rimpianto

Di non aver detto. Di aver urlato i fatti senza conoscere le ragioni. Di non aver creduto o di aver dissipato il credere d’altri. In noi. Il credere in noi. Di aver giurato, promesso, glissato. Governato una vita prudente, in cui ogni natività prometteva uno sconquasso e non è stato difficile trovare silenziosi Erodi in ogni tempo, nostri compagni di omissione. Di aver pensato male, incatenati a un sentire comune che sa per comune ignoranza.
Di non essere stati abbastanza vivi ogni giorno.
Di non aver confessato a nessuno mai il nostro desiderio. Di aver mentito raccontandoci di non aver visto il desiderio degli altri. Né il bisogno.
E non aver cantato mai nessun canto, per paura, superbia, pigrizia. In difesa noi, per gli altri offesa.
Sobbalzare ad ogni affiorare di figura dall’indistinto dell’ombra. Senza saper davvero piangere. E immaginare di poter credere che questo sia forza, concreto tenere i confini del mondo. Tutto intero, colonne a noi stessi.
Ed esser grati al rimpianto, che di colpo ci riconsegna al giorno che viviamo, al riaffiorare non di tutte le possibilità, ma di questa presente, al bene da prendere e dare. A tutto ciò che potremo portare con noi, senza più paura di guardare quel che è stato.
Avvenire, 11 aprile 2012
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