Intervista sulla scrittura

Nonostante si sia affacciata tardi sulla scena letteraria italiana, Mariapia Veladiano ha subito lasciato il segno. La vita accanto, romanzo d’esordio della scrittrice vicentina, classe 1960, laureata in filosofia e teologia, preside di un Istituto comprensivo di Rovereto, è stato infatti un vero e proprio caso editoriale. Vincitore del Premio Calvino 2010 e del Premio Cortina d’Ampezzo 2011, secondo al Premio Strega 2011. Circa 75 mila copie vendute. Otto ristampe, una nuova edizione all’interno della collana “Numeri primi” dell’Einaudi che comprende i libri più venduti e amati. Tradotto in inglese, francese, spagnolo e coreano. I diritti cinematografici acquistati da un grande regista come Marco Bellocchio. Comprensibile che, dopo un’opera prima di così grande successo, ci sia molta attesa e curiosità per il suo secondo libro, “Il tempo è un dio breve” che uscirà il 23 ottobre, a quasi due anni dal precedente, sempre per Einaudi.

«“Il tempo è un dio breve” – racconta in anteprima al Giornale di Vicenza la scrittrice – parla di una donna giovane, teologa, di nome Ildegarda, che viene lasciata dal marito. Ha un bambino piccolo e si interroga sul male che colpisce questo bambino, nella forma del dolore per l’abbandono del padre, di una malattia che lo minaccia. Dialoga con Dio ininterrottamente e lo chiama alle sue responsabilità. E insieme sente che in gioco c’è quel che crediamo, chi siamo noi, ciò in cui speriamo. Ci sarà un incontro importante nella sua vita. Qualcuno che la può accompagnare in questa ricerca».

È vero che ha cominciato a scrivere il suo nuovo romanzo in contemporanea con “La vita accanto”, circa 12 anni fa? Come mai i suoi libri hanno una gestazione così lunga?

Sì. Cominciato nel 2000, finita la prima stesura nel 2005. Poi lasciato lì, finché scrivevo “La vita accanto”. Poi ripreso e riscritto tante e tante volte. Non aver fretta di pubblicare permette di prendere le distanze da quel che si scrive e di vederne un po’ meglio le cadute, i difetti. In realtà comunque la ragione principale per cui ho bisogno di tanto tempo per scrivere è che cerco il suono delle parole. Le prime narrazioni a noi arrivano prima di aver imparato a leggere, attraverso la voce di una mamma, un nonno. Mi sembra che una narrazione sia fatta di storia e suono e il suono delle parole deve essere un sottofondo che accompagna la storia e mai le parole devono far, come dire, inciampare la lettura. Per cui si legge e rilegge e si cambiano le parole finché questo suono ci sembra abbastanza armonioso. Poi non si è mai contenti, ma ci provo, ecco.

Ci sono delle continuità tematiche rispetto a “La vita accanto”?

Certo che sì. È l’interrogarsi sul male del mondo e sul nostro poterlo combattere.

Qual è il senso di questo titolo così suggestivo?

Il romanzo è nato con questo titolo e del resto tutti i miei scritti nascono con il titolo già scritto. Quando lavoravo per il settimanaele diocesano “La voce dei Berici” mi prendevano in giro perché avevo per gli articoli la “cartella dei titoli”. Titoli che mi sembravano interessanti e che mettevo da parte per articoli che non avevo ancora immaginato di scrivere. “Il tempo è un dio breve” dice che la nostra vita è breve, comunque breve anche se arriviamo a cento anni, ma è nello stesso tempo il nostro essere Dio. Il divino che abbiamo. Sarà ambientato sempre a Vicenza o questa volta ha cambiato luoghi e ambienti? No, è ambientato in parte nella campagna lombarda e in parte nelle splendide montagne dell’Alto Adige. Un luogo di neve e di incanti, dove il dialogo con il divino è quasi naturale. La protagonista è una teologa come lei.

Sarà un romanzo più autobiografico del precedente? Che peso ha la teologia in questo libro e in che modo l’ha usata?

