della meditazione o semplicemente del passeggiare come appuntamento con noi stessi, un vedere il mondo che ci circonda. Poi può diventare habitus, può trovare una propria naturalezza questo piccolo vero vivere illuminazioni quotidiane che possono essere il senso di un evento, una piccola gioia trovata nella bufera dei giorni. Ma non viene da solo. Oggi è davvero una conquista».

G. B.

Su L’Eco di Bergamo, 8 maggio 2016

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