da rancore a stupore, un sillabario dell’anima

«L’uomo è visibilmente fatto per pensare; è tutta la sua dignità e tutto il suo compito; e tutto il suo dovere è pensare come si deve», diceva Blaise Pascal. Parole che tornano immediatamente alla mente a leggere le pagine di Ma come tu resisti, vita, ultimo saggio di Mariapia Veladiano, edito da Einaudi. Un racconto pubblicato in una sua prima forma lo scorso anno, una pagina alla volta. E qui messo assieme, come un treno di parole sparse che trovano nella forma scrittoria e nella profondità dell’argomentare ciò che maggiormente le unisce. L’autrice scrive che queste parole sono «un minuscolo allargar lo spazio». E anche «pensieri, a volte arrivati in sciame». Comunque le si voglia chiamare una cosa è certa: sono un qualcosa di cui c’è bisogno. Perché se il compito dell’uomo, come diceva Pascal, è pensare, occorre che vi sia qualcuno che faciliti questa azione, accondiscendendola tutti i giorni, in ogni stagione della storia.

“Ma come tu resisti, o vita”, sono parole di san Giovanni della Croce, il grande mistico spagnolo che spingeva l’uomo a spogliarsi del superfluo per giungere in alto, fino a Dio. Una fatica che è possibile a tutti, e che sembra Veladiano abbia voluto assumere su di sé attraverso la fatica dello scrivere quotidiano. Perché dietro ogni suo pensiero messo in pagina sono più rinunce ad apparire. La sintesi invece della prolissità; la centralità al posto dello squilibrio; la messa a fuoco anziché la ridondanza. Così lo “stupore” è «del tempo che rimane», e anche «delle nuvole, delle montagne, del nostro giardino e balcone che sopravvivono al nostro tradire». Il “rancore” è «maniaco, solitario consumarsi sul finire di noi stessi». Mentre le “parole” sono ciò di cui «si può morire», sono l’«eccesso di chi non sa la potenza del proprio parlare»; e ancora sono «specchiate bugie, limpide imposture in cui si crede per arrivare al giorno dopo, e poi a quello dopo,e poi ancorae ancora». Mentre per trovare le giuste parole basterebbe tenere a mente il Siracide – la sapienza di Sirach- per il quale «sulla bocca degli stolti è il loro cuore, i saggi invece hanno la bocca nel cuore».

Avere la bocca nel cuore, appunto. E quindi ponderare le parole. Usarle anche tutti i giorni sapendole però anche trattenere. C’è rinuncia, in questa saggio, e insieme c’è un trattenersi. Chi legge è chiamato a entrare dentro le parole, ma vi è chiamato con discrezione. Ci si può lasciar toccare a piacimento, secondo la propria sensibilità, ignorando alcuni affondi e valorizzandone altri. Chi scrive tracima, trabocca verso fuori ciò che ha dentro. Ma non tutto, bensì una parte. E siccome non vuole imporre un pensiero ma proporre i propri pensieri, chi legge è libero di accogliere come crede, se vuole riflettere, oppure confrontarsi, paragonarsi, e magari a sua volta dire. In fondo, usando un termine parecchio impegnativo, si potrebbe dire che l’azione a cui l’autrice chiama altro non è che contemplazione. Che significa ricevere, anche passivamente, sapendo bene che si può dare, corrispondere. Perché come scrive Alberto Moravia in L’uomo come fine «per ritrovare un’idea dell’uomo, ossia una vera fonte di energia, bisogna che gli uomini ritrovino il gusto della contemplazione».

Nella rinuncia a scrivere tutto, nella ricerca della profondità dello scrivere e insieme della sintesi e della semplicità, ciò che primeggia è l’assenza. «Assenza più acuta presenza», è una citazione di Attilio Bertolucci messa significativamente in pagina da Veladiano. I racconti di Ma come tu resisti, vita sono infatti anche questo: assenza che lascia intravedere, o presagire, una presenza non detta, ciò che nemmeno le parole riescono del tutto a comunicare. Scrive Veladiano: «È un ponte, l’attesa. Si crede che oltre, dopo, ci sia qualcosa, anche se non vediamo bene.

Ma c’è un passo da fare e lo facciamo, a volte sull’impronta segnata da un altro.

C’è un desiderio che mi porta e diventa movimento e se il procedere è senza traccia alcuna capita di pensare che il ponte si costruisca sotto i nostri passi, diventati noi creatori, per grazia». E l’attesa va assecondata senza mai arrendersi. Perché «si può essere stremati e cercar compagnia. O solitudine. Ma arrendersi no».

Paolo Rodari, su La Repubblica, 11 novembre 2013

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