Il precedente era tremendamente autobiografico. Completamente, nei sentimenti e nelle emozioni raccontate. La storia no, anche se si parlava di Vicenza, dove io ho vissuto. Questo lo è meno, perché non c’è Vicenza, perché ha una voluta dimensione di irrealtà, più dell’altro. Certo che poi si incontrano situazioni comuni, in cui un po’ ci si ritrova in tanti: un marito, un figlio, un chiedersi cosa sia la vita, la fede, il male. Ma credo che se uno scrittore vuol fare un libro autobiografico sia tenuto a dichiararlo con chiarezza e a chiamarlo “autobiografia”, oppure “storia della mia famiglia”, per dire. Forse poi è vero che è la nostra vita, il nostro sentire a filtrare la narrazione e i personaggi. Autobiografia dei sentimenti, certo. Ma le storie no. La teologia entra nel libro nella dimensione di un interrogare che non può fermarsi. Un rapporto con Dio che c’è, lo si sente come si sente che c’è un amore.

Ne “La vita accanto” uno degli elementi che colpiva era il suo stile: sorvegliatissimo, raffinato, preciso e nello stesso tempo molto evocativo. Lo stile che ha usato nel nuovo libro è lo stesso o è cambiato qualcosa?

Lo diranno i lettori questo. Io ho cercato in ogni modo una scrittura sorvegliata. È la mia piccola lotta, quella che sempre conducevo anche a scuola, contro la sciatteria del linguaggio che minaccia la nostra possibilità di raccontarci e di capire. E devasta la bellezza del narrare.

Com’è cambiata la sua vita dopo l’uscita de “La vita accanto”?

Un uragano. È arrivato un uragano. Tantissime relazioni, restituzioni di lettori sotto la forma di lettere, mail, incontri diretti nelle librerie e nei gruppi di lettura. Nelle biblioteche. Ho conosciuto un mondo straordinario di persone che leggono e che alimentano l’amore per la riflessione, per il pensare le cose della vita. È una società buona e spesso nascosta, che porta i libri nelle scuole e fra le persone. È stata una gran bella avventura. Si può davvero restare travolti. Mi ha salvato credo il mio lavoro, bellissimo, la scuola, e anche l’età. Un po’ di equilibrio l’età ce lo regala.

Nonostante la scrittura sia sempre stata una sua inseparabile compagna, lei ha pubblicato il suo primo libro a 50 anni. Come mai ha aspettato tanto?

Sì, ho scritto tanto e sempre. Un po’ di tutto: racconti, romanzi, molti diari di viaggio. Non ho mai avuto il desiderio di pubblicare i lavori di narrativa. Avevo la mia “scrittura di servizio”, così ho sempre chiamato la collaborazione con “Il Regno”. Articoli su chiesa e ambiente, chiesa ed economia, etica e ambiente. Di confine, sempre di confine. Un cercare quel che ci unisce, credenti e non credenti. La comune umanità. Ma i racconti, i romanzi li ho sempre considerati un’espressione personale, mia, scrittura privata. Poi in un certo momento ho sentito un desiderio di ascolto. E ho mandato il manoscritto di un romanzo al Premio Calvino.

Lei ha insegnato italiano per molti anni e ora è diventata preside in un istituto comprensivo di Rovereto. La sua professione si riflette in qualche modo nei suoi romanzi?

Certo lavorare nella scuola e con i ragazzi è un privilegio immenso. Vuol dire entrare in relazione ogni giorno con un mondo di emozioni e di desideri e di sogni ancora completamente realizzabili, percepiti come possibili. E lo sono. Ai ragazzi e anche ai bambini dico sempre che l’ora successiva, il pomeriggio che li aspetta non è ancora stato vissuto. Possono viverlo in modo pieno, oppure no, sprecarlo, far del bene, buttarlo. Questa meraviglia di possibilità la scuola deve preservarla e deve dare ai ragazzi gli strumenti per poter costruire ciò che sono. Nei romanzi entra questo mondo di emozioni. Anche tante paure, tante ferite. Ma gli adulti ci sono. Ci siamo e possiamo riparare. La scuola è questo luogo della convivenza possibile, della riparazione, scuola di presente e di futuro. Un tesoro. Guai dissiparlo.

Su Il Giornale di Vicenza, 11 ottobre 2012

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