perché il registro elettronico è un’illusione educativa

Sembra una formula magica di minaccia, invece è un progetto di innovazione che coinvolge tutta la scuola italiana. Prevede iscrizioni e certificati online, pagelle elettroniche, registri di classe e personali in formato elettronico. Si chiama “Piano per la dematerializzazione delle procedure amministrative in materia di istruzione, università e ricerca e dei rapporti con le comunità dei docenti, del personale, studenti e famiglie”. Da questo anno scolastico tutto ciò è obbligatorio, però nel modo in cui sono obbligatorie le innovazioni in Italia, ovvero “senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Il che vuol dire che abbiamo tutto il tempo di farci sopra una riflessione.

Si può parlar male del registro elettronico? O almeno guardar dentro a qualche suo effetto collaterale?
La domanda non è se funziona o non funziona. Alla fine certo che sì. Dopo aver trovato le risorse per acquistare o affittare i notebook per tutte le aule di tutte le scuole del regno e per pagare i contratti alle aziende incaricate di risolvere i pluriquotidiani problemi tecnici e di garantire assistenza continua, dopo aver formato tutti gli insegnanti, governato le rivolte per lo stress iniziale da voti scomparsi e da password smarrita, blindato il sistema contro allievi-piccoli-hackerinformatici, alla fine funziona. Poi è un attimo trovare il quadro complessivo dei voti, la media della classe, della scuola, per materia, per provenienza geografica, per sesso, le assenze, le note, i ritardi, ancora per materia e per sesso. Per appartenenza religiosa e situazione sanitaria in teoria no, perché son dati sensibili. Ma il resto sì.

Fin qui siamo (tutti) contenti. Si chiama efficienza ed è proprio da conoscere quello che vorrebbe compilare le pagelle a mano come pochi anni fa ancora capitava. Scrivere i voti uno a uno, e anche le assenze, decine di volte in decine di documenti. No no. Mai più. I voti e le assenze. Il registro elettronico permette di vedere online i voti e le assenze. I genitori dei ragazzi accedono con password e sanno in diretta, in tempo reale, se il figlio è a scuola o no, quale voto ha preso, in quale materia, la media, le note disciplinari, gli esiti intermedi e finali. Tutto tutto. Quel che altrimenti o comunque avrebbero saputo andando a colloquio con i docenti. Lo sanno da casa. Dall’ufficio. Da smartphone.

Dove il registro elettronico c’è da un po’, capita che i genitori non si facciano più vedere ai colloqui con i docenti o alle riunioni della Consulta, basta il voto letto sul video, la media la sanno fare da sé. Come se la valutazione fosse cosa di numeri: niente storia di una conquista da raccontare e condividere, niente alleanza educativa da concordare. La scuola in numeri: quattro-cinque-sei. Oppure i genitori a scuola ci vanno, ma vanno a fine quadrimestre e a fine anno, a contestare il voto in pagella, perché non rispetta la media dei voti monitorata per mesi online. Come se il processo di apprendimento e crescita potesse diventare un numero appunto.

Con bel margine di paradosso, in anni in cui la crisi di partecipazione investe la scuola come tutta la realtà sociale e in cui nascono progetti per riportare i genitori a sentire la scuola realtà propria, a sentire che il “noi” della scuola comprende tutti, noi e loro. Questa iperconnessione sembra ratificare che quel che resta sono i rapporti immateriali. Una spiritualizzazione tecnologica. Fede in una tecnologia che sostituisce la relazione con la connessione. Sicuri che questo sia bene?

È possibile che senza ben pensarci si stia avvalorando un vuoto tremendo. Vuoto di parole dette, di fiducia conquistata. Di fiducia. Non solo fra scuola e famiglie, ma forse e di più fra genitori e figli. Anche se il figlio non parla di scuola, con il registro elettronico il genitore comunque “sa” quel che conta. Il voto. L’assenza. Il marinare la lezione. Subito. L’istante che ci domina. Non c’è per il ragazzo quel tempo sospeso tra ciò che capita e il momento in cui se ne deve o può parlare. Il tempo di pensare, il dispiacere per il voto preso, il proposito di rimediare, il dire sì, è un brutto voto, ma con la promessa già pronta: sto studiando, domani mi faccio interrogare. O sperare che l’impulso di una mattina in fuga da scuola non sia scoperto. Capire da sé che non va bene. Poter ricominciare da un voto non scoperto e riparato, da un bigiare di cui ci si dispiace da soli. Come non c’è per i genitori il tempo per dedicare attenzione a quel che capita, interpretare i segnali, le parole non dette, aspettare quelle che possono arrivare se si lascia il tempo, appunto, e decidere che va bene, stavolta passa, perché il figlio ha capito, e poi vediamo.

Sapere tutto subito placa l’ansia ma non sostituisce la fiducia. Codifica un terreno di ambigua trasparenza. In cui abita anche lo studente che infrange le regole. Uno studente che manometteva o bruciava il registro di classe cartaceo era limpidamente un mascalzone. Uno che viola il registro elettronico è in una confusa posizione di genialità male utilizzata. La notizia recente è che uno di questi studenti nello stesso giorno ha ricevuto, per il suo gesto di hackeraggio scolastico, dalla scuola una sanzione e da un’azienda informatica un’offerta di lavoro.

In una scuola che ha soprattutto bisogno di alleanze concretissime di idee, persone e risorse, il registro elettronico può diventare un abbaglio che ci permette ancora una volta di non vedere quel che capita. Una fondamentale vita di relazioni che si perde. Chi lavora a scuola conosce l’importanza di guardare dritto dritto lo studente, a me gli occhi, nel momento in cui si scopre la firma falsa sull’assenza. Il decidere se dirlo o non dirlo al genitore o al ragazzo stesso, se far capire che si è capito, con lo sguardo che parla al posto delle parole, e basta quello, per sempre.

Più avanza il possibile della tecnologia, più bisogna custodire la materialità delle relazioni. La relazione educativa è incontro. Incontrarsi è un argine all’idea che tutto possa esaurirsi nella virtualità di un rapporto online. Forse è di moda lasciarsi con un sms, a volte anche senza nemmeno quello. Di certo sarebbe indecente bocciare un ragazzo attraverso una comunicazione via web.

La smaterializzazione (orrenda parola, vorrà dire qualcosa il fatto che sia così brutta la parola? Le parole contano, eccome) della scuola può andar bene per l’efficientamento (e qui il lessico vira verso l’horror, ma sta scritto proprio così) delle carte e procedure, certo non per i rapporti, che hanno bisogno del corpo. Gli occhi che scappano, le mani che da adolescenti non si sa dove mettere, la voce che dice la verità, le parole che spiegano, tante parole che spiegano come la fiducia è qualcosa che si costruisce fra persone che si incontrano e parlano, non su un computer che ci denuncia.

Su La Repubblica, 2 gennaio 2013.

